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Contro questa destra serve una visione alternativa @DomaniGiornale

Dopo undici anni di guasti vari e profondi, di governi variamente e profondamente irresponsabili, la destra, quella che ha a cuore la nazione e la patria, le eccellenze italiane uniche al mondo, ha dato vita ad un governo espressione del voto degli italiani. Sono gli italiani, che non hanno alcun bisogno di vigilanza esterna, ad avere spinto con forza una donna a spaccare il soffitto di cristallo della più alta carica di governo. Quella donna, tutta politica, che si è ampiamente e personalmente meritata un grande successo elettorale, intende guidare, come minimo, un governo di legislatura. Una donna sicuramente α contorniata da due maschi sicuramente nel migliore dei casi β, il terzo diventato β con gli anni e con gli errori preannuncia la sua battaglia di retroguardia, è diventata Presidente del Consiglio. Vorrà probabilmente essere eletta Presidente di una Repubblica semipresidenziale se riuscirà a introdurre quella riforma per trasformare l’Italia in una democrazia “decidente”, aggettivo di conio e di sapore dei sostenitori delle malaugurate e bocciate riforme costituzionali renziane.

Nel frattempo, il governo tutto (non proprio) politico guidato da Giorgia Meloni ha comunicato il suo travolgente ambiziosissimo programma di legislatura. Le spalle saranno coperte dall’atlantismo e dall’incrollabile sostegno all’Ucraina aggredita dai russi. L’azione di governo si svilupperà nel quadro dell’Unione Europea non rinunciando al tentativo di ridefinirlo anche per quel che riguarda i progetti di oggi e di domani richiesti dal PNRR. La nazione difenderà anche la sua sovranità alimentare insieme ai sacri confini che non dovranno essere superati dagli immigranti illegali, ma che si apriranno ai richiedenti asilo per ragioni politiche. Libertà e merito per tutti, soprattutto lasciando, con il massimo di deregolamentazione e il minimo di tassazione, grande spazio a chi vuole fare.

Il lungo e promettente, nel senso che ha promesso molto, discorso di insediamento del governo Meloni I ha bilanciato le critiche ai predecessori, particolarmente aspre a chi ha affrontato il Covid con misure considerate liberticide, con le promesse in un crescendo anche nel tono di voce a segnalare l’apertura di una nuova era. Dalla destra nessuno doveva aspettarsi di meno, ma piuttosto di più, magari più inventiva. Non saranno comunque le prevedibili critiche, in specie ai diritti dimenticati, a frenare il governo Meloni. Né pare il caso di contare sulle quinte colonne forziste e leghiste.

Quando gli sguardi dei PD si solleveranno dall’ombelico del loro malconcio partito potrebbero utilmente delineare una visione alternativa complessiva che colpisca i singoli disegni di legge della destra nei quali si annideranno insidie non tanto per la democrazia, ma per una società giusta e europea (ripensabile anche da sinistra). Extra Europam nulla salus.

Pubblicato il 26 ottobre 2022 su Domani  

Letta, il Pd e gli elettori indecisi da conquistare @DomaniGiornale

Quel quaranta percento di elettori indecisi qualcuno dovrà pure cercarli, parlare loro, convincerli. Certo, almeno la metà di loro alla fine deciderà che non può o non vuole votare, ma quelli che andranno alle urne sono potenzialmente decisivi. Potrebbero allargare il campetto sul quale gioca la sua partita, spero non della vita, Enrico Letta. Difficile, però, che per farli affluire alle urne, se non entusiasticamente, almeno fortemente consapevoli della posta in gioco, sia sufficiente il pur doveroso richiamo all’antifascismo. Sarebbe come giocare in difesa tutta la partita, spettacolo mai esaltante per gli spettatori, in attesa del contropiede vincente, e poi chi sarebbe il contropiedista capace di segnare? Allora, farebbero meglio Letta e i suoi compagni/e, chiedo scusa, alleati a definire meglio il campo di gioco e a cercare le giocate giuste. L’Europa, quella che c’è e quella che vorremmo, è il campo di gioco della nostra vita, retoricamente, del destino nostro, dei figli e delle nipoti. L’Europa che ci rilancia con il PNRR, che ci darà un gas sostenibile, che ci difende dalle aggressioni, che estende la democrazia. L’Europa che non cancella affatto l’identità degli italiani, ma che la considera parte integrante dell’identità che stiamo costruendoci come europei. Agli elettori, dunque, diremo che fare gli scettici, i furbi, i sovranisti con l’Europa significa non rafforzare l’Italiani e gli italiani, ma indebolirla fino a metterla tristemente ai margini (nella metafora “a bordo campo”). Non basterà, ma ce n’est qu’un début. Da lì si inizia, lì si deve innovare e progredire.

