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La rivista di un tempo che fu #Mondoperaio
Pubblicato in “Mondoperaio”, dicembre 2018 (pp. 39-42)
Quando un partito smette di elaborare idee, la sua funzione complessiva praticamente si esaurisce. A riprova, i partiti-non partiti italiani contemporanei, da qualche tempo privi di qualsiasi elaborazione culturale, si aggrappano a brandelli di potere, a Fondazioni e a oscure piattaforme soltanto per stare a galla. Non dipende solo dal fatto che nessun non-partito può permettersi una (non)scuola di partito. È che i protagonisti della scena politico-parlamentare italiana non hanno nessuna cultura politica, nessuna idea politica guida da trasmettere. Non faccio eccezione neanche per il Movimento Cinque Stelle poiché nessuna delle loro esperienze Meet up e altro ha il compito di formare una cultura politica. Forse, ma è un suggerimento al limite dell’oltraggio, invece di affidarsi alla Piattaforma Rousseau, potrebbero leggere sia Rousseau sia qualche altro illuminista. Questa breve digressione è necessaria per affermare un principio fondativo. Le idee vanno elaborate con riferimento alla visione della società che si desidera costruire, per negazione e per affermazione, ma anche nello scontro politico, nella orgogliosa rivendicazione di identità e di autonomia. Nella Repubblica italiana le riviste in qualche modo, con poche eccezioni, collegate ai partiti, sono state il luogo preminente di elaborazione politica. Senza dubbio “Mondoperaio” ha occupato, seppur con alti e bassi, un posto di rilievo fra le riviste di cultura politica. La sua storia e la sua incidenza non possono essere ridotte unicamente al conflitto con i comunisti, dotati di un considerevole apparato di strumenti di comunicazione politica. Mi limito a segnalare il settimanale “Rinascita” e il trimestrale “Critica marxista”, più tardi anche “Democrazia e diritto”. Quando sia il PSI sia “Mondoperaio” si “arrotolarono” intorno a Craxi, ho iniziato a collaborare su loro richiesta con notevole frequenza tanto a “Rinascita” quanto a “Democrazia e diritto”. Quando Covatta me lo chiederà potrei persino scrivere qualche nota comparata. La storia di “Mondoperaio” è anche quella di un partito che era convinto che gli intellettuali dovessero avere spazio di elaborazione e di intervento e che sapeva ascoltarli e, entro (in)certi limiti valorizzarli. L’elaborazione e la valorizzazione non poterono più continuare quando Craxi recuperò Proudhon (si noti che ho evitato il verbo riesumare), con il quale non era sicuramente possibile andare verso il rinnovamento del socialismo. Infatti, da nessuna parte in Europa, tantomeno in Francia, si guardò a Proudhon (per una discussione approfondita di quel recupero, delle sue motivazioni e delle sue conseguenze utilissimo è il volume curato da Giovanni Scirocco, Il vangelo socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, Torino, Nino Aragno Editore, 2018, che riporta il testo di Craxi e il carteggio fra un socialista milanese Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani).
Non è banale iniziare sottolineando che certamente e inevitabilmente il contrasto con le idee comuniste e con le prassi del PCI, non riducibile esclusivamente alla giusta e doverosa, quanto difficile, ricerca da parte del PSI di maggiore spazio politico, fu frequente e rilevante sulle pagine di ”Mondoperaio”. Tuttavia, soprattutto, sotto la direzione di Federico Coen, nei difficili anni settanta, quando il PSI toccò il punto più basso del suo consenso elettorale e della sua presenza culturale, fu “Mondoperaio” a tentare e sostenere un’ambiziosa operazione di rilancio e di formulazione di una moderna culturale politica. Giusto fu ingaggiare quello che Amato e Cafagna definirono Duello a sinistra: socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘settanta (Bologna, Il Mulino, 1982). Giusta, ma forse non sufficiente, fu l’attenzione ai socialisti spagnoli, portoghesi e del PASOK: l’ascesa del socialismo mediterraneo conteneva insegnamenti che non abbiamo sfruttato adeguatamente. Giusto fu anche prendere ispirazione da François Mitterrand che si era proposto di erodere il consenso del Partito comunista francese (non solo filo-sovietico, ma sostanzialmente ancora stalinista), al tempo stesso, però, cercando di ampliare l’area complessiva della sinistra. Troppi, invece, pensarono, alcuni anche sulle pagine di “Mondoperaio”, che sarebbe stato sufficiente, sottovalutandone l’enorme difficoltà e la grande improbabilità, un travaso di elettori dal PCI, “esploso” quantitativamente grazie alla sua proposta di compromesso storico della quale per qualche tempo era rimasto prigioniero, per poi entrare in grande confusione strategica orientato a una mai meglio definita “alternativa democratica” (forse, percependosi, autocriticamente, ma ci vorrebbe uno psicanalista lacaniano, sì come alternativa, ma non proprio/non del tutto “democratica”?).
Perdere voti, come successe per tutti gli anni ottanta, non sarebbe bastato al PCI per cambiare linea. Aveva, naturalmente, ragione Norberto Bobbio, e doppiamente. Primo, bisognava dialogare con i comunisti e persuaderli a “socialdemocratizzarsi” (Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976), ma neppure Bobbio andò a fondo su questa auspicabile trasformazione, anteponendole la davvero complessa formazione di un partito unico dei lavoratori. Secondo, era indispensabile ripensare la sinistra. Qui si colloca un mio personale “coming out”. Dall’inizio degli anni settanta mi trovavo proprio lì: fra il PSI di De Martino, e il PCI di Berlinguer per due ragioni. Ero, prima ragione, analiticamente e politicamente convinto che bisognasse costruire una alternativa alla DC attraverso un’alleanza fra PSI e PCI entrambi trasformati. Seconda ragione, pensavo che, sfidato e portato sul piano dell’alternativa, il PCI sarebbe stato costretto a abbandonare la sua linea pro-sovietica diventando un plausibile partito di governo. Nel 1976 e 1979 fui molto lieto quando il PCI candidò e fece eleggere Altiero Spinelli al Parlamento Europeo, ma non bastava. Lo dirò meglio, ma anche più ingenuamente: ero schierato sulla frontiera dell’scelta di sinistra. Quella frontiera si poté allora, per cinque–sei anni, difendere e fare avanzare con qualche prospettiva, seppur non grande, di successo scrivendo, dialogando, polemizzando, elaborando idee sulle pagine di “Mondoperaio”. Senza nessun pentimento da allora sono stato un compagno di strada, promiscuo, disposto a fare tutta la strada necessaria in compagnia di coloro che volessero e operassero per l’alternativa. Oggi, la strada appare tutta in salita, qualcuno è giunto alla conclusione che in cima non c’è neppure più l’alternativa. Sostengo, l’ho letto da qualche parte (probabilmente nelle pregevoli memorie di Sisifo) che quello che conta è il viaggio, ovviamente fatto in buona compagnia. In quegli anni, la compagnia dei collaboratori di “Mondoperaio” era probabilmente la migliore trovabile in Italia. Poi si è dispersa e alcuni hanno preso una strada che non potevo percorrere se volevo, e lo volevo, restare fedele alla mia certa idea di “alternativa di sinistra”.
