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Dare i numeri per fare coalizioni
In politica i numeri contano, ma, come ha sempre convincentemente sostenuto Sartori, bisogna saperli contare. Nel contesto attuale, quelli che contano sono i numeri dei voti e i numeri dei seggi. Per formare un governo i numeri dei seggi debbono, abitualmente, raggiungere una maggioranza. Nel caso tedesco, ad esempio, la maggioranza che elegge il/la Cancelliere/a deve essere assoluta con riferimento al numero dei deputati. Nel caso italiano, lo scarno dettato costituzionale “il governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94) lascia ai regolamenti parlamentari di stabilire quale debba essere la maggioranza, non degli aventi diritto, ma dei votanti (i contrari potendo astenersi oppure, come al Senato, uscire dall’aula per non farsi contare). La teoria delle coalizioni, un campo di ricerca della scienza politica sviluppato con molto successo, ha chiarito che possono esistere tre tipi di coalizioni: di minoranza, minimo vincenti, sovradimensionate. Nel corso del tempo, l’Italia ha avuto governi di tutt’e tre i tipi, con una leggera prevalenza di governi che si reggevano su coalizioni sovradimensionate (come, per lo più, il centrismo, il centro-sinistra e, soprattutto, il pentapartito).
Sovradimensionata è qualsiasi coalizione che comprenda anche partiti non necessari per conseguire la maggioranza assoluta in Parlamento. Pertanto, le Grandi Coalizioni di stampo tedesco non appartengono alla categoria delle coalizioni sovradimensionate, essendo entrambi i partiti contraenti assolutamente necessari per conseguire la maggioranza assoluta dei seggi. La teoria delle coalizioni rileva poi come più plausibili siano le coalizioni fra partiti contigui, fra partiti programmaticamente compatibili, fra partiti che già abbiano formato una coalizione fra loro e che, di conseguenza, sono in grado di ridurre le incertezze sui rispettivi comportamenti e i tempi delle inevitabili contrattazioni sul programma di governo.
Le elezioni italiane del 2018 hanno consegnato un Parlamento nel quale dal punto di vista numerico sono possibili più coalizioni, nell’ordine: Movimento 5 Stelle più Centro-destra; Centro-destra più PD; Movimento 5 Stelle più Lega; Movimento 5 Stelle più PD, qui sotto presentate.
*Da aggiungere 4 Senatori e 14 Deputati di LiberieUguali. Non tengo conto delle affiliazioni dei cinque Senatori a vita.
Poiché, almeno temporaneamente, il Partito Democratico si è chiamato fuori affermando di volere fare un’opposizione (a un governo che ancora non esiste) seria e responsabile (anche se alcune posizioni già sembrano ridicole e irresponsabili), restano in campo, per usare il politichese, quella che sarebbe una coalizione notevolmente sovradimensionata (forse anche preoccupantemente tale poiché con i due terzi dei voti è possibile riformare la Costituzione senza correre il rischio di un referendum oppositivo) e una coalizione davvero minimo vincente: Cinque Stelle e Lega.
Toccherà al Presidente della Repubblica sciogliere la matassa che, in verità, non è neppure troppo ingarbugliata. E’ probabile che il Presidente ponga due condizioni: la compatibilità programmatica e l’operatività effettiva, condizioni che stanno insieme. Rimane aperto il problema della leadership della coalizione. Teoricamente, se tutto il centro-destra partecipa compatto alla coalizione, allora le quotazioni di Salvini crescono significativamente. Altrimenti nella coalizione Cinque Stelle-Lega il candidato naturale a Presidente del Consiglio è Di Maio. Tuttavia, il prezzo della coalizione potrebbe essere la rinuncia di entrambi alla carica più elevata e la loro convergenza, incoraggiata e favorita dal Presidente, su una persona terza accettabile da tutt’e due e magari tale da avere un consenso parlamentare persino più ampio. Sì, le democrazie parlamentari hanno un grande pregio: la loro flessibilità. Il resto dipende, ahivoi, dalla qualità della classe politica.