Periodicamente, c’è qualcuno che afferma in maniera saccente che le crisi sono opportunità, possono sprigionare creatività. Cominciamo dai fatti, prima delle innovazioni. Bene ha fatto Letta a insistere su una risposta europea (price cap) al prezzo del gas. Europea è stata, e deve continuare a essere, la risposta all’aggressione russa alla Ucraina. Europea bisogna che sia la risposta all’immigrazione, una risorsa, non solo demografica, ma da guidare e regolamentare. Agli elettori indecisi interessa sicuramente il quadro complessivo nel quale si muoverà l’Italia nei prossimi cinque anni, ma ciascuno di loro/noi desidera ascoltare dai candidati, dai partiti, dai dirigenti promesse credibili di rapida realizzazione. Qualche volta la destra le spara grosse: tassa piatta e bassa e blocco navale. Qualche volta è ripetitiva: le pillole scrostate di Berlusconi. Proposte nuove e realizzabili sarebbero decisive per gli elettori indecisi (bisticcio voluto). La vita è lavoro, meglio se gratificante e adeguatamente remunerato, a partire dal reddito di cittadinanza. Questa è un’idea di sinistra, di progresso, di potenziale successo. Attendo la “declinazione” sintetica e allettante da giocatori e allenatori del campetto/campolargo.

Pubblicato il 31 agosto 2022 su Domani

Sic transit Draghi

Alla domanda del Presidente del Consiglio Draghi, solenne e ripetuta tre volte: “siete pronti a costruire un nuovo sincero patto di fiducia?”, la risposta di quel che resta del Movimento 5 Stelle è stata, insinceramente, che il patto non l’avevano rotto loro. La risposta di Lega e Forza Italia è stata: “no, vogliamo negoziare un nuovo governo con un ampio ricambio nelle cariche ministeriali”, implicitamente perseguendo il loro obiettivo principale, ovvero l’emarginazione dei Cinque Stelle. Poiché l’obiettivo di Draghi, condiviso con il Presidente della Repubblica, consisteva nel tenere insieme tutti coloro che avevano dato vita al suo governo, tutti gli spazi di continuazione si sono bruscamente chiusi. Senza possibilità di recupero. Peggio, però: invece, di assumersi a viso aperto le loro responsabilità politiche, Forza Italia, la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno annunciato la non-partecipazione al voto. Poiché il voto di fiducia si esprime attraverso l’appello uninominale, gli italiani, in nome e per conto dei quali i parlamentari sostengono di lavorare, rappresentandoli, non sapranno come il “loro” Senatore/trice ha effettivamente votato. II novantacinque “sì” (Partito Democratico e LiberieUguali) ottenuti da Draghi non sono numericamente e, meno che mai, politicamente sufficienti per rimanere in carica. Dobbiamo augurarci che nessuno li utilizzi per qualche oscura manovra parlamentare.

   Una legislatura inizialmente dominata dagli opposti populismi di Cinque Stelle e Leghisti, continuata con Cinque Stelle e Partito Democratico, si conclude con la rovinosa sconfitta di uno dei governi italiani migliori di sempre per quello che ha fatto, per quello che ha impostato, per il suo prestigio in Europa e per la autorevolezza e credibilità del suo Presidente del Consiglio. Tutto sostanzialmente irripetibile. Naturalmente in una democrazia parlamentare i governi nascono, si trasformano, muoiono in parlamento. Agli elettori viene regolarmente affidato il compito di valutare quello che i partiti da loro votati e i parlamentari da loro eletti hanno fatto, non fatto, fatto male. Chiedere agli elettori di risolvere i conflitti di Palazzo, illuminare tensioni oscure, stigmatizzare ambizioni inconfessabili non è un modo democratico di operare. Chiamare gli elettori italiani a votare con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza naturale della legislatura, marzo 2023, senza spiegare le conseguenze costose dell’anticipo, prima fra tutte le probabilmente grande difficoltà a completare tutte le opere richieste e abbondantemente finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, è molto grave. Certamente non serve per educare i cittadini alla complessità della politica. La fine brusca e brutale del governo Draghi segnala che alcuni partiti italiani perseguono il potere in sé prima che il potere per attuare il programma indispensabile al rilancio dell’Italia. La situazione, nazionale e internazionale, è davvero brutta.  

Pubblicato AGL il 21 luglio 2022

I partiti che vogliono la crisi hanno fatto i conti? @DomaniGiornale

Cinque stelle cadenti, fibrillanti, deluse e deludenti, anche se escono dal governo, non riusciranno, numericamente, a privarlo della maggioranza. Politicamente, di certo Mattarella lo ha fatto sapere alto e forte a Conte, faranno un errore e, soprattutto, un torto, più che altro di immagine, quella che deriva da instabilità/inaffidabilità, all’Italia poichè il governo potrà continuare. “Tiremm innanz” dirà Maio Draghi che, giustamente, non vuole fare pagare al paese il prezzo delle bizze di Conte che ha bisogno di fare la faccia feroce per dimostrare di essere quel capo politico che per provata flagrante mancanza di capacità (e di umiltà di apprendimento) non riuscirà mai a diventare. Fuori all’aperto, libero e svincolato, il Conte incontrerà forse il Di Battista errante, ma quante divisioni di elettori avranno mettendosi insieme? E chi di loro due ha in qualche modo dimostrato di saperli raggiungere, convincere, organizzare e motivare ad andare alle urne? Con quali premesse, prestazioni e promesse? Quale “visione” sta elaborando il Conte, con l’aiuto, indispensabile, di chi? Di un paio di giornalisti e qualche sociologo di riferimento?