Furono numerosi gli articoli pubblicati su “Mondoperaio” intesi a cogliere l’essenza della sinistra vincente di Mitterrand: plurale, federata, con forte presenza sul territorio, dotato di una cultura politica moderna, capace di attrarre e di valorizzare un non piccolo mondo intellettuale e di grands commis. Anche il sistema istituzionale della Quinta Repubblica francese, semi-presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno contribuì significativamente al successo di Mitterrand (“le istituzioni della Quinta Repubblica non sono state fatte per me, ma me ne servirò”–cito a memoria la sua dichiarazione subito dopo la prima elezione alla Presidenza nel 1981). Alla Francia guardò l’allora già molto autorevole collaboratore della rivista Giuliano Amato, com’è facile notare rileggendo il suo libro: Una Repubblica riformare (Bologna, Il Mulino, 1980). Vi fece riferimento esplicito anche Giuseppe Tamburrano, Perché solo in Italia no (Roma-Bari, Laterza, 1983). Per quanto non sempre con la precisione necessaria –infatti, tuttora, non sono pochi coloro che accomunano, sbagliando alla grande, il presidenzialismo USA al semipresidenzialismo francese e non sanno cogliere le grandi opportunità politiche, non solo elettorali, del doppio turno in collegi uninominali, i socialisti e “Mondoperaio” posero la questione istituzionale al centro del dibattito. Sottolineo qui la centralità del doppio turno in collegi uninominali (nulla a che vedere con l’Italicum) nel consentire, anzi , imporre a socialisti e comunisti francesi di giungere ad accordi al primo o, molto più frequentemente, al secondo, turno, ma aggiungo che, come congegnato in Francia, il doppio turno per le elezioni parlamentari offre grandi opportunità ai (candidati dei) partiti non estremi, garantendo anche un ruolo insostituibile, quindi da premiare ai (candidati dei) partiti estremi disposti a formare coalizioni. Purtroppo, l’azione dei parlamentari socialisti nella Commissione per le riforme istituzionali (novembre 1983-febbraio 1985) presieduta da Aldo Bozzi, non andò affatto in direzione “francese”.
Le parole di oggi, ancorché alquanto appannate, democrazia maggioritaria, bipolare, alternanza, hanno radici in quel dibattito, in quegli anni, sulle pagine di quella rivista. Il compromesso storico non aveva nulla a che vedere con la prospettiva che sarebbe poi stata, non proprio felicemente, definita “compiuta” (quasi per definizione le democrazie non sono mai “compiute”, ma sempre in progress). Negava la prospettiva dell’alternanza, serviva, forse, a entrambi i potenziali contraenti, PCI e DC, per mantenere le loro rendite d’opposizione e di posizione piuttosto che per affrontare il loro rinnovamento, di persone e di idee. Non avrebbe mai condotto l’Italia nell’ambito delle democrazie dell’Europa occidentale e meno che mai nel solco delle socialdemocrazie. Nient’affatto auspicato, ma anzi spesso violentemente contrastato, l’esito socialdemocratico era il più temuto dai comunisti che ripetevano il loro mantra: le socialdemocrazie non hanno cambiato il capitalismo, le socialdemocrazie sono in crisi, le socialdemocrazie sono superate. Se ben ricordo, però, né il percorso né l’esito socialdemocratico furono difesi con molto vigore da tutti sulle pagine di “Mondoperaio”. Non pochi collaboratori avevano e mostrarono riserve, a mio modo di vedere, allora e oggi, non nobili e sbagliate. È troppo facile ironizzare adesso sui comunisti che odiavano le socialdemocrazie e che hanno, prima, dato vita al Partito Democratico, poi sono diventati renziani, sostenendo riforme costituzionali che nulla avevano in comune con il progetto, per quanto vago, della Grande Riforma, ma è doveroso ricordarlo e farlo. Certo, diventato Presidente del Consiglio Bettino Craxi non sostenne più la sua idea del cambiamento della forma di governo (e anche il “Mondoperaio” di quella fase l’abbandonò). Qualsiasi alleanza di governo con la DC, temporanea e di lungo respiro, contraddiceva alla radice tutte le ipotesi di cambiamento costituzionale, istituzionale, elettorale. Bastò un solo referendum su una piccola clausola della legge elettorale proporzionale, vale a dire, la preferenza unica, per mandare gambe all’aria tutto il sistema dei partiti che aveva costruito e accompagnato la storia della Repubblica (dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico: 1945-1966, titolo di un fortunato libro di Pietro Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1991, scoperta tardiva della partitocrazia quando declinava il potere democristiano che di quella partitocrazia era stato il perno determinante) e aprire un percorso di cambiamenti quasi esclusivamente elettorali, con poche e molto discutibili, comunque, inadeguate riforme istituzionali che non hanno nulla a che vedere con la Grande Riforma, pure suscettibili di interpretazioni e di attuazioni molto diverse.
Non è questo, adesso, il luogo per procedere ad approfondimenti e precisazioni sul tema generale “quale Costituzione” anche perché non ho affatto voglia di rincorrere tutti i molto loquaci e verbosi opportunisti, vale a dire coloro che hanno cambiato idea a seconda delle opportunità. Due riflessioni sono, però, indispensabili proprio alla luce di quanto “Mondoperaio” ha fatto e ha prospettato. La prima riflessione riguarda la persistenza delle problematiche di allora che, in condizioni attualmente molto più difficili, continuano a richiedere soluzioni. Lascerò da parte la questione dell’alternanza poiché, da un lato, di alternanze ne abbiamo avute molte, nessuna da manuale, vale a dire con una coalizione di governo che dura tutta la legislatura e viene sostituita da una coalizione diversa che per tutta la legislatura ha svolto il ruolo dell’opposizione. Incidentalmente, alternanze di questo tipo sono molto rare anche nelle altre democrazie occidentali. Per le necessarie informazioni mi permetto di rimandare ai saggi contenuti in G. Pasquino e M. Valbruzzi, a cura di, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011). Dall’altro lato, mi corre l’obbligo scientifico di sottolineare che, per esempio, Sartori non ha mai ritenuto, e lo ha scritto e ripetuto, che l’alternanza abbia virtù taumaturgiche tali da sanare i vizi dei partiti, dei loro dirigenti, dei governanti. Operare soltanto sulle condizioni dell’alternanza non migliora affatto il funzionamento del sistema politico. Non vorrei, però, che i lettori si buttassero al polo opposto e pensassero che una maggioranza di governo artificialmente gonfiata da un premio, più o meno cospicuo, di seggi, sia la soluzione auspicabile e produca automaticamente la cosiddetta “governabilità” a scapito della rappresentanza. Al contrario, meno rappresentanza non equivale affatto a più e migliore governabilità.