Pubblicato AGL 5 aprile 2018
Tina Anselmi. Una Italia migliore
Gli elogi impropri, esagerati, male informati provenienti da persone che non hanno mai manifestato nessun apprezzamento per la sua azione politica non avrebbero disturbato più di tanto Tina Anselmi. Non perché si sentisse superiore. Al contrario, perché il suo stile di vita, sobrio e riservato, e il suo modo di fare politica, privo di qualsiasi concessione alle esagerazioni e alla spettacolarità, semplicemente non contemplavano mai ipocrisie e servilismi. Tuttavia, quegli elogi postumi, provenienti da donne che occupano oggi posizioni di rilievo nelle istituzioni e al governo, non per la loro storia e meno che mai per provate capacità, ma perché sono state cooptate dagli uomini, segnalano qualcosa d’importante sulla politica del passato e sulla politica contemporanea. Una riflessione sul percorso personale e politico, non sulla “carriera” di Tina Anselmi serve a capirne di più e ad apprezzare le sue qualità nella misura giusta ed equilibrata che lei avrebbe certamente gradito. Questa riflessione dice anche molto sul partito della Democrazia Cristiana, vero Partito della Nazione, in grado di reclutare, di selezionare, di promuovere, di rimanere aperto, qualche volta forse fin troppo permeabile, a una pluralità di apporti e di gruppi, qualche volta non sufficientemente controllati, ma, per lo più, almeno dagli anni sessanta alla metà degli anni ottanta, capace di cogliere il merito e di premiarlo.
Nel 1975, Giampaolo Pansa pubblicò un libro di ricerca molto importante, oggi un vero documento storico: Bisaglia. Una carriera democristiana. Sfruttando senza nessuno scrupolo le sue connessioni e gli appoggi molto interessati di banche e Coldiretti, Antonio Bisaglia si costruì un Veneto, uno dei bacini più importanti, più ampi e più affidabili di voti democristiani, una carriera personale che lo portò ai vertici della DC. In contemporanea, a riprova che la politica non è inevitabilmente destinata a farsi sottomettere e dominare da interessi esterni, di qualsiasi tipo, più o meno inclini e capaci di farsi ricompensare, Tina Anselmi percorreva gradualmente con impegno un molto diverso cursus parlamentare. Eletta alla Camera dei deputati per la prima volta nel 1968, a 41 anni, fu rieletta altre cinque volte. Sottosegretaria al Lavoro in tre governi guidati da Rumor e da Moro, divenne Ministro del Lavoro (prima donna italiana) poi Ministro della Sanità nei governi guidati Andreotti. L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale fu uno dei suoi grandi successi. In seguito, proprio per le sue caratteristiche personali, di intransigenza, non ostinazione, di equilibrio, di correttezza, fu nominata alla presidenza della Commissione che indagava sulla loggia massonica P2: un lavoro improbo e ingrato che svolse con assoluto rigore.
Nel frattempo, la DC cambiava pelle diventando, da un lato, incapace di rimanere aperta al nuovo, incapsulandosi nel soffocante schieramento dei governi del pentapartito, dall’altro, riducendo gli spazi della sinistra interna. E’ la triste, non soltanto per molti democristiani, storia dell’inizio di un declino, quasi un’eutanasia consapevole ad opera di Forlani e Andreotti. Per molte buone ragioni, Tina Anselmi, morotea per temperamento, per stile e per ammirazione politica per Moro, veniva lentamente e inesorabilmente messa ai margini. La storia successiva, con il crollo della DC e la politica della personalizzazione e della spettacolarizzazione, dell’immagine che fa aggio sulla sostanza, delle ambizioni senza nessun ritegno, non poteva più appartenerle.
E’ sempre molto rischioso andare alla ricerca delle eredità politiche e dei successori. Sicuramente, Tina Anselmi non si è mai preoccupata nella sua azione politica di costruire un lascito. La sua politica trovava una ricompensa in se stessa, nell’impegno ad agire con onestà per ottenere risultati per gli altri, per conseguire miglioramenti nelle politiche sociali, non per agitare qualche successo personale risonante. Pur consapevole di avere infranto quello che alcune donne definiscono “soffitto di cristallo” diventando la prima donna ministro, Tina Anselmi non ha mai creduto né nelle cordate di donne in politica né nelle quote che ne favorissero le ambizioni e le carriere. Pur ovviamente solidale con molte di loro, preferiva che le rivendicazioni delle donne fossero adeguatamente sostenute e giustificate dalle loro competenze e dai meriti. No, non ci sono oggi nella politica italiana donne in grado di vantare credibilmente un titolo politico (e personale) alla successione di Tina Anselmi (e neppure di Nilde Iotti, da lei stimata e ricambiata). Di questi tempi, l’esempio della buona politica di Tina Anselmi non sembra essere né di moda né imitabile.
Pubblicato AGL 2 novembre 2016