   Altra storia sarebbe, sarà, se ad andarsene, più o meno inopinatamente, fosse la Lega di Salvini (quella di Zaia, Fedriga, Giorgetti soffrirebbe, ma si presterà all’obbedir tacendo). Preferibile è continuare a vedere il salasso di punti di sondaggi a a favor della granitica Meloni sperando di recuperare quando gli elettori valuteranno positivamente l’operato della Lega di governo oppure andare ad una tambureggiante campagna elettorale all’insegna del “prima gli italiani” che non si fanno di cannabis, che vogliono meno tasse e più lavoro (no, non anni di lavoro in più!), senza concessioni ai figli di immigrati comunque da integrare evitando scorciatoie?

   Il Presidente del Consiglio guarda e va avanti. Gode di una rendita di posizione e, ce lo ha fatto sapere, un altro lavoro è in grado di trovarselo da solo. Però, quel che non ci ha detto è che risanare e rilanciare (Ripresa e Resilienza) è il compito di una vita, quasi una missione. Dunque, che Conte vada, pazienza; che Salvini continui pure a scalpitare, magari essendo più esplicito in richieste ricevibili, ma rimanga, altrimenti il precipizio della crisi di luglio inghiottirà i cauti e gli incauti.

   Chi vede lungo, ma neanche troppo, non può fare a meno di rilevare che nessuno dei potenziali crisaioli ha, stando così le cose, nulla da guadagnare da elezioni anticipate con la campagna elettorale che inizierebbe ad agosto. Con qualche abile e legittima manovra, il Presidente Mattarella potrebbe anche insediare un governo elettorale che terrebbe a bagnomaria i Cinque Stelle, i leghisti di Salvini e gli speranzosi Fratelli d’Italia. A mio modo di vedere c’è ancora un campo molto largo nel quale ognuno abbia la possibilità di portare un tot di penultimatum a suo piacere. Potrebbero anche utilizzare sei-otto mesi non nello sterile e infantile gioco del pianta-bandierine proprie e strappa le bandierine altrui. Addirittura, si inizierebbe a cogliere tutti insieme qualche frutto del buon uso del PNRR. E, per chi ne ha bisogno, forse sarebbe possibile affermare che il sacrificio di stare al governo è servito proprio a make Italy great again. No, non concludo con nessun richiamo al senso di responsabilità e al patriottismo. Ma /i crisaioli qualche calcolo costi/benefici hanno almeno iniziato a farlo?

Pubblicato il 6 luglio 2022 su Domani  

Il governo non cadrà, ma In Italia non nasceranno altri partiti #intervista @euronewsit

Intervista raccolta da Samuele Damilano

“Nessun partito per ora abbandonerà il governo, per tutti è meglio aspettare la fine naturale della legislatura e intestarsi eventuali meriti”. Così Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Bologna, e autore del volume “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet), fuga ogni dubbio su una sortita di Movimento Cinque Stelle e Lega dall’esecutivo guidato da Mario Draghi. “Dal caos nei pentastellati possiamo trarre un’ulteriore prova del fatto che in Italia non si possono più creare partiti politici”.

I Cinque Stelle nel caos. La Lega che minaccia la guerra contro lo Ius Scholae. Sfogliando le pagine dei quotidiani italiani, sembra che il governo dall’oggi al domani potrebbe cadere. Sensazionalismo all’italiana?

Caduta del governo ed elezioni anticipate… sono solo stupidaggini. Il modo in cui i media italiani riportano quello che succede è sempre un po’ esagerato. Non c’è alcuna alternativa al governo attuale in questa legislatura: M5s non ha nessun luogo dove andare, ma anche gli altri partiti sono costretti ad appoggiare il governo per rivendicarne una parte del successo e ridurre gli effetti degli esiti elettorali, quasi certamente positivi, di Giorgia Meloni. 

Questa chiamata tra Grillo e Draghi c’è stata, ma è plausibile che il presidente del Consiglio abbia chiesto la testa di Conte?

No, non è plausibile. Mi fido di Draghi, che ha smentito questa versione, ma anche questo onestamente non lo ritengo un argomento interessante. Conte sarà particolarmente fastidioso e Draghi si sarà irritato, ma dato che mi pare psicologicamente stabile, avrà al massimo chiesto detto a Grillo “ma cosa pensa di fare Conte?”. Ricordiamo che quest’ultimo è stato additato come “politicamente incapace” dal fondatore del Movimento. Ma tutto ciò non è rilevante per quello che succederà. 