La seconda riflessione è a più vasto raggio. La mia interpretazione di quanto ha fatto “Mondoperaio”, specialmente quando fu diretto da Federico Coen, è quella di un tentativo forte di ridefinire, trasformare, modernizzare la cultura politica della sinistra, in particolare, sfidando i comunisti che la loro cultura politica non stavano affatto rinnovando, neppure con gli apporti di Gramsci (che fra i suoi pur grandi meriti non può sicuramente vantare quello di essere un teorico della democrazia né bipolare né compiuta ). Questa operazione, importante, degna di attenzione e di una valutazione complessivamente positiva, non è riuscita. Pertanto, rimane all’ordine del giorno. Invece, è successo che tutte le culture politiche italiane, a partire da quelle, la liberale, la cattolico-democratica, l’azionista, la socialista e la comunista, sono sostanzialmente scomparse (ho intitolato La scomparsa delle culture politiche in Italia, un fascicolo della rivista “Paradoxa”, Ottobre-Dicembre 2015,nella quale si trovano, fra gli altri, articoli di Giuliano Amato e Achille Occhetto, i quali non sorprendentemente solo in parte concordano con me).
Molte delle esigenze di allora, in particolare, da un lato, la costruzione di una democrazia decente, che non ha bisogno di altri aggettivi, dall’altro, la formazione di un partito di sinistra, permangono in condizioni molto più difficili. Quel partito di sinistra non è mai stato il Partito Democratico dal quale i socialisti si sono tenuti e sono stati tenuti lontani, quasi che il meglio delle culture riformiste del paese (nello slogan ripetuto fino alla noia dai Democratici e mai tradottosi in una qualsiasi cultura politica già largamente assente nell’Ulivo) potesse affermarsi escludendo proprio la cultura socialista (e qui, credo, che sarebbe opportuno rileggere la storia delle riforme del centro-sinistra), a sua volta, forse il meglio, gioco con le parole, non con la sostanza, delle culture politiche riformiste italiane. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che non sappiamo più neppure che cosa voglia dire sinistra. Dissento e sostengo che è tuttora possibile e fecondo definire sinistra lo schieramento che, da un lato, con riferimento a Bobbio, si batte a favore dell’eguaglianza o, se si preferisce, per ridurre, contenere, infine eliminare almeno le diseguaglianze di opportunità, dall’altro, protegge e promuove i diritti, quelli veramente tali, non le rivendicazioni, civili, politici e sociali. Vedo non poche coincidenze con le argomentazioni, pure non sistematiche, contenute negli articoli di “Mondoperaio” di quei tempi. Quello che, invece, non vedo è chi si stia attualmente impegnando su questo terreno. Addirittura temo che, prima di pensare alla formulazione di una cultura politica sia necessario creare una cultura di fondo, fatta di conoscenze e di interpretazioni della storia d’Itali e d’Europa (sì, lo so che ci sono anche la globalizzazione e il capitalismo, suvvia). C’è molto da fare (e quasi niente per cominciare).
La rivoluzione introvabile #Sessantotto
Pubblicato nella rivista I Martedì, n 342
Solo le rivoluzioni (ri)cambiano totalmente le classi dirigenti. Il Sessantotto non fu una rivoluzione né negli USA, dove effettivamente iniziò nel 1964-65, né nel resto del mondo. Se qualcuno dei sessantottini avesse mai intrattenuto qualche propensione rivoluzionaria, malamente nutrita da fragili fondamenta nella conoscenza della storia e dei meccanismi socio-politici del cambiamento, gli sarebbe bastato per ricredersi leggere i durissimi editoriali di quel grande studioso liberale che fu Raymond Aron da lui raccolti in un libro che include un’intervista con il titolo tanto provocatorio quanto appropriato: La révolution introuvable, (Fayard 1968). Credo che si possa aggiungere: et tout à fait improbable. Quella non rivoluzione parigina, secondo il Presidente de Gaulle, quasi una ricreazione giovanile, terminò bruscamente con una delle più abbondanti vittorie elettorali dei gollisti. In Francia non ebbe luogo nessun ricambio della classe dirigente. Né è possibile sostenere che il ricambio sarebbe avvenuto in seguito con la vittoria di François Mitterrand e del Parti Socialiste nel 1981. Infatti, almeno tre quarti di quel gruppo dirigente erano uomini e donne cresciuti in politica prima del 1968. D’altronde, è noto che le classi dirigenti francesi non si formano nelle strade e nelle piazze, ma nelle invidiabili Grandes Ecoles. Con tutta la sua brillantezza esplosiva il Sessantotto francese non fu che una sfida parigina perduta.
Neppure negli Stati Uniti dirigenti e militanti del Sessantotto avrebbero conseguito (forse non ebbero neanche l’intenzione di perseguirlo) un ricambio nelle classi dirigenti. In parte riuscirono ad imporre cambiamenti non del tutto positivi (infatti, i Democratici persero le elezioni presidenziali del 1968 e poi del 1972) nelle modalità di funzionamento del Partito Democratico, ma praticamente nessuno degli uomini e delle donne in politica, nel Congresso, alla Presidenza nei molti anni successivi fu debitore della sua carriera politica a precedenti esperienze sessantottine. In questo sinteticissimo excursus extra-italiano, il posto d’onore spetta al tedesco Joschka Fischer, uno dei fondatori dei Verdi tedeschi, Ministro degli Esteri nel governo SPD-Verdi dal 1998 al 2005, convinto predicatore di un’Europa politica. Tuttavia, neppure la politica tedesca testimonia di un ricambio politico prodotto dal Sessantotto. Infine, neanche la longue durée del Sessantotto italiano, al quale darei come data di conclusione l’esplosione del Movimento del 1977, può attribuirsi il merito di avere prodotto un ricambio delle classi dirigenti, meno che mai di quella politica.
