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UNIONE EUROPEA: DENARI SENZA VALORI? Stato di diritto o stato di paralisi. Il dialogo tra Gianfranco Pasquino e Roberto Santaniello continua @europainitalia @rsantaniello @C_dellaCultura

Continua il dialogo edificante (ovvero costruttivo) tra un tecnocrate e un eurocrate

Gianfranco Pasquino* e Roberto Santaniello**

  • Caro Tecnocrate, tira un po’ di “brezza” tra Bruxelles, Varsavia e Budapest, se si vuole essere rassicuranti.

Gli ambasciatori di Polonia e Ungheria hanno annunciato ai colleghi del Coreper (il Comitato dei Rappresentanti Permanenti), che i loro governi potrebbero votare contro il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 se fosse inserita la regola, concordata da presidenza tedesca e Parlamento europeo, del rispetto dello stato di diritto da parte dei beneficiari dei fondi europei.

I due ambasciatori hanno così confermato la sostanza delle lettere inviate da Orbán e Morawiecki alle massime cariche istituzionali dell’Unione europea nelle quali si afferma che “qualsiasi meccanismo discrezionale che sia basato su criteri arbitrari e politicamente motivati non può essere accettato”.

Potrebbe profilarsi un bel problema sia per NextGenerationUE che per il bilancio pluriannuale 2021-27. Ricordo che il Consiglio europeo può votare a maggioranza il NextGenerationUE, mentre l’unanimità è richiesta sia per l’adozione del bilancio e del “tetto” delle risorse proprie. Quest’ultima decisione (preliminare, ndr) deve essere ratificata dai parlamenti nazionali, mentre per la decisione sul bilancio pluriannuale è “sufficiente” l’approvazione del Parlamento europeo. Ricordati questi elementi tecnico-istituzionali, non mi rimane sottolineare che in termini di calendario, spetta al Parlamento europeo pronunciarsi per primo la prossima settimana, mentre la riunione del Consiglio europeo è fissata il 10/11 dicembre e sarà preceduta dal Consiglio Affari generali l’8 dicembre. Detto tutto questo chiedo a lei, caro Tecnocrate, di esprimersi. Come la vede? Brezza o Tempesta?