Rimaniamo in casa pentastellata. Di Maio se n’è andato, Conte è in evidente difficoltà e il fondatore parla direttamente con Draghi. Che cosa è oggi il movimento 5 stelle?

Innanzitutto, non è mai stato un partito, ma un raggruppamento eterogeneo di persone espresse dal territorio con motivazioni flebili e labili, cui è mancata una struttura che potesse accomunarlo a un partito. La cosa più rilevante è che non si possono più creare partiti politici nel contesto italiano. Si possono costruire alleanze, e Letta questo l’ha capito meglio di tutti, cercando di costruire un campo largo, o meglio diversi campi larghi, ottenendo un ottimo risultato nelle elezioni amministrative. Ma per ora non vedo le prospettive per la nascita di un partito vero.

Qual è dunque la legge elettorale migliore per favorire questa coalizione a livello nazionale?

Certamente il sistema maggioritario impone di fare le coalizioni nei collegi uninominali, con il rischio però di avere un parlamento “Arlecchino”. La legge proporzionale consente invece ai vari raggruppamenti di misurarsi e poi di fare un governo aggregandosi a livello parlamentare. 

Dipende molto dal tipo di sistema proporzionale, un’emulazione di quello tedesco, con una soglia di accesso al Parlamento di almeno il 5%, può essere una buona idea. 

Così da evitare, magari, di impantanarsi a ogni provvedimento, come lo Ius scholae..quanto dovrà attendere il Paese per una legge adeguata sulla cittadinanza?

Trovo le modalità del dibattito abbastanza assurde. Lo Ius scholae (proposta di legge del Pd per assegnare la cittadinanza a figli di stranieri che sono in Italia prima dei 12 anni e hanno frequentato cinque anni di scuola, ndr) per i figli degli immigrati è uno strumento di libertà da una condizione di soggezione e sottomissione, li pone sulla strada della cittadinanza, dove godranno di diritti e si assumeranno dei doveri.

“Ci sono altre priorità a cui pensare”, dicono i detrattori di questa proposta di legge

È la classica scusa; è sempre il momento buono per garantire diritti civili e politici alle persone. È ovvio che ci sono altri obiettivi, dal Pnrr all’invasione russa dell’Ucraina, passando per la direttiva Bolkestein, ma una cosa non esclude l’altra. Qua si tratta di trovare il modo di costruire un percorso di cittadinanza per persone che non solo vogliono restare nel nostro Paese, ma vogliono far vivere qua figli e figlie. Mi pare una manipolazione immensa di un problema vero, sulla vita delle persone, che vale molto di più di un pugno di voti. 

Tutto questo sembra solo un antipasto di quello che avverrà nei prossimi mesi, a intensità crescente mano a mano che ci si avvicina alle elezioni. Quale sarà l’impatto dell’opposizione interna di Conte e Salvini dei prossimi mesi sull’efficacia del governo?

L’efficacia di questo governo dipende in sostanza dalla capacità dei ministri di guidare i ministeri che presiedono. Salvini è un ballerino, un piede nel governo e uno fuori, un piede nella Nato e uno a casa di Putin. È inaffidabile, ma non va da nessuna parte neanche lui perché la maggior parte degli esponenti del partito non lo seguirebbe in una direzione che non contempli la permanenza nel governo e la conseguente rivendicazione dei successi ottenuti. Conte invece non ha ancora capito dove è arrivato. Ha svolto il ruolo di capo del governo in maniera adeguata, ma non sa come si costruisce un movimento politico, né tanto meno sa guidarlo. Non è in grado di parlare con i parlamentari, né di rivolgersi all’opinione pubblica. Nessuno può ristrutturare il Movimento. Lo potrebbe fare Grillo, dal punto di vista retorico e ideale, ma da quello strutturale non sanno dove andare, volevano fare la democrazia digitale, che fine ha fatto?

Eppure il Movimento sembrava poter rivoluzionare la politica italiana. Perché, in conclusione, non esisteranno più i partiti nel nostro Paese?

Basta partire da una semplice definizione: un partito è un’organizzazione di uomini e donne che presentano candidati alle elezioni, ottengono voti e vincono seggi e cariche. Ma, a monte, deve esserci un’organizzazione di uomini e donne che credono in qualcosa. C’è un’ideologia, o una cultura politica di riferimento? Ovviamente no. Non vedo prospettive nemmeno per un partito europeista, perché per tre quarti questo spazio è occupato dal Partito democratico. Restano altre tematiche? Il sovranismo, che sembra avere un po’ tirato la corda. Si possono mettere insieme ecologia e diritti per le persone transessuali, ma non è certamente su questo che si costruisce un partito.