Praticamente tutti i dirigenti politici importanti dei partiti italiani negli anni Ottanta dello scorso secolo erano entrati in politica prima del Sessantotto. Non fu il Movimento, ma le organizzazioni studentesche tradizionali a produrre, almeno in parte, il personale politico di quei partiti e dei Parlamenti eletti. Inoltre, anche se talvolta incapaci di comprendere esigenze peraltro espresse in maniera confusa, talvolta contrari alle modalità di fare politica manifestate dal Movimento (a cominciare da un eccesso di liderismo che, curiosamente, è possibile riscontrare nei partiti personalisti contemporanei) talvolta portatori di un’idea di società e di politica opposta ai Sessantottini, i dirigenti dei partiti italiani furono per lo più in grado di assorbire l’urto, di smussare, di cooptare e, se del caso, di respingere gli eventuali sfidanti. In verità, la maggior parte dei potenziali sfidanti si disperse, entrò nel “riflusso”, scelse altre attività, per lo più nel settore della comunicazione, nel giornalismo, si fece cooptare.
Il fatto è che il Sessantotto è meglio interpretabile e comprensibile come fenomeno in senso lato culturale e generazionale piuttosto che come tentativo di rivoluzionare il sistema politico e la società sostituendo totalmente le classi dirigenti esistenti. La profusione, naturalmente tutta europea, di critiche al capitalismo non deve ingannare. Infatti, nel Sessantotto non esiste nessuna approfondita e incisiva elaborazione economica e/o politica anti-capitalista, intesa ad “abbattere” il capitalismo. Semmai, l’obiettivo è andare oltre il capitalismo grazie a quanto il capitalismo nelle sue versioni USA e renana aveva già fatto, già dato, già progettato. Le varianti “cinesi” del Sessantotto, quelle che giungono persino a celebrare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria Cinese, sono del tutto ininfluenti sul ricambio delle classi dirigenti europee. La Cina era tutt’altro che vicina.
L’elemento centrale del Sessantotto è costituito un po’ dovunque da un profondo mutamento di valori che deriva da una combinazione di fattori demografico-generazionali con scelte culturali. Le nuove generazioni che, da Berkeley alla Columbia, dalla Sorbona alla Freie Universität di Berlino, da Palazzo Campana di Torino alla Statale di Milano, danno vita al Sessantotto sentono soprattutto di godere finalmente della possibilità di perseguire, contro l’autoritarismo dei baroni universitari e dei padroni industriali (in Francia e in Italia anche contro i dirigenti del Partito Comunista, ma sarebbe sbagliato esagerare con la critica al PCI il quale, non avendo nessuna chance di alternanza al governo, non era in grado di favorire/effettuare nessun ricambio di classi dirigenti), la loro auto-realizzazione, non solo un ricambio di persone e di elite, ma anche, in particolar modo, di modalità di espressione e di valori. Laddove i genitori e i nonni, ha sostenuto con dovizia di dati, Ronald Inglehart (The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles Among Western Publics, Princeton University Press 1977), in ricerche davvero originali e importanti, avevano dovuto preoccuparsi della stabilità di prezzi e della sicurezza personale, valori materialisti, i loro nipoti e figli, soprattutto le donne, si trovarono in condizione già a partire dall’inizio degli anni Sessanta (ovviamente, con differenze anche sensibili fra paese e paese e classi sociali) di intrattenere come prioritari valori post materialisti: la liberà di parola e l’autorealizzazione.
Il Sessantotto è, al tempo stesso, la manifestazione più significativa della crescita e diffusione dei valori post-materialisti e un punto di non ritorno. Di quei valori, la politica non potrà più disinteressarsi e, quando lo farà, ne pagherà un prezzo. Il riflusso del Sessantotto non sarà mai totale e non soltanto la generazione dei sessantottini, uomini e donne, non abdicheranno ai valori acquisiti e esibiti, ma manterranno nei loro ricordi e nelle loro esperienze quanto appreso nelle occupazioni, nei tornei oratori, nelle manifestazioni, nell’organizzazione di una pluralità di attività. Tuttavia, proprio per l’accento posto inevitabilmente su elementi che attengono alla personalità, la libertà di parola e la realizzazione delle proprie capacità e dei propri mondi vitali, i Sessantottini neppure si posero il problema di costituirsi in nuova classe dirigente. Contenere, ridurre, togliere il potere ai baroni universitari e ai padroni del vapore (industriale) non significava affatto e non implicava il volerli sostituire nei loro posti di comando. D’altronde, una delle rivendicazioni universitarie italiane, quella del voto politico (spesso più che un semplice “diciotto”), colpiva al cuore tutti i procedimenti di reclutamento, di selezione e di promozione delle classi dirigenti. Problematico sostenere che la non-selezione avrebbe posto fine a procedure clientelari e a privilegi familiari-amicali. Sicuro, invece, che il respingimento del criterio del merito o di qualsiasi altro principio per valutare conoscenze, esperienze, prestazioni, rendimento, efficacia rendeva impossibile costruire modalità e percorsi che garantissero il ricambio delle classi dirigenti senz’altro favorendone l’accesso di migliori.
Grazie alla diffusione di valori post-materialisti, che oggi sappiamo essere plausibili purtroppo anche di una regressione, le società post-sessantottine sono diventate ovunque più aperte, più rispettose delle differenze, anche più mobili (aggettivo di gran lungo più preciso e più pregnante del troppo spesso abusato “liquido”), più attente alla parità di genere e alle politiche per conseguirla e attuarla. Tutto questo, però, non si è accompagnato ad un qualsiasi drastico, profondo ricambio delle classi dirigenti. Anzi, il cambiamento delle e nelle classi dirigenti, in special modo in Italia, è stato lento, parziale, fortemente diseguale, a strati e a chiazze, non attribuibile, tranne in maniera molto parziale, a spinte, a progetti, a azioni sessantottine. Solo le rivoluzioni politiche e sociali offrono opportunità di ricambi sostanziali. Il Sessantotto rivoluzione non fu. I ricambi furono limitati, mai sconvolgenti e travolgenti, probabilmente neppure derivanti da richieste consapevoli e esplicite del Movimento, talvolta positivi talvolta no, sostanzialmente non accompagnati da una riflessione critica e da proposte proiettate nel futuro possibile.