  • Caro Burocrate, non si tratta soltanto di scegliere fra Brezza e Tempesta poiché, purtroppo, anche le tempeste possono cominciare come venticelli. La situazione mi pare tremendamente complicata poiché coinvolge le istituzioni, gli ideali e gli interessi. Non possiamo fare finta che l’Unione Europea non sia e non debba essere anche una organizzazione di interessi. Il funzionalismo non sparisce mai. Non dobbiamo neanche pensare che la Germania non abbia intenzione e, in una certa misura, la facoltà di difendere i suoi interessi economici, quelli delle sue imprese e dei loro investimenti in Ungheria e in Polonia. Per capirne di più, propongo un accurato spacchettamento. Non credo che il Parlamento e la Commissione possano recedere dalla loro sacrosanta richiesta che l’Ungheria e la Polonia rispettino lo Stato di diritto. Mi augurerei di sentire anche la voce dei capi di governo degli Stati frugali esprimersi su un tema che dovrebbe essere loro caro e sul quale l’Italia, nonostante Meloni e Salvini, anzi, proprio per metterli all’angolo, dovrebbe solennemente ribadire la sua posizione: la rule of law si rispetta e la si applica, sempre, ovunque. L’Unione è un sistema politico democratico. Ė, come scrivo e sostengo da tempo, il più grande spazio di libertà e di diritti al mondo. Non deve essere incrinato da due governi devianti. Sicuramente, la trattativa deve essere condotta da Angela Merkel, in quanto Presidente del semestre europeo, ma nessuno dimentichi che è anche il capo di governo dello Stato inevitabilmente più influente. Fin qui gli interessi. In secondo luogo le regole e le procedure. Bisogna chiarire che cosa deve essere votato all’unanimità e per che cosa è sufficiente una maggioranza qualificata o semplicemente assoluta. Le chiederei di precisare questo punto. Nel frattempo, sono giunto ad una conclusione intermedia. Si voti il prima possibile sulla proposta congiunta Commissione-Parlamento e ciascun capo di governo si assuma trasparentemente le sue responsabilità. Troppo spesso l’Unione è stata accusata, a ragione, di mancanza di trasparenza. Questa volta tutto deve venire alla luce, soprattutto i ricatti e le loro conseguenze. Dopodiché, naturalmente, come in tutte le democrazie potranno continuare i negoziati e, di conseguenza, come in tutte le democrazie, potranno seguire altre votazioni, ravvicinate. A Ungheria e Polonia, in particolare alle loro opinioni pubbliche e operatori economici, è imperativo che, attraverso una intensissima campagna di informazione, la Commissione comunichi i termini del problema, le responsabilità, le conseguenze, ma anche le modalità di soluzione. A Bruxelles bisognerà anche interrogarsi su come abolire le votazioni all’unanimità, mai democratiche poiché consentono a un “votante” di ricorrere al potere di ricatto e impediscono a maggioranze rappresentative, spesso enormi, di procedere. Bisognerà anche dire ad altissima voce, soprattutto ai populisti sovranisti, che nessuno schiaccia la sovranità di uno qualsiasi degli Stati-membri, ma li richiama al rispetto di regole e procedure da ciascuno di loro accettati al momento dell’adesione. Le chiederei di commentare su questi punti, correggendo e chiarendo, magari con opportuni riferimenti ai Trattati.
  • Caro Tecnocrate, come la sua qualifica sottolinea, non posso correggerla poiché i suoi riferimenti sono esatti. Le regole istituzionali a trattati vigenti le ho ricordate in precedenza. Sul quadro finanziario pluriannuale il Consiglio europeo vota all’unanimità, con l’approvazione del Parlamento europeo. Dunque si tratta di una decisione conforme al metodo comunitario. Sul tetto delle risorse proprie, risorse che servano a finanziarie il bilancio (di entrate) pluriannuale, il Consiglio europea vota all’unanimità ed è necessaria la ratifica degli Stati membri e dunque dei parlamenti nazionali. In questo caso, come può ben capire si tratta di una decisione tipica del metodo intergovernativo. Per concludere, entrambe le decisioni sono soggette al diritto di veto degli Stati, quella sul tetto delle risorse proprie deve superare un doppio barrage, non solo quello dei governi, ma anche dei parlamenti. Ricordo ancora, come ultima annotazione, che il Consiglio europeo adotta la decisione sul NextGenerationEU a maggioranza qualificata ritornando nell’alveo del metodo comunitario. Ricordo infine che quasi tutte le decisioni adottate nel quadro del metodo comunitario è prevista la maggioranza qualificata, tranne alcune eccezioni, come quella sul bilancio, dove è richiesto il voto all’unanimità. Durante le conferenze intergovernative che hanno condotto alle riforme dei Trattati il voto all’unanimità è stato progressivamente eliminato, salvo sulle materie dove gli Stati membri non vogliono perdere la propria sovranità, come la fiscalità e alcuni diritti sociali. Per eliminare del tutto il voto all’unanimità, penso anche a quello che condiziona una politica estera e di sicurezza più fluida (ne ha parlato anche Ursula von der Leyen nello Stato dell’UE), sono necessarie delle modifiche ai trattati vigenti. Una parola infine sui governi “recalcitranti” alla questione della condizionalità in base al rispetto dello Stato di diritto. C’è un bell’articolo nel Trattato sull’Unione europea che riguarda la leale cooperazione. Si tratta dell’articolo 4, paragrafo 3. Vale la pena riportarlo per intero: “in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Credo che basterebbe ricordare a tutti, e soprattutto ad Ungheria e Polonia (ai quali si è aggiunta la Slovenia per “amicizia” del suo capo di governo con Orbán), il contenuto di questo articolo. Sperando che il burocrate le abbia fornito gli elementi di chiarimento, le ripasso la parola, per una conclusione da Tecnocrate. Io mi sono limitato ad inquadra gli elementi istituzionali, ma la politica o meglio la realpolitik, ci insegna che ci sono molte variabili da considerare e tra questi gli interessi.
  • Caro Burocrate, apprezzo i suoi chiarimenti che credo aggiungano qualcosa di importante alla discussione che riguarda non soltanto gli interessi, che ritengono meritino sempre adeguata attenzione, ma gli ideali che, paradossalmente, una buona realpolitik non dimentica e non sottovaluta mai. A questo punto, per qualche giorno, la palla passa al Parlamento Europeo i cui componenti debbono evidenziare con forza il contenuto e le implicazioni dell’art. 4, paragrafo 3, da lei opportunamente citato. La “leale cooperazione” deve essere messa all’opera hic et nunc. In quanto tecnocrate e come tale possessore di ottime idee, ma privo di potere politico, penserei che il Presidente del Parlamento unitamente alla Presidente della Commissione dovrebbero proporre ad Ungheria e a Polonia un fecondo decoupling. Accettino quei due capi di governo di approvare il bilancio 2021-2027 relativamente al quale comunque mantengono e potrebbero usare la mannaia della non ratifica da parte dei rispettivi Parlamenti. Dopodiché, Commissione e Parlamento riconsidereranno la valutazione di quelle che sono le gravi violazioni loro attribuite relativamente allo Stato di diritto. Ungheria e Polonia manterranno la possibilità di obiettare, consapevoli, però, che rischiano di perdere parte, piccola o grande, dei fondi previsti nel NextGenerationUE. Faccia il suo lavoro la diplomazia. Nel frattempo si dia anche inizio alla procedura di riduzione delle votazioni all’unanimità con l’obiettivo della loro completa eliminazione. Quello che è razionale diventerà reale?

