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Legge elettorale. La sinistra pensi alle primarie @DomaniGiornale

Nonostante i classici dotti pareri di giuristi sempre molto generosi con i detentori di potere politico, la più recente neppure originale trovata dei revisori della legge elettorale vigente pone qualche problema di costituzionalità. Infatti, inserire nel simbolo del partito/lista elettorale il nominativo del/la candidato/a alla carica di Presidente del Consiglio cozza, certo indirettamente, e ridimensiona, se non addirittura elimina, più o meno informalmente, il potere costituzionale (art. 92) che viene attribuito al Presidente della Repubblica di nominare lui il capo del governo. Naturalmente, anche questo è uno degli intenti, subito conciliantemente negato dai proponenti, perseguiti da quell’inserimento che, per di più, aggravante, servirebbe ad anticipare la soluzione proposta nel disegno di legge costituzionale sul premierato de noantri.
Già scritto, detto e ripetuto che in nessuna democrazia parlamentare, dalla più antica, quella della Gran (sì, Great) Bretagna alla Germania fino ad una delle più recenti e importanti, quella del Spagna, i simboli dei partiti non contengono mai i nomi dei candidati alla carica di capo del governo, la cui (in)stabilità dipende dalla fiducia del Parlamento, quel nome accarezza e agevola la personalizzazione della politica. Viene ritenuto un modo per raggiungere e mobilitare alcuni settori dell’elettorato accontentando una preferenza mai chiaramente esplicitata che, per di più, non ha nessuna garanzia di essere tradotta in pratica e di essere mantenuta in corso d’opera. Questa osservazione critica vale anche per il cosiddetto premierato che, addirittura, regolamenta la sostituzione dell’eletto (qui proprio non riesco a usare il femminile: l’eletta non si lascerebbe mai sostituire) dal popolo con un prescelto dalla stessa o quasi maggioranza. Insomma, lo stratagemma elettorale si rivela come un trucchetto ad alto potenziale di inganno.
Comunque, poiché l’attuale maggioranza di governo dispone abbondantemente dei numeri parlamentari proverà ad andare avanti a meno che il Presidente della Repubblica non decida di fare ricorso a qualcosa di più incisivo che semplice moral (aggettivo che non troverebbe terreno fertile) suasion. Le opposizioni non possono permettersi di ricorrere a forme di persuasione, con il “moral” non utilizzabile da tutte, costantemente respinte con perdite dalla granitica maggioranza della destra. Sapendo di avere, quando si voterà, anche una volta stilati buoni impegni programmatici comuni, la necessità di segnalare chi diventerà il capo (anche al femminile) del loro governo, dovrebbero con colpo d’ala stabilire che terranno primarie di coalizione. Sarebbe un sano ritorno ad un dolce bel tempo antico: le primarie dell’Ulivo, ottobre 2005, che designarono un candidato poi andato a vincere.
In consapevole e deliberata non presenza di una candidatura dell’allora Partito Democratico della Sinistra, Romano Prodi vinse alla grande grazie al loro esplicito generoso impegno e sostegno. Oggi, anche, ma non solo, per convincere i potenziali alleati, in primis, il Conte stellato, sarebbe opportuno che il PD consentisse quantomeno la praticabilità di più di una candidatura scaturita dai suoi ranghi, ramoscello d’ulivo offerto ai “riformisti” insoddisfatti, ma finora solo bofonchianti. Il resto, che è molto, lo faranno gli altri candidati, di partito oppure no. Dovranno andarsi a cercare gli elettori vantando la propria biografia personale, professionale, politica. Argomenteranno le loro priorità programmatiche e le loro capacità di dare soluzioni non soltanto ai problemi più urgenti. Esalteranno la loro capacità di tenere unita la coalizione senza permissivismo, ma con vigore e rigore. Chi vincerà non soltanto ne saprà di più sullo sparso elettorato progressista di questo paese, ma potrà vantare una notevole legittimità di leadership. Questa delle primarie è ad ogni buon conto un’ottima, forse la migliore, modalità di scelta delle candidature in competizione, di coinvolgimento degli elettori e di personalizzazione della politica.
Pubblicato il 15 ottobre 2025 su Domani
PD, un’ambizione fallita
Intervista raccolta da Marco Testino per L’INDRO
La storia della sinistra italiana continua ad essere segnata da divisioni e conflitti. Lo è stata sin dai suoi albori, dal quel 1892, quando a Genova nacque il partito socialista (allora Partito dei Lavoratori Italiani) e già con Carlo Dell’Avalle, il primo Segretario, iniziarono a manifestarsi le prime incertezze. La prima scissione, visto che oggi parliamo di questo, arrivò nel 1921, dopo scontri tra massimalisti e minimalisti che condussero alla creazione del Partito Comunista d’Italia. Poi, durante la Guerra Fredda, ecco arrivare lo scontro tra Giuseppe Saragat e Pietro Nenni, dal cui aspro confronto nasce un’altra costola, il Partito Socialista Democratico Italiano.