Coloro che criticano il Sessantotto per avere distrutto tradizioni, autorità, modi di relazioni e di vita dovrebbero anche interrogarsi se quanto di quel passato è stato mantenuto ed è sopravvissuto, anche a causa delle inadeguatezze dei Sessantottini, sia il meglio. È giusto concluderne che, proprio per la sua intima essenza “post-materialista”, la “potenza distruttiva” del Sessantotto ha aperto strade e percorsi, comunque, difficili e talvolta impervi, per i singoli, in particolare per le giovani donne e le loro sorelle minori, ma non ha operato a sufficienza, in Italia ancor meno che altrove, sul ricambio delle classi dirigenti. Quante delle élites politiche del Movimento Cinque Stelle e della Lega, largamente “nuove”, dei loro genitori e parenti, hanno un qualche aggancio con il Sessantotto?
Caro Pd, così funziona la democrazia
Non credo che un partito democratico possa accontentarsi ovvero, peggio, pensare che una campagna di #SenzaDiMe e un sondaggio peripatetico del suo due volte ex-segretario costituiscano lo strumento per decidere se sia il caso o no di andare a vedere le carte del Movimento 5 Stelle e di fargli vedere le sue carte. Penso che in una democrazia parlamentare tutti coloro che sono stati eletti in Parlamento, seppure con una deprecabile legge elettorale, hanno acquisito il titolo di rappresentanti dell’elettorato e hanno (evito per due volte deliberatamente il congiuntivo) pari dignità. Al confronto su programmi e idee, prospettive e priorità, nessun partito che accetti la Costituzione può negarsi. Mai. Non mi piacciono né i contenuti né i toni dei #SenzaDiMe. Esprimono pregiudizi che non mi paiono convincenti e che non possono essere produttivi. Nessuno mi racconti che si può governare dall’opposizione. Sulle tematiche importanti, il governo dall’opposizione non riuscì neanche al PCI che, sono sicuro che i lettori concorderanno, era partito più solido più competente meglio organizzato del PD. Trovo apodittica l’affermazione pappagallescamente ripetuta che sono gli elettori ad avere mandato il PD all’opposizione. No, nessun elettore ha il potere di mandare un partito al governo e neppure quello di spingere il PD all’opposizione.
Quella dell’opposizione, ovvero della motivata decisione di non partecipare a nessuna coalizione di governo, è una scelta legittima, purché sia accuratamente motivata, ma anche legittimamente criticabile, di parte del gruppo dirigente del PD che, incidentalmente, significa, lo sappiano o no gli elettori democratici, rappresentare poco e male le loro preferenze e i loro interessi. Ne indico solo uno: un governo che includa il PD è più o meno gradito agli elettori del PD di un governo che lo escluda? La Palisse mi ha già mandato una mail lusinghiera: “bravissimo!”, ma dirò meglio. Davvero gli elettori del PD potranno dirsi soddisfatti se emergerà un governo Cinque Stelle+Lega? E nessuno dei democratici si chiederà se non esiste anche una loro responsabilità nazionale: sventare governi che probabilmente causeranno danni al paese? Evito di parlare di alleanze fra populisti e suggerisco di non appiccicare l’etichetta populista a tutto quello che non ci piace.
Andare a vedere le carte delle Cinque Stelle potrebbe anche essere un semplice atto di cortesia istituzionale sul quale non vedo perché il PD dovrebbe dividersi a meno che i renziani, da un lato, vogliano dimostrare che il loro leader dimissionario controlla ancora una maggioranza, dall’altro, abbiano paura di una discussione senza rete. Eppure, proprio quella discussione sarebbe un contributo pedagogico di inestimabile importanza per fare crescere nell’opinione pubblica le conoscenze sulla difficoltà di rispondere alle domande sociali e di governarle in maniera responsabile.
Qualcuno ha detto e ripetuto che il PD ha una concezione della democrazia profondamente diversa, anzi opposta a quella del Movimento 5 Stelle che, personalmente, ritengo confusa e inadeguata nonché manipolabile. Però, il confronto non deve avvenire sulla concezione della democrazia in generale (c’è molto da fare per tutti coloro che desiderino pervenire ad una concezione raffinata e condivisa) , ma su che cosa potrebbe/dovrebbe fare un eventuale coalizione di governo M5S+PD. Comunque, per meglio dimostrare quanto distante e preferibile è la concezione della democrazia interna del PD, ci sono fin d’ora alcuni pochi comportamenti facilmente innescabili. Sono tantissimo in disaccordo con Minopoli che, senza citare fonti, sostiene che il renzismo “testimonia ormai della realtà del Pd”. Concordo, invece, sulla necessità di andare a “valutare questo sentimento diffuso, il cosiddetto #senzadime”, “con il freddo e neutrale interrogativo di un’analisi sociologica, culturale, identitaria e di valori sulla realtà del Pd attuale”, ma è una mission impossible persino per Minopoli. Se il renzismo è il PD di oggi, e viceversa, questo non era l’obiettivo che si erano posti i fondatori, ma lascio volentieri la parola a Fassino e Veltroni. Renzismo o no, rimane aperto il problema del se e come confrontarsi con le Cinque Stelle magari attivando forme di consultazione preventiva di quel che rimane dei circoli sui temi programmatici che gli iscritti ritengano non eludibili in qualsiasi negoziato non solo con il Movimento 5 Stelle. Ah, già, do per scontato che il confronto debba iniziare, sul serio. Poi, mi aspetterei che i dirigenti organizzino incontri di informazione e formazione in tutti i circoli, incontri aperti a elettori e simpatizzanti. Infine, ma è persino troppo banale chiederlo, dovrà esserci, proprio come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, la richiesta di un voto decisivo, approvazione o rigetto, sul programma di governo al quale eventualmente siano pervenuti i contraenti. Non mi paiono richieste anti-renziane cosicché sarò tristemente sorpreso e deluso qualora non fossero neppure prese in considerazione.