Pubblicato il 1 luglio 2022 su euronewsitalia

Letta deve aprire il campo largo a tutti quelli affidabili @DomaniGiornale

La strada è tracciata o, quantomeno, indicata: “campo largo”. Il centro-destra non è compatto né nel momento elettorale, come dimostrato dagli esiti delle elezioni ammnistrative, né qualora arrivasse al governo (ma su questa eventualità non mi avventuro) diviso com’è su scelte importanti a cominciare dall’Unione Europea. Tuttavia, continua ad avere più voti del centro-sinistra. Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, tiene la barra e incassa qualche non marginale risultato. Certo, continuare a credere nel Movimento Cinque Stelle richiede una straordinaria pazienza e anche molta generosità. Tuttavia, dovrebbe stare diventando sempre più chiaro ai pentastellati, di ieri e di oggi, per quelli di domani servirà una buona campagna elettorale, che, da solo, il Movimento 5 Stelle non va da nessuna parte. Meglio, si avvia verso la quasi totale irrilevanza, Insomma, il PD è alleato essenziale per le Cinque Stelle. Merito di Letta è di non farlo pesare in attesa che il Conte titubante ne prenda pienamente atto e non faccia nessun avventuroso giro di tarantella.

   I Cinque Stelle sono necessari, ma non sufficienti a fare un campo largo capace di ottenere tutti i voti richiesti per arrivare alla maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Dunque per allargare l’attuale campo, con il PD che, non dimentichiamolo, oltre il 21-22 per cento su scala nazionale sembra non essere in grado di andare, è imperativo trovare altri alleati. Alcuni, ad esempio, Più Europa, sanno che, anche programmaticamente, i Democratici sono non solo il referente da privilegiare, ma la loro àncora di sicurezza. Altri, penso ad Italia Viva, sono piuttosto (è un eufemismo) inaffidabili ed è difficile che si emendino. Altri ancora, come Azione di Calenda, pongono una preclusione dirimente: niente Cinque Stelle nel campo largo. In questo modo, però, la sconfitta appare garantita.

   La formulazione della strategia che porti alla crescita e le sue modalità stanno tutte nelle mani di Letta. Mi sembra che nel PD non siano molti (anche questo è un eufemismo) coloro che, invece di badare alla conservazione del loro personale seggio, si dedichino all’elaborazione di idee e magari anche a un sano e impegnativo lavoro sul territorio, questo sì diventato largo assai dopo la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari. Sono giunto alla conclusione, parzialmente rivedibile dopo le dure lezioni della storia, che Letta deve tenere aperti gli ingressi nel suo campo largo a tutti coloro che garantiscano europeismo e impegno convinto e effettivo all’attuazione integrale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Deve promettere che il governo del quale il Partito Democratico sarà comunque il perno s’impegnerà nella crescita culturale e economica dell’Italia. Chi non volesse assumere congiuntamente questo impegno non è un alleato affidabile, e allora sarebbero/saranno guai per tutti.

Pubblicato il 15 giugno 2022 su Domani  

Qual è lo scopo della guerriglia di Conte e Salvini @DomaniGiornale

Si direbbe che l’impegno di Salvini e di Conte a favore della pace, la loro personale politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi, consista nel fibrillare, intralciare, controproporre senza nessuna possibilità di controllo dei costi e dei benefici, a cominciare dalle concessioni balneari e dalla revisione del catasto. Due interventi che dovrebbero caratterizzare la normale, purché buona, amministrazione e che suscitano molta opposizione da coloro che, chiamiamo le cose con i loro nomi, godono di privilegi quantomeno quarantennali. Ho assistito personalmente in Senato negli anni ottanta alla mobilitazione dei bagnini.

    Diversamente esaltati dal loro incommensurabile e incomprimibile egocentrismo, Berlusconi e Renzi non fanno nessuna fatica a trovare argomenti che li differenzino dalla maggioranza di cui fanno parte, anzi, la maggioranza che, a sentire le loro argomentazioni, è stata da loro voluta con l’aggiunta che, neanche si discute, Draghi Presidente del Consiglio è un loro colpo di genio. Insomma, l’unico che, responsabilmente, porta la croce e che, se proprio non ce la fa a cantare, almeno prova a predicare con grande pazienza, è Enrico Letta, il segretario del Partito Democratico. Però, gli elettori che apprezzano le sue ponderate parole e i suoi sobri comportamenti continuano a rimanere numericamente gli stessi da parecchi mesi. Il Movimento Cinque Stelle ha già forse raggiunto il punto più elevato del suo sfaldamento, e Conte boccheggia. Quel che rimarrà del suo consenso elettorale non basterà al PD per estendere il suo “campo” fino a ricomprendere Palazzo Chigi.

