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Quale partito per il prossimo segretario del PD?
Dalla rumorosa cavalcata di Veltroni nell’estate-autunno 2007 fino all’inusuale ri-elezione nel 2017 di un ex-segretario sconfitto al referendum costituzionale, le battaglie (impropriamente definite “primarie) per la conquista della segreteria del Partito Democratico hanno regolarmente eluso il tema di “quale partito” debba essere il PD. Tutti i potenziali segretari hanno raccontato qualche storia più o meno credibile, più o molto meno nuova, più o meno infiorettata, sulle “magnifiche sorti e progressive” che avrebbero introdotto nel governo del paese. Con quale partito non si è saputo mai. Con quale successo lo si è visto poi. Nelle democrazie contemporanee, alla faccia di tutte le estemporanee analisi che accentuano la personalizzazione della politica (in Svezia? Norvegia? Danimarca? Finlandia? Germania? Gran Bretagna? tutte democrazie davvero pochissimo “personalizzate”, e altre se ne potrebbero aggiungere), che sostengono che i partiti sono spariti, che trovano, per assolvere gli italiani, inconvenienti simili alla sgangherata politica italiana un po’ dappertutto, i partiti continuano a esserci, in uno stato di salute accettabile, e quelle che chiamiamo crisi della democrazia sono problemi di funzionamento nelle democrazie. Quei problemi sono più evidenti e più gravi proprio laddove i partiti sono più deboli. Incidentalmente, le alternanze al governo non sono mai la causa dei problemi, ma neppure la loro magica soluzione. Marco Valbruzzi mi ha insegnato che quelle alternanze frequenti sono semplicemente il prodotto della competizione fra partiti indeboliti che non riescono a mantenere “fermo” il consenso ottenuto da una elezione alla successiva. La volatilità elettorale è inevitabilmente più alta dove i partiti sono “qual piume al vento” e non dove sono radicati. Sulla volatilità del consenso del PD, se i dirigenti del partito smettessero di raccontarci i loro sogni e studiassero un po’ di analisi elettorali, qualcosa potrebbero imparare. La prima lezione è, come si conviene, tanto elementare quanto fondamentale. Laddove l’organizzazione del partito tiene il consenso elettorale fluttua poco. La seconda lezione è quella operativa. Se i dirigenti del partito si occupano di cariche e di carriere e non della presenza organizzata sul territorio, anche le cariche e le carriere diventano a rischio. Allora, bisogna proteggerle con le candidature multiple e le nomine dall’alto. La legge Rosato ha avuto questo unico esito protettivo che, naturalmente, prescindeva dallo stato del partito ed è andato a scapito della rappresentanza politica.
La campagna per l’elezione del prossimo segretario è sostanzialmente già partita, “sottotraccia” dicono i retroscenisti, ma già narrata in maniera più o meno fake da giornaliste e giornalisti che hanno fonti amiche. Sappiamo di contrapposizioni fra persone, con l’obiettivo prevalente del due volte ex-segretario (e lo scrivo due volte apposta) di bloccare chi è a lui ostile, per un insieme di ragioni che nulla hanno a che vedere con le modalità con le quali sarà ricostruito il Partito Democratico oppure si porranno le premesse per un altro partito. Che Renzi e i renziani siano totalmente disinteressati al PD è lampante. Con grande loro compiacimento personale, hanno nel tempo consentito a Ilvo Diamanti di scrivere tre o quattro articoli su “Repubblica” centrati, pardon, sbilanciati proprio a favore del Partito di Renzi (PdR). Tuttavia, un partito è più di una fazione di carrieristi e, quando i carrieristi perdono, il deflusso di parte di loro, spesso senza un ancoraggio sul territorio (anche perché paracadutati), è fisiologico, alla ricerca di chi offrirà altre opportunità di carriera. Qui sta, naturalmente, il problema di come (ri)costruire il partito sostituendo parte grande di quella classe dirigente. Dal mio allievo Angelo Panebianco ho imparato molto tempo fa che i partiti non possono mai cambiare completamente. Cambiano attraverso spostamenti interni che producono nuove coalizioni dominanti. In questo modo, è nato, frettolosamente e balordamente, nonostante le critiche apertamente rivoltegli, il PD.