Pubblicato il 27 aprile 2018
Una cultura della coalizione: l’eredità di Roberto Ruffilli
Il senatore democristiano Roberto Ruffilli fu ucciso dalle Brigate rosse il 16 aprile 1988 nella sua abitazione di Forlì
Sono passati trent’anni da quel sabato pomeriggio 16 aprile del 1988 quando un commando delle Brigate Rosse assassinò il sen. Democristiano Roberto Ruffilli nella sua abitazione di Forlì. La motivazione, nient’affatto delirante, ma certo frutto di una malsana ossessione, era che attraverso la sua attività di studioso e di riformatore delle istituzioni, Ruffilli cercava di rendere più forte e, quindi, più repressivo lo Stato. In effetti, Ruffilli stava elaborando riforme condivisibili in grado di migliorare il funzionamento dello Stato italiano, dargli più autorevolezza, produrre governi più efficienti grazie ad una legge elettorale che offrisse buona rappresentanza ai cittadini elettori. Oggi, sicuramente, Ruffilli non tratterrebbe il sorriso di fronte a chi volesse valutare le proposte da lui avanzate quale capogruppo della delegazione DC in Commissione Bozzi (novembre 1983-1 febbraio 1985), come se non fossero passati trent’anni di stravolgimenti, interventi deformanti, collasso dei partiti, declino della qualità della classe politica. Di quella Commissione, mi limiterò ai nomi di alcuni democristiani, che vi avevano attribuito grande importanza, fecero parte Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Mario Segni. Ciò detto, non posso resistere a quello che non è un puro gioco di immaginazione, ma è una riflessione fondata sulla mia conoscenza di Roberto Ruffilli come studioso e come persona, vale a dire chiedermi se Ruffilli aveva colto l’essenza del problema e se le soluzioni da lui allora prospettate avrebbero senso anche oggi. Subito, Ruffilli mi farebbe notare che, studiando e continuando a imparare, era disponibile a cambiare, se necessario, idee e proposte. Dunque, chi volesse conoscere le sue valutazioni su quanto in seguito è stato fatto, non fatto, malfatto, dovrebbe piuttosto seguire i suoi principi ispiratori.
Senatore eletto come indipendente dalla DC il cui segretario era Ciriaco De Mita, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamentare tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo. Alla fine dei lavori la Commissione votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del PCI e del PSI, che suggeriva come sistema elettorale la rappresentanza proporzionale personalizzata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. Allora gli espressi il mio, parziale, ma fermo, dissenso. L’Italia di quegli anni aveva, secondo me, bisogno di una cultura della competizione, premessa di qualsiasi democrazia bipolare, maggioritaria, capace di alternanza. Nei lunghi anni trascorsi ho capito meglio quello che Ruffilli voleva dire e quello che è necessario fare. Cultura della coalizione significa costruire uno schieramento maggioritario intorno a priorità programmatiche con patti chiari da rispettare e da attuare consentendo senza riserve che lo schieramento/ partito che ha ottenuto più voti/seggi esprima il capo della coalizione. La leadership deve sempre rimanere contendibile, ma, per citare Aldo Moro, di cui Ruffilli fu grande e convinto estimatore: “chi ha più filo tesserà più tela”.
Troppo facile concludere che si troverebbe a disagio con il clima, la congiuntura, la mancanza di stile della politica italiana di oggi. Avrebbe, comunque, continuato a studiare, scrivere, partecipare a incontri (numerosi quelli che abbiamo fatto insieme in mezza Italia di fronte a “pubblici” prevalentemente cattolici-democratici) a, per usare un’espressione alla quale ricorreva scherzosamente, “spezzare il pane della scienza”. Caro Roberto, il pan ci manca.
Pubblicato il 16 aprile 2018
Contro la politica degli analfabeti
Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”. I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni cinquanta, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo apertamente e esplicitamente fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia DC-PCI come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva moltissimo a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il “Corriere della Sera” (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta lo stato di consolidamento, davvero molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla “Rivista Italiana di Scienza Politica” (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.
Pubblicato il 3 aprile 2018
In Memoriam di Piero Ostellino (1935-2018)
Caro Piero,
liberale, illuminista scozzese, purtroppo anche juventino, ci siamo incontrati, grazie a Giuliano Urbani, un giorno del settembre 1967 nel tuo ufficio al Centro Einaudi di Torino. Mi hai subito chiesto di collaborare a “Biblioteca della Libertà”, una piccola preziosa rivista. Ne sono stato sorpreso e onorato. Ho scritto spesso, accettando le tue “commesse” sempre acute, seguendo i tuoi suggerimenti sempre utili, usufruendo e apprezzando il grande, totale spazio di libertà che concedevi ai tuoi collaboratori anche quando, era il mio caso, fossero socialisti. Sono tuttora molto fiero di quegli articoli. Recentemente, me ne sono riletti alcuni non male: sulle sanzioni alla Rhodesia, su De Gaulle e sulla sburocratizzazione della politica. Scrissi anche diverse recensioni bellicose, con uno stile che, con mia grande gratificazione, incontrava il tuo burbero consenso. Non mi hai mai (ri)toccato neppure una riga. Non ti ho detto quante volte, invece, i molti direttori dei quotidiani ai quali ho poi collaborato (con la luminosa eccezione de “l’Unità” di D’Alema, Renzo Foa, Veltroni e Peppino Caldarola) mi hanno chiesto di cambiare questo, rivedere quello, cancellare quell’altro, riscrivere soprattutto la chiusa.
In quel tuo ufficio ti ho visto scrivere fra il 1967 e il 1969 (poi mi trasferii a Bologna) sul finir del pomeriggio molti articoli spesso per la “Gazzetta del Popolo” che andavi a portare di persona al giornale e iniziare la tua collaborazione al “Corriere della Sera”. Grandissima fu la mia sorpresa quando un giorno, quasi di punto in bianco, tu mi annunciasti ufficialmente come la cosa più naturale, ovvia, possibile che il tuo obiettivo era diventare il Direttore del Corrierone. Punto e basta, quasi fosse l’operazione più facile del mondo. Pur leggendoci reciprocamente, per anni non ci incontrammo di persona. Erano gli anni nei quali tu fosti inviato dal Corriere prima a Mosca, poi in Cina. Scrivevi articoli straordinari, illuminanti, al limite della brutalità, con una prosa scintillante nella quale non c’erano mai frasi fatte, mai banalità, mai cose risapute. Ancora adesso sorrido quando penso ad un articolo brillantissimo in occasione di una tua escursione in Mongolia: una vera delizia.
Da Direttore del Corriere so che la tua vita era diventata molto difficile, fra tensioni e pressioni, negli anni di Craxi (1984-1987) quando tutti i politici pensavano di avere il diritto di “importunare” i direttori dei maggiori quotidiani italiani. Ero tornato da poco da una mia permanenza negli USA e mi chiedesti un articolo sulle riforme istituzionali e due articoli sul centralismo democratico. Scritti e accettati, come al solito senza nessuna richiesta di intervento correttivo, anche se, pur criticando il modello di partito del PCI, non avevo tralasciato di affermare e argomentare che quel centralismo conteneva non pochi tratti effettivamente “democratici”. Da quel che abbiamo visto e, anche scritto, dopo, siamo diventati abbondantemente consapevoli di quanto inquinato da autoritarismi e servilismi possa essere il funzionamento di quelli che neppure più sono partiti, ma tristi veicoli di ambizioni personali. Peccato che quella mia embrionale collaborazione non abbia potuto continuare quando forze non tanto oscure ti allontanarono dalla direzione del Corriere.