   Più volte ho scritto, e continuo ad attestarmi su quella linea, che spostamenti elettorali anche significativi non sono affatto da escludere. Nella prossima campagna elettorale potrà persino succedere che faccia la sua comparsa qualche candidatura attraente, emerga un tema importante per il quale un solo leader ha una soluzione plausibile, alcuni dirigenti facciano, sono in molti ad averne la capacità, qualche errore clamoroso. Posticiperei, però, tutto questo bel discorso e le sue implicazioni all’inizio dell’anno prossimo. Quello che vedo tristemente adesso è che i guerriglieri politici italiani hanno perso di vista i fondamentali. Soltanto con gli europei e, non prendendo le distanze “opportunistiche, ma cooperando con la Nato, sarà possibile mantenere quel non molto prestigio internazionale di cui, sostanzialmente grazie a Draghi, l’Italia sta tuttora godendo. Soltanto procedendo all’attuazione rapida e esauriente di tutti i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza l’Italia riprenderà slancio (meglio se con quella giustizia sociale e economica che deriva dalla concorrenza “sulle spiagge” e dalla revisione del catasto). E allora? Resettare.

Pubblicato il 25 maggio 2022 su Domani

La Repubblica non può restare appesa a Draghi e Mattarella @fattoquotidiano

“Un lavoro so trovarmelo da solo”. Questa secca frase pronunciata con irritazione da Mario Draghi contiene molti elementi che non debbono essere sottaciuti. Certo c’è anche una sottile e assolutamente comprensibile critica nei confronti di coloro che non hanno voluto o saputo favorirne l’elezione al Quirinale. Soprattutto, però, è un messaggio ai dirigenti dei partiti per quello che fanno e quello che non fanno. Troppo affannati a rincorrere l’ultima dichiarazione di un qualsiasi parlamentare e a soffermarsi su polemichette di corto respiro e poco interesse, troppi commentatori perdono di vista gli elementi strutturali della politica italiana. Alla nascita del governo Draghi, che riduceva notevolmente potere e presenza dei partiti, molti sostennero che all’ombra del governo, i partiti avrebbero avuto modo e tempo per cercare di ridisegnare le loro strategie, ma soprattutto di riorganizzarsi e rimettersi in sintonia con gli italiani. Non è avvenuto praticamente nulla di tutto questo. Al contrario, l’elezione presidenziale ha dimostrato l’impreparazione di tutti i protagonisti e l’inadeguatezza delle loro visioni politiche. Per evitare la cosiddetta “crisi di sistema” il Parlamento ha richiamato il non troppo reticente Presidente uscente facendone quasi un uomo della Provvidenza. L’altro uomo della Provvidenza, ovvero Mario Draghi, insostituibile, ha potuto così continuare alla guida del governo per proseguire e portare a augurabile compimento l’opera di ripresa e resilienza consentita all’Italia dagli ingenti fondi europei.

   Personalmente, non credo alla crisi di sistema, ma appendere le sorti della Repubblica italiana alla longevità di Mattarella e al prolungamento di un ruolo politico per Draghi significherebbe comunque, rimanere sostanzialmente nella crisi politica che ha caratterizzato tutta la legislatura in corso. La controprova viene dai partitini, un tempo sarebbero stati definiti “cespugli”, assembrati intorno al centro geopolitico, che la loro convergenza vorrebbero effettuarla sotto la guida di Draghi contando su voti aggiuntivi che, discutibilmente, il nome del Presidente del Consiglio apporterebbe loro. Di idee ricostruttive che scaturiscano da quei cespugli: la “moderazione”? la “fine del bipolarismo feroce”?, proprio non se ne vedono. Nel frattempo, nel centro-destra, che alcuni di loro propagandisticamente definiscono “compatto”, permane una lotta dura per la leadership e soprattutto appare enorme la distanza nelle posizioni relativamente all’Unione Europea. Il campo nel quale si è insediato il Partito Democratico è largo nelle intenzioni, ma non demograficamente in crescita, in attesa di elettori le cui aspettative non vengono soddisfatte da messaggi politici rilevanti e innovativi. Troppo facile parlare di lotta alle diseguaglianze senza indicare con precisione gli obiettivi da perseguire e le relative modalità. Eppure, è proprio dalla ripresa dell’economia che bisogna sapere trarre stimoli per procedere verso la riduzione delle diseguaglianze e l’ampliamento delle opportunità.

   La cosiddetta “agenda Mattarella” esplicitata nel discorso del Presidente contiene una indicazione molto significativa concernente il ruolo del Parlamento che non va compresso e schiacciato dal governo, meno che mai a colpi di decreti accompagnati dalla imposizione di voti di fiducia. Quel ruolo potrà migliorare, ma di poco, grazie alla riforma dei regolamenti parlamentari, ma riuscirà ad affermarsi soltanto se i parlamentari saranno eletti con modalità che li liberino dalla sudditanza ai capipartito e capicorrente che li hanno nominati e li obblighino sia a trarre consenso dai loro elettori sia a essere responsabili nei loro confronti. Il cattivo funzionamento del parlamento è la condizione prima e fondamentale che incide sulla qualità di una democrazia parlamentare e che rischia di aprire una crisi di sistema senza prospettive.