Altro evento choc per la sinistra nostrana il crollo del muro di Berlino, con il Partito Comunista che conclude il proprio percorso politico e la nascita, ad opera di Achille Occhetto, del Partito Democratico della Sinistra. Dall’altra però ecco arrivare la fondazione da parte di Armando Cossutta, Ersilia Salvato e Lucio Libertini del ‘radicale’ Partito della Rifondazione Comunista, che non avrà vita semplice, visto che nel 1998, in pieno marasma del Governo Prodi, subisce l’ennesima scissione che porta alla nascita dei Comunisti Italiani. Il Pds anche cambia pelle, arrivano i Democratici di Sinistra, con Massimo D’Alema e Walter Veltroni come primi segretari, poi dalla fusione dei Democratici di Sinistra ed alcuni membri della Margherita, arriva nel 2007 un altro passaggio storico, ossia la nascita dell’attuale Partito Democratico. Non ultima poi la scissione di una parte della sinistra con la creazione di Sinistra, Ecologia e Libertà (SEL). Ma la galassia della sinistra continua a muoversi ed ecco che una nuova scissione è pronta a sconvolgere il Pd, che ai più è sembrata solo una convivenza forzata tra elementi troppo diversi per trovare una sintesi vera.
Gianfranco Pasquino, politologo e accademico italiano, considerato tra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, ci fa luce sulla questione:
Rispetto alle tante scissioni intestine alla Sinistra nel corso degli ultimi novant’anni, cosa c’è di diverso in quello che sta accadendo al Pd oggi?
Di scissioni nella sinistra italiana ce ne sono state diverse, ognuna deve esser valutata in base al partito e in riferimento alle tematiche che hanno portato alla scissione stessa. Certo, paragonare la scissione del partito comunista nel 1921 con quella di coloro che oggi vanno via dal Pd lo trovo poco in linea, bisogna ricordare che anche altrove la sinistra perde ed ha perso pezzi, come per il partito socialista in Francia che al tempo perse un pezzo chiamato poi Partito Socialista Unificato, o come in Inghilterra con i laburisti che nel ’82 persero un pezzo che poi si chiamò Alleanza Socialdemocratica, o come in Germania laddove la Socialdemocrazia perse un pezzo che si è poi riconfigurato nascendo dalla fusione tra il Partito della Sinistra ed il movimento Lavoro e Giustizia Sociale chiamandosi Die Linke. Anche i socialisti spagnoli han perso un pezzo che poi ha preso il nome di Podemos; inevitabilmente, la sinistra subisce scissioni, specialmente laddove non si riesce a raggiungere un comune accordo.
Quali sono stati gli elementi che hanno determinato nel corso del tempo questa scissione?
La Sinistra guarda al cambiamento, una parte è disponibile a cambiare molto e l’altra invece tende ad esser meno propensa a farlo; talvolta il cambiamento può esser un successo ma in questo caso la sinistra si ritrova ad esser colpita, la sinistra deve esser analizzata considerandola di base volta al progresso. I Paesi che non hanno naturale propensione ad un progresso repentino e non lo pretendono dalla sinistra, mantengono un partito unito; i Paesi in costante cambiamento non potranno che avere una sinistra instabile di natura, vuoi per ragioni culturali e generazionali. Questo porterà a decidere se velocizzare o rallentare il processo di cambiamento, sia per andar più in fretta, sia per timore di perdere pezzi preziosi.
Qual’è stato il problema di fondo del Partito Democratico e in che modo si sta muovendo e configurando la sinistra italiana al riguardo?
Il problema del Partito Democratico è che non è diventato quello che i fondatori speravano diventasse, ovvero fin dagli inizi il Pd è stato un caso di ’fusione fredda’ tra una Margherita principalmente ex democristiana con una componente prodiana e gli ex comunisti, che in modo curioso mettevano assieme il meglio della cultura riformista senza pero riuscire a mantenere intatta una riflessione o tantomeno una produzione di cultura dal partito; quello che vediamo ad oggi è il parto di una leadership senza cultura, perché questo è Renzi e la sua amministrazione, o anche la Serracchiani, nessuna cultura politica. Da un lato abbiamo la gestione di Renzi, sprovvista di un’adeguata cultura politica, dall’altra parte quelli che non hanno saputo migliorare e rinnovare i brandelli di quel che un tempo poteva esser considerata cultura politica. Il problema è identificabile dall’inizio, ricordiamo che il Pd è un partito giovanissimo e non riuscendo a produrre alcun tipo di cultura, inevitabilmente ha portato ad una scissione tra la persona di Renzi, assolutamente divisiva e le altre personalità politiche, non aiutando la coesione del Pd stesso.
Parlavamo di Podemos, rispetto alle altre sinistre europee, cosa c’è di diverso rispetto alla nostra e cosa bisogna prendere come spunto per riuscire a progredire evitando ulteriori scissioni e problematiche?
La differenza principale è che la Sinistra italiana ha una componente ex comunista, in tutti gli altri Paesi la componente maggioritaria è socialista invece, come lo è stata in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna. La grossa differenza è che qui non c’è stata una fase socialdemocratica. Chi ha messo su il Partito Democratico doveva assimilare la componente socialdemocratica, non riuscendoci e portando agli esiti che già conosciamo.
La minoranza ‘secessionista’ del Pd come si sta configurando? La questione di cultura politica riformista verrà abbandonata?
Se invece del porre attenzione all’urgenza drammatica del tenere il congresso in tempi brevi Renzi avesse preferito una conferenza programmatica, sicuramente ci sarebbe stata la base di un dibattito culturale; in assenza di tale presupposto, i rimanenti dovranno cercare di conquistare consenso ed essere presenti nella vita politica; in ogni caso il dibattito culturale è stato rimandato fin troppo. Tra gli interventi in assemblea ve ne sono stati solo due rilevanti dal punto di vista culturale, il primo da parte di Epifani che definiva un partito riformista di sinistra, l’altro invece da parte di Veltroni che ridefiniva quello che non è riuscito a fare nella fase di struttura del Pd.
Pubblicato il 22 febbraio 2017 su L’INDRO