Probabilmente, gli spostamenti cominceranno a fare la loro comparsa al momento delle candidature alla segreteria. In particolare, non tanto curiosamente, conteranno le “desistenze” a favore di chi. L’ultimo ex-segretario vorrà certamente continuare, scrivono le giornaliste, a dare le carte, ma quante carte gli saranno restate? Il punto, che dovrebbe preoccupare di più chi pensa che senza partiti e senza un’opposizione strutturata sul territorio nessun sistema politico può funzionare in maniera decente e nessuna democrazia può avere una qualità accettabile, è che i candidati dovrebbero formulare prioritariamente con il massimo di chiarezza possibile la loro idea di partito e non annunciare un programma di governo, per un governo che senza un partito decente non formeranno mai. Schematicamente (estesamente, riflessioni e proposte di notevole qualità si trovano nel volume di Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Regole e democrazia interna del PD, di prossima pubblicazione), ecco i temi da trattare: iscritti, sedi, attività, modalità di consultazione e decisione, procedure per la scelta dei dirigenti e dei candidati, e, oso al massimo, “cultura politica” (quindi, anche strumenti per la formazione). Nulla di tutto questo è particolaristico e specialistico. Questa è politica: come rapportarsi alle persone, come rappresentarne idee, preferenze, emozioni, come contribuire alla loro capacità di comprendere e di fare politica. Per rendere meno sgradevole l’inverno del nostro scontento.
Pubblicato il 7 settembre 2018 su PARADOXAforum
Perché Prodi ha commesso un errore
Fino a qualche mese fa, Romano Prodi dichiarava di avere “piantato” la sua tenda fuori dal Partito Democratico. Poi, partecipò al velleitario tentativo dell’ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia, di costruire un Campo Progressista e lo sostenne, seppur non molto intensamente. In generale, non fece mai mistero di essere distante da non poche politiche e dallo stile di Matteo Renzi. Improvvisamente, l’altro ieri ha dichiarato che voterà Partito Democratico, proprio quando il PD, con la formazione delle liste per il Parlamento, è definitivamente diventato il Partito di Renzi, addirittura, pronto, è opinione diffusa, a fare un governo con Berlusconi, l’avversario storico di Romano Prodi. Potrebbe, in effetti, essere stata proprio la formazione delle liste a dare la spinta, certamente richiesta dai dirigenti del PD, affinché Prodi si pronunciasse ufficialmente. Infatti, nelle liste sono collocati tre collaboratori di lungo corso di Prodi, fra i quali la sua loquacissima portavoce, che, altrimenti, difficilmente avrebbero trovato spazio nell’epurazione renziana.
Prodi avrebbero forse potuto risparmiarsi l’attacco a LiberieUguali i quali non sarebbero, secondo lui, a favore della “coalizione” e dell’unità, dimenticando che, per quello che riguarda Bersani, suo “antico” e bravissimo ministro, è stato Renzi a spingerlo fuori dal PD. Quanto alla coalizione, non saranno i sei o sette strapuntini parlamentari offerti a Insieme (dove stanno i prodiani) e a +Europa (dove ci sono i radicali di Emma Bonino) a fare del PD di Renzi una sinistra plurale. Né Prodi può pensare che il pluralismo della sinistra verrà agevolato dall’elezione di Beatrice Lorenzin e di Pierferdinando Casini quest’ultimo come senatore del PD proprio nel collegio in cui Prodi andrà a votare. Nel passato, le dichiarazioni di Prodi a sostegno di candidati e di tematiche non sono proprio stati brillantissimi. Nella campagna per sindaco di Bologna nel 2009 Prodi scese in campo a sostegno del candidato del PD Flavio Delbono che fu, prima costretto ad andare al ballottaggio, poi sette mesi dopo l’elezione, dovette rassegnare le dimissioni e, accusato di peculato, truffa aggravata e abuso d’ufficio, patteggiò due volte per evitare la possibile condanna. Più di recente, dopo mesi di riflessioni e di critiche, pochi giorni prima del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, Prodi annunciò il suo sofferto “sì” che, evidentemente, non deve avere spostato moltissimi voti. Adesso, comunque, che sposti voti oppure no, quel che è in discussione riguarda più che il sostegno dato al PD, i cui dirigenti leggono giorno dopo giorno sondaggi molto preoccupanti, la sua critica a LiberieUguali, che contiene un tentativo di sostanziale delegittimazione.
Qualcuno potrebbe pensare, personalmente non lo escludo, che Prodi stia ancora consumando la sua vendetta nei confronti di D’Alema accusato di avere seppellito l’Ulivo e di essergli subentrato come capo del governo nel 1998 e poi, forse, di avergli sbarrato la strada al Quirinale nel 2013, ma non si è mai trovato chi aveva la pistola fumante in mano. Ad ogni buon conto, chi vuole (ricostruire) l’unità delle sinistre non può pensare che la faciliterà e otterrà accusando esclusivamente una delle componenti, vale a dire LiberieUguali. Né può pensare che il recupero di una manciata di voti che potrebbero non andare a quello schieramento, ma, con qualche dubbio, al PD, servirebbe a convincere Renzi che deve aprire le porte del suo partito accettando e, talvolta, valorizzando il dissenso. Tecnicamente, salvo fatti nuovi e imprevedibili, Prodi ha rilasciato un endorsement irresponsabile, vale a dire senza tenere in considerazione le sue probabili conseguenze, nessuna delle quali appare al momento positiva. La coalizione si forma quando si trova un terreno d’accordo, non con la subordinazione a una maggioranza pigliatutto. L’endorsement di Prodi non porterà vantaggi al PD di Renzi e non farà avanzare nessuna sinistra plurale. Non è affatto detto che questo sia l’obiettivo principale dell’ex-leader di un Ulivo che fu.