Pubblicato il 15 febbraio 2022 su Il Fatto Quotidiano

Democrazia Futura. Draghi Presidente. Da Palazzo Chigi al Quirinale a quali condizioni? @Key4biz #Quirinale22

L’elezione per il Colle e la tentazione di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica senza uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Le riflessioni di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.

Mai nella storia delle dodici elezioni presidenziali italiane un Presidente del Consiglio è passato da Palazzo Chigi al Quirinale diventando Presidente della Repubblica. Nulla osta a questa transizione, ma è opportuno valutarne le premesse, le implicazioni, le conseguenze. Con tutta probabilità, Mario Draghi non sta ragionando in termini di pur legittime ambizioni personali. La sua riflessione si basa sulla necessità/desiderio di portare a realizzazione completa con successo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Rimanendo a Palazzo Chigi riuscirà a ottenere l’esito voluto entro il marzo 2023 oppure rischia di essere estromesso prima o comunque sostituito subito dopo le elezioni politiche del 2023 a compito non ancora soddisfacentemente adempiuto? In questo caso, potrebbe apparirgli preferibile accettare l’elezione alla presidenza nella consapevolezza che dal Colle sarà in grado di sovrintendere al PNRR anche grazie al suo enorme prestigio europeo. Quello che è certo è che non accetterebbe di essere eletto al Quirinale se gli si chiedesse in cambio lo scioglimento immediato del Parlamento (richiesta adombrata da Giorgia Meloni). Certo, il centro destra compatto potrebbe prendere l’iniziativa di votare il suo nome fin dalla prima votazione quasi obbligando quantomeno il Partito Democratico a convergere. Lo scioglimento del Parlamento sarebbe, però, la conseguenza quasi inevitabile dell’abbandono del governo ad opera della Lega e di Forza Italia. D’altronde, Draghi non potrebbe porre come condizione di una sua eventuale elezione alla Presidenza che i partiti dell’attuale coalizione gli consentano di scegliere e nominare il suo successore a Palazzo Chigi. Anzi, come Presidente avrebbe il dovere costituzionale di aprire le consultazioni nominando la persona suggeritagli dai capi dei partiti a condizione che il prescelto sia in grado di ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento. Sappiamo anche, lo ha detto il Presidente Mattarella ed è opinione diffusa a Bruxelles, che il potenziale capo del governo deve avere solide credenziali europeiste.

   Il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha sostenuto che se Draghi nominasse il suo successore il sistema politico italiano entrerebbe in una situazione definibile come “semipresidenzialismo di fatto”. Fermo restando che nessuna elezione e nessuna carica sono tanto importanti da produrre di per sé un cambiamento nel modello di governo di qualsiasi sistema politico, meno che mai di una democrazia, sono in disaccordo con Giorgetti e ancora di più con i critici che l’hanno accusato di auspicare un qualche sovvertimento costituzionale. Il fatto è che il Presidente della Repubblica Draghi che nomina il Presidente del Consiglio è la procedura esplicitamente prevista nella Costituzione italiana all’art. 92. Quanto al Parlamento l’art. 88 ne consente lo scioglimento “sentiti” i Presidenti delle Camere i quali debbono comunicare al Presidente che non esiste più la possibilità di una maggioranza operativa in grado di sostenere l’attività del governo. Peraltro, come abbiamo imparato dai comportamenti di Scalfaro, che negò lo scioglimento richiesto da Berlusconi nel 1994 e da Prodi nel 1998, e di Napolitano, che non prese neppure in considerazione lo scioglimento nel novembre 2011 probabilmente gradito al Partito Democratico, il vero potere presidenziale consiste proprio nel non scioglimento del Parlamento obbligando i partiti a costruire un governo e a sostenerlo, obiettivi conseguiti in tutt’e tre i casi menzionati.

    Lungi dal configurare una situazione di semipresidenzialismo di fatto la dinamica costituzionale italiana rivela uno dei grandi pregi delle democrazie parlamentari: la flessibilità. Al contrario, il semipresidenzialismo, come lo conosciamo nella variante francese, è relativamente rigido. Ad esempio, il Presidente non può sciogliere il Parlamento se questi non ha compiuto almeno un anno di vita. Poi, lo può sciogliere giustificando la sua decisione con la necessità di assicurare il buon funzionamento degli organi costituzionali. Solo quando sa che nell’Assemblea Nazionale esiste una maggioranza a suo sostegno, il Presidente francese può nominare un Primo ministro di suo gradimento. Altrimenti, è costretto ad accettare come Primo ministro chi ha una maggioranza parlamentare. Questa situazione, nota come coabitazione, si è manifestata in tutta evidenza nel periodo 1997-2002: il socialista Lionel Jospin Primo ministro, il gollista Jacques Chirac Presidente della Repubblica. Ipotizzo che, parlando di semipresidenzialismo di fatto, Giorgetti pensasse alla fattispecie di un Primo ministro che diventa Presidente della Repubblica. Certo quasi tutti i Primi ministri francesi hanno intrattenuto questa aspirazione e alcuni, pochissimi (Pompidou e Chirac) hanno potuto soddisfarla. Troppo pochi per farne un tratto distintivo del semipresidenzialismo.