Da ultimo, non posso sottacere, e neanche tu vorresti che lo facessi, quello che fu un vero scontro di idee, di interpretazioni, di valutazioni, di prospettive sul liberalismo come praticato dagli italiani compreso il Corriere della Sera, sul quale tu lanciasti una durissima reprimenda contro il mio articolo introduttivo al fascicolo da me curato della rivista “Paradoxa” (Gennaio/Marzo 2012) intitolato Liberali, davvero! Non sarei fair se proseguissi quella discussione senza tua possibilità di replica. Uso con un po’ di civetteria questo aggettivo inglese che non trova una traduzione italiana adeguata e pregnante per fare riferimento agli illuministi scozzesi, tutti “Fair, davvero!”, che tanto stimavi perché pragmatici iniziatori della grande epoca del liberalismo politico e che mettevi in contrapposizione agli illuministi francesi, rigidi e “ideologici” (sic) ai quali attribuivi fin troppe colpe. Sono contento, Piero, di averti conosciuto, di avere letto i tuoi articoli, di essermi irritato di fronte ad alcune tue tesi, di avere goduto della tua stima. Farewell.
Pubblicato il 12 marzo 2018 su PARADOXAforum
Quel che “Repubblica” non ha pubblicato
La Repubblica-Bologna ha letto alcune mie dichiarazioni sul Movimento 5 Stelle raccolte e pubblicate da “Il Fatto Quotidiano” e muore dalla voglia di fare un bel titolo Pasquino è diventato grillino. Programma una bella intervista che, però, non comincia benissimo poiché l’intervistatrice non sa nulla del mio passato bolognese (candidatura “civica” di sinistra a sindaco nel 2008) e pazienza, ma neppure della sfrenata campagna che i suoi predecessori al quotidiano condussero contro di me e a favore di un candidato che, diventato sindaco, fu costretto a dimettersi sette mesi dopo. Credevo che le interviste dovessero essere preparate compulsando un po’ di materiale pertinente. Peccato. L’intervistatrice non sembra del tutto convinta che sia una buona cosa avere quindicimila candidati alle parlamentarie delle Cinque Stelle. Però, a suo onore, va detto che capisce subito che il metodo del Partito Democratico (a Bologna c’è poco d’altro in città) non è particolarmente eccitante né democratico. Che al plurilegislatore torinese Fassino (cinque volte in Parlamento) possa essere chiesto, come si mormora, di accettare di essere contrapposto a Bersani non sembra sia stato deciso con una qualche procedura democratica. Forse, ma gli inglesi hanno una splendida espressione, I am afraid that neppure essere ricandidati, come Sandra Zampa “in quota Prodi”, sembra il modo più adatto per esaltare la democrazia interna ai partiti. Quanto al democristiano, mai Popolare, mai neppure Margherita, PierFerdinando Casini, in parlamento dal 1983 (sì), la cui candidatura asl Senato per il PD è data quasi certa (nonostante gli ovvi “malumori”, maldipancia della mitica “base”), non risulta che abbia vinto una qualche parlamentaria oppure superato un qualsiasi test fra gli iscritti del PD.
Già, la democrazia interna, quella cosa che il Movimento 5 Stelle dice d’avere, ma è lecito avanzare molti dubbi, non sembra, quando si discute di candidature, abitare neppure nel PD. Consiglio all’intervistatrice di andarsi a leggere un bel disegno di legge di attuazione dell’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione italiana relativo alla vita dei partiti scritto almeno vent’anni fa da Valdo Spini. Però, sostiene flebilmente l’intervistatrice, le Cinque Stelle quasi attentano alla democrazia e alla Costituzione imponendo una penale di 100 mila Euro ai parlamentari che abbandonino il loro gruppo. Comunico che mi pare una cosa brutta anche se bruttissimo è certamente il trasformismo che, incidentalmente, è sgraditissimo agli elettori italiani. Aggiungo che bisognerebbe affrontare l’argomento cercando di capire, con qualche parere di esperto, se si tratta di un contratto privato oppure che cosa. Quanto poi ai 300 Euro al mese per pagare i costi della piattaforma Rousseau, dopo essermi esibito nella critica di qualsiasi democrazia del click, ricordo all’intervistatrice che come Senatore della Sinistra Indipendente e, in seguito, dei Progressisti versavo regolarmente ogni mese al PCI (e poi al PDS), che mi aveva candidato e i cui elettori mi avevano votato, tre volte più di 300 Euro. Inoltre, contribuivo con i fondi a disposizione dei parlamentari ad un certo numero di iniziative del partito sul territorio. Questo è quel che ho detto nell’intervista che, senza nessuna mia sorpresa, Repubblica-Bologna non ha pubblicato.
Qui aggiungo, a completamento del discorso sui costi della politica, che in tutte le mie campagne elettorali ritenni opportuno e doveroso coprire parte dei costi. Nelle mie tre legislature non cambiai gruppo parlamentare. Quanto all’espressione e all’accettazione del dissenso, nella Sinistra Indipendente non c’era nessuna disciplina di voto e spesso espressi un voto in dissenso dal mio gruppo (o il gruppo votò in dissenso da me!). Neppure quando votai in maniera differente dal gruppo del PCI sulla prima guerra del Golfo e, per esempio, D’Alema mi fece sapere che mi ero collocato alla destra del Sen. Democratico Sam Nunn, a qualcuno venne in mente che dovevo andarmene. Concludo ricordando che, in materia di accettazione, persino valorizzazione del dissenso, dal segretario del PCI di allora Alessandro Natta ricevetti una comunicazione face-to-face su un argomento allora (sic) molto delicato: “non sono d’accordo a fuoriuscire dalla proporzionale, ma tu vai avanti con le tue idee”. Altri tempi, altri partiti, altra classe politica.