Pubblicato AGL 1 febbraio 2018
Il Lingotto degli sbadigli
C’era una volta un partito, autodefinitosi «democratico», il cui segretario aveva subito tre gravi sconfitte una dietro l’altra: le elezioni amministrative in giugno, un importante referendum in dicembre, un pezzo di dirigenti e militanti alla fine di febbraio. Il segretario, dimessosi dalla presidenza del Consiglio, come aveva promesso parecchio tempo prima, ma non ritiratosi dalla vita politica, come aveva egualmente promesso, lanciò il procedimento statutariamente previsto per l’elezione del nuovo segretario. Da posizione di forza, in quanto segretario uscente, organizzò la sua convention in un luogo simbolo (dove una volta c’erano gli operai metalmeccanici) all’insegna dello slogan «Tornare a casa per ripartire insieme». Trattandosi del lancio della candidatura a segretario di un partito organizzativamente disastrato (giungevano anche rumori di tesseramenti truffaldini e invalidati, di blocchetti di tessere comprate, fenomeni, peraltro, non nuovi), qualcuno si aspettava legittimamente un serrato dibattito sullo stato del partito, sulla sua conduzione, sulla sua presenza sul territorio, sul suo funzionamento, sul suo futuro. Fra gli «attendisti» non si trovavano i commentatori scafati e i giornalisti retroscenisti, troppo difficile per loro chiedersi che cosa è, può essere, dovrebbe diventare un partito in termini di strutture e di personale politico. Ancora più difficile andare a raccogliere numeri, magari in una anche corta serie storica (dal 2007 al 2017? oppure soltanto nel periodo renziano), relativi agli iscritti e al loro andamento, alle loro fasce d’età, alle loro attività lavorative. Quel che non fanno giornalisti e commentari faranno certamente, in un partito decente, i dirigenti, meglio se sono quelli «responsabili dell’organizzazione». Almeno così funzionava un partito predecessore, quello comunista. Talvolta, messi alle strette anche i dirigenti dell’altro partito predecessore, la Democrazia cristiana, raccoglievano e davano i numeri. Nei loro congressi entrambi parlavano dello stato del partito, consapevoli che le politiche sono variabili dipendenti dalla capacità di un’organizzazione di formularle, farle procedere nelle sedi opportune, a cominciare dal Parlamento, portarle ai loro iscritti e militanti che le pubblicizzino, non con uno/cento/mille tweet e like, ma discutendo con altre associazioni e con gli elettori.
Tecnicamente, anche dopo la scissione, il Partito democratico è l’unico organismo che merita in Italia l’etichetta di partito. Toccava al candidato segretario e ai suoi sostenitori cogliere l’occasione del Lingotto per disegnare, in un confronto di idee e di proposte, quale modello di partito desiderano costruire nel prossimo, vicino futuro. Sì, una riflessione autocritica sarebbe stata utile. Qualcosa, o molto, è andato storto proprio nelle attività del partito. Capire che cosa e sapere chi sono i responsabili servirebbe a evitare errori simili e a rimuovere dalle loro posizioni chi li ha commessi. Dopo tanti discorsi e annunci su Partito della Nazione e Partito di Renzi, ascoltare i pro e i contro di ciascuna opzione, magari aggiungendone altre, non già sorpassate, come il partito «leggero», e sentirle discutere, sarebbe stato doveroso. Infine, per tutti coloro che pensano, sulla base di buone letture e di analisi comparate, che un partito diventa e rimane tanto più solido quanto più si basa su una cultura politica condivisa in grado di interpretare la società e il mondo, ascoltare di quale cultura è fatto il Pd, che non è riuscito ad amalgamare le fatiscenti culture cattolico-democratica e comunista, e neppure altri riformismi deboli, sarebbe stato confortante.
Invece, al Lingotto si è eseguita l’unica operazione che Renzi conosce: combinare, sul facsimile delle Leopolde, proposte programmatiche con la passerella per ministri nessuno dei quali ha parlato né di partito né di cultura politica né di come ristrutturare, anche con l’apporto di una legge elettorale adeguata, il sistema dei partiti e le modalità della competizione, né di come dotarsi di un sistema di riferimenti e di valori che ricompattino una società slabbrata, confusa, corporativa: altro che ipocritamente lodata come più veloce della politica! Insomma, al Lingotto sono mancate tutte le riflessioni indispensabili sia per «tornare a casa» sia «per ripartire»: con quale veicolo? «Insieme» a chi? Con quale visione? Non resisto a non citare le parole conclusive del racconto di Marco Imarisio pubblicato sul «Corriere della Sera» (12 marzo, p. 6): «E pazienza per gli sbadigli».