   In conclusione, non credo che il tormentato dibattito italiano sia effettivamente arrivato alle soglie del semipresidenzialismo, modello complesso che richiederebbe anche una apposita legge elettorale. Temo, invece, che confuse, ripetute e prolungate votazioni parlamentari per il prossimo Presidente della Repubblica finiscano per dare fiato ai terribili semplificatori che vorrebbero l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica italiana senza avere uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Esito: confusione de facto. Con un po’ di retorica concluderò che non è questo che ci chiede l’Europa.  

Pubblicato il 23 gennaio 2022 su Key4biz

Criteri e qualità per la scelta del nuovo Presidente della Repubblica @DomaniGiornale

Nessun sistema politico deve trovarsi mai appeso ad un solo uomo. Neanche quando quest’uomo, come Mario Draghi, gode di straordinario prestigio conquistato nell’Unione Europea grazie alle sue qualità tecniche e capacità personali. Ha saputo tenere insieme, tradurre, orientare, talvolta fare cambiare le preferenze dei componenti della Banca Centrale Europa e di non pochi ministri delle Finanze. Forse, quasi inconsapevolmente, deve avere pensato che tenere insieme e convincere i segretari dei partiti della maggioranza eterogenea che si è a lui affidata non poteva essere una missione impossibile. In effetti, non lo sarebbe (stata), anche grazie al suo apprendimento di alcune modalità di rapportarsi a quei segretari e ai loro ministri (che lo vedono da vicino) se non fosse che ai compiti di governo, aggravati dalla pandemia, si è aggiunto il problema della elezione del Presidente della Repubblica.

    Draghi ha avuto qualche mese per abituarsi all’idea di diventare Presidente del Consiglio e soprattutto sapeva fin dall’inizio che avrebbe goduto del sostegno istituzionale, politico e personale del Presidente Mattarella. La situazione attuale, con chi lo spinge, amoveatur ut promoveatur, alla Presidenza della Repubblica, forse per liberarsene, ma soprattutto senza avere la credibilità e la forza politica sufficiente per garantire l’esito, e chi desidera mantenerlo a Palazzo Chigi, ma soprattutto per farne un parafulmine, è tanto inusitata quanto foriera di rischi, per lui e per il sistema politico. Con la dichiarazione di essere-sentirsi “un nonno al servizio delle istituzioni”, Draghi ha dato la sua disponibilità aprendo una strada che spetta ai segretari dei partiti decidere se percorrere o no. Di più, Draghi non deve e non può dire.

   In qualche modo, alcuni esponenti dei partiti hanno già fatto conoscere le loro preferenze, con chi vuole mantenere Draghi al governo per candidare altri, magari se stessi, alla Presidenza della Repubblica, e chi è persino disposta a eleggere Draghi pur di porre fine alla sua azione di governo e ottenere elezioni anticipate. Non può essere Draghi a scegliere una opzione piuttosto dell’altra salvo, comprensibilmente, sottolineare che l’azione di governo su pandemia e PNRR non è da interrompere, ma necessita di essere approfondita. Le domande allora vanno tutte indirizzate agli uomini e alle donne dei partiti e ai loro parlamentari. Il dibattito non può essere sui numeri, utili a conoscere le chances, ma non necessariamente a individuare il/la candidato/a migliore.

    Le ricostruzioni delle precedenti elezioni presidenziali, prive di qualsiasi riflessione sullo stato del sistema politico italiano quando si svolsero, e di qualsiasi valutazione sulle conseguenze di ciascuna specifica elezione, sono tanto inadeguate quanto, persino, fastidiose. Trarremmo tutti vantaggi conoscitivi, oserei aggiungere democratici se, come coloro che rappresentano, sì lo so, a causa della legge elettorale Rosato, più o meno casualmente, volessero rendere noti i criteri con i quali intendono scegliere: dalla volontà di stare con il proprio partito al sistema politico che desiderano, dalle capacità del candidato/a agli equilibri politici da mantenere o da cambiare. Provocatoriamente concludo che Draghi, una volta annunciata la sua indisponibilità a rispondere a domande sul suo futuro, avrebbe potuto chiedere a ciascuno dei giornalisti (che, talvolta, riescono persino a influenzare l’opinione pubblica e i parlamentari!) di esprimersi in materia di Presidenza della Repubblica. Fatevi la domanda e dateci la risposta.     

Pubblicato il 12 gennaio 2022 su Domani