Pubblicato il 13 gennaio 2018
Cinque lezioni dal voto in Sicilia
Il dopo elezioni regionali siciliane è stato segnato da manipolazioni e errori interpretativi. Primo, no, la Sicilia non è un laboratorio, né nel bene né nel male, per partiti e coalizioni. In un paese molto differenziato, laboratorio non è nessuna regione, per fare due esempi, né la Liguria né il Veneto. Tuttavia, qualche lezione “individuale” e precisa può essere tratta. Se il centro-destra si presenta unito dietro un candidato è molto competitivo e può risultare vincente, ma questo non basterà né in Emilia-Romagna né in Toscana. Invece, lezione vera, se il PD di Renzi raccoglie soltanto frattaglie di alleati, competitivo non sarà né in Sicilia né in Veneto né in Lombardia. Se non vince molti seggi in queste regioni, quasi sicuramente perderà le elezioni politiche. Se il PD non cerca e non trova nessun accordo con il Movimento Democratico e Progressista non farà molta strada. Non è vero che le elezioni si vincono al centro. Si possono vincere anche a sinistra purché la coalizione sia equilibrata e delicatamente guidata. Seconda grande lezione: dal maggio 2014 il PD di Renzi e Renzi stesso non hanno fatto che collezionare sconfitte elettorali più o meno brucianti.
“Blindare” il segretario che, proprio in quanto tale, è responsabile dell’andamento del suo partito farà anche bene al segretario, che si commuoverà per tanto affetto (o non è piuttosto la speranza di essere da lui ricandidati?), ma fa piuttosto male al partito. Fanno molto male al PD coloro che confrontano i suoi risultati, altrove e in Sicilia, con quelli del PCI. Infatti, il Partito Democratico dovrebbe essere PCI più DC (incidentalmente, Alternativa Popolare di Alfano è andata abbastanza male). Buttare la palla in tribuna sostenendo che la sconfitta era “annunciata” e lodare il segretario perché l’ha “ammessa” sono giochi da bambini alle scuole elementari. Per chi ha fatto almeno tutta la scuola dell’obbligo s’impone la riflessione accompagnata da suggerimenti operativi che solo un partito nel quale la maggioranza non si autoblinda è in grado di formulare. Terzo, no, in Sicilia non hanno vinto i “moderati”, come stancamente ripete Berlusconi. Non è mai chiaro chi siano i moderati, mentre molto chiaro è che Nello Musumeci viene dalla tradizione missina che mai moderata fu e non è il candidato voluto da Berlusconi, ma identificato e sostenuto con vigore e coerenza da Giorgia Meloni. No, la Sicilia non ha affatto risolto il problema della leadership nel centro-destra. Quarto, raramente in politica si assiste a vittorie morali, dei puri e dei duri ai quali sono mancati i voti per la vittoria che conta: quella del seggio o della carica. Prima il Movimento Cinque Stelle prende atto di una realtà inoppugnabile meglio sarà per lui (e per i suoi elettori).
Chi non trova alleati quand’anche risulti il partito più votato, e le Cinque Stelle lo sono stato alla grande, potrà anche arrivare in testa alle elezioni politiche, ma, per colpa della legge Rosato (su questo punto e non solo formulata appositamente contro i pentastellati) non arriverà al governo del paese. Nelle democrazie parlamentari europee che offrono tutti i casi rilevanti, i governi sono, tranne rare eccezioni, composti, sostenuti e fatti funzionare da coalizioni di partito. Gli intransigenti rimarranno puri, duri e all’opposizione forse provocando dopo il voto la delusione in molti loro elettori, ma, peggio, scoraggiando alcuni potenziali elettori che giungono alla conclusione che il voto dato a chi non andrà al governo è un voto inutile, ovvero sprecato. Ultima lezione: poco meno del 54 per cento di siciliani hanno deciso di non sprecare la loro domenica andando a votare. Invece di fare finta di comprendere il loro “malessere”, il loro stato di disagio, le loro difficili condizioni di vita, politici e commentatori farebbe meglio a affermare chiaramente che chi non vota rinuncia colpevolmente a parte della sua sovranità senza ottenere nulla. Il suo è davvero un non-voto inutile.
Pubblicato AGL l’8 novembre 2017
I movimenti e l’ombelico del PD
La buona politica mira a rappresentare le preferenze, gli interessi, anche gli ideali dei cittadini. In democrazia i cittadini si associano, proprio come voleva Tocqueville, qualche volta, in Italia raramente, per risolvere loro stessi i problemi oppure, spesso giustamente, protestano contro i politici che non sanno/non vogliono/ non riescono a risolvere problemi. Quando le associazioni sono tante, viva il pluralismo!, diventa indispensabile che i politici si confrontino con loro, persino per trarre informazioni utili costruendo consenso intorno alla decisione.
Una volta il grande corpo del PCI era anche il luogo di sintesi del pluralismo, ammansiva fin troppo le tensioni, teneva basso il livello di conflitto rappresentando tutto il possibile, e un pochino di più. Poi è cominciata lentamente una deriva autoreferenziale e, invece di tenere aperti i canali di comunicazione con la società, i successori del PCI hanno preferito guardarsi con compiacimento l’ombelico. È quello che sostanzialmente stanno facendo anche i candidati alla segreteria del partito locale. Quegli ombelichi non sono attraenti, ma soprattutto distolgono lo sguardo dalle richieste e dalle sfide dei movimenti per la qualità dell’aria e per alcune scelte ambientali. Adesso, questi variegati movimenti, spesso criticabili per la loro tendenza alla semplificazione e alla cura esclusiva del loro giardinetto, hanno deciso di coalizzarsi (le coalizioni di cui una volta il PCI era maestro) per sfidare il governo locale, che certamente non è un falco decisionista. , e potrebbero offrire alternative sia alla prossima disfida per il sindaco sia per le elezioni politiche nazionali che sono quasi dietro l’angolo.
Senza esibirsi in spericolate previsioni, è, però, fin d’ora possibile rilevare: primo, che una o più risposte alle domande movimentiste debbono essere date; secondo, che se i movimenti si coalizzano possono diventare uno sfidante importante. Le risposte che vanno date non sono affatto di pura e semplice accettazione, ma di interlocuzione e di spiegazione. Decisioni prese su alternative rese comprensibili a tutti avranno migliori e maggiori probabilità di essere attuate. Quanto agli agguerriti partecipanti ai movimenti, in elezioni nazionali potranno forse influenzare poco la scelta degli eletti (colpa delle liste protervamente bloccate), mentre in un’elezione locale, in prima persona oppure spostandosi su una o altra lista, potrebbero avere un effetto molto significativo. Finita la buriana dell’elezione del segretario provinciale del PD sentiremo dall’eletto parole (di sinistra) convincenti per i cittadini e per parte almeno dei movimentisti?
Pubblicato il 13 ottobre 2017