Pubblicato il 15 marzo 2017 su la rivista il Mulino
Boomerang e consenso a 5 Stelle
Oramai alle soglie di un’importante tornata di elezioni amministrative, non solo in grandi città: Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli, il Movimento Cinque Stelle si trova sotto attacco. Proprio perché eventuali vittorie di suoi candidati, in special modo a Roma, potrebbero essere un trampolino di lancio per le elezioni politiche, il vento della critica, politica e dei mass media, si è messo a soffiare contro, possente. E’ vero che il comune di Quarto, con sindaco e giunta a Cinque Stelle indagati per infiltrazione camorrista, non è assimilabile alla lunga storia di Mafia capitale, ma, avendo i grillini posto a fondamento della loro attività politica il principio dell’onestà, costituisce un punto dolentissimo. E’ altrettanto vero che in alcuni comuni, da Gela a Livorno, le amministrazioni delle Cinque Stelle stanno incontrando moltissimi problemi, anche se non molto dissimili da quelli di amministrazioni “tradizionali”. Però, avendo i rappresentanti delle Cinque Stelle vantato la loro qualità di essere cittadini come gli altri e sostenuto che si può fare politica, anche meglio, senza esperienza alcuna, quei casi dicono che la politica è una cosa molto più complessa di quello che loro immaginano. Suggeriscono anche che, forse, al momento cruciale dell’eventuale ballottaggio nazionale con il Partito di Renzi, molto elettori potrebbero preferire affidarsi a chi, comunque, qualche esperienza di governo, bene e male, l’ha già avuta.
Ai problemi delle ammistrazioni locali delle Cinque Stelle, si aggiungono le defezioni e le espulsioni dai gruppi parlamentari, mai un bello spettacolo, in tutto, finora tra un quinto e un quarto degli eletti. Alcuni se ne vanno poiché non condividono la linea politica, in verità mai chiara. Altri sono espulsi proprio perché criticano la linea politica e vorrebbero cambiarla. Quel che a me pare peggio è la sostanziale adesione della base grillina alla linea dura, oltranzista, nei confronti dei dissidenti di qualsiasi tipo. Qualcuno potrebbe sostenere che sono tutti incidenti di percorso, ma che, in effetti, ad esempio, in Parlamento, dopo l’iniziale fase di settarismo e isolamento in nome della purezza, i rappresentanti del Movimento hanno imparato tecniche e modalità di influenza. Qualcuno potrebbe, invece, sostenere che i problemi attuali sono destinati a restare. Sono problemi naturali in un Movimento senza precedenti, a leadership esterna, sostanzialmente autoritaria, a due teste (Casaleggio e Grillo) non sempre convergenti.
La mia opinione è che, da un lato, siamo di fronte a problemi congiunturali derivanti dalla crescita del Movimento e dalla sua espansione geografica. Alcuni di questi problemi saranno risolti con una migliore selezione dei candidati, con l’apprendimento che deriva dalla carica e dal tempo, con l’acquisita consapevolezza che fare politica è un lavoro complesso. Dall’altro lato, i problemi sono strutturali. Un Movimento fatto da persone che non si conoscono e non hanno esperienze condivise, che comunicano in maniera sommaria con gli strumenti della rete, che sono motivati soprattutto da un attacco frontale alla politica della democrazia rappresentativa e delle sue indispensabili mediazioni, non può purgarsi del settarismo che è uno strumento potente anche per continuare ad attrarre i molti italiani che sono, per buone e per cattive ragioni, insoddisfatte della politica e della democrazia, in Italia e nell’Unione Europa.
E’ improbabile che gli insoddisfatti si facciano allontanare dal Movimento perché non condividono le espulsioni oppure a causa di qualche caso di mal amministrazione locale. Per gli insoddisfatti il bersaglio grosso è l’assalto a Palazzo Chigi, la conquista del governo nazionale. Tutti i sondaggi danno in crescita costante le percentuali di potenziali elettori del Movimento Cinque Stelle. Insomma, ancorché spesso impreparati, talvolta inadeguati, non sempre capaci di una linea politica chiara, i candidati delle Cinque Stelle sembrano tuttora destinati a beneficiare del consenso di molti elettori che combinano la critica alla politica esistente con qualcosa di indefinito, ma molto diverso, da Quarto a Roma.
Pubblicato AGL 10 gennaio 2016