Bruxelles-Bologna, 20 novembre 2020

Gianfranco Pasquino* è un europeo nato nei pressi di Torino. Ha conosciuto Altiero Spinelli e ha davvero letto Il Manifesto di Ventotene. Parla alcune lingue europee, francese e spagnolo, e una lingua extra-europea, l’inglese. Ė Professore Emerito di Scienza politica, materia che gli ha consentito di essere invitato a Monaco di Baviera e Berlino, Oxford, Cambridge e Manchester, Parigi. Lisbona e Madrid. Ha variamente scritto di sistemi politici comparati e di Europa: Capire l’Europa (1999) e L’Europa in trenta lezioni (2007). Di recente è stato co-curatore di una ricerca approfondita e ambiziosa: Europa. Un’utopia in costruzione (2017), contribuendovi due densi capitoli. Ė convinto che l’unità dell’Europa è un obiettivo nobilissimo.

Roberto Santaniello**, romano di nascita, federalista per convinzione, è diventato civil servant europeo dal 1986 per convinzione e passione, incontrando sulla sua strada persone che dell’Europa hanno fatto una ragione di vita (Altiero Spinelli e Virgilio Dastoli). Mai pentito di questa scelta ideologica e professionale. Funzionario della Commissione europea, oggi presso la Rappresentanza in Italia, da sempre artigiano della comunicazione e dell’informazione sul l’Europa, autore a tempo perso di libri sulla storia e la politica della costruzione comunitaria. Eccone una selezione: Storia politica dell’integrazione europea con Bino Olivi; Prospettiva Europa, con Virgilio Dastoli e Alberto Majocchi; C’eravamo tanto amati, Italia Europa e, con Virgilio Dastoli, Capire l’Unione europea. Pensa che sia possibile fare ancora molta strada europea, dentro e fuori le istituzioni.

Leggi anche il Numero Speciale di viaBorgogna3 2019
Gianfranco Pasquino e Roberto Santaniello
DIALOGO SUL FUTURO DELL’EUROPA
Un tecnocrate e un burocrate a confronto
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Pubblicato il 22 NOVEMBRE 2020 su casadellacultura.it

Democracia y ciudadanos de la UE

No es verdad que la Unión Europea sufra de un déficit democrático. Ciertamente, en algunos Estados miembros la democracia funciona mejor que en la propia Unión Europea. Sin embargo, en no pocos Estados miembros -por ejemplo, Hungría, Polonia, Eslovaquia y también Italia- tanto la calidad de la democracia como su funcionamiento dejan mucho que desear. En estos casos, la comparación no es favorable, ni mucho menos, a los Estados. Los así llamados soberanistas no pueden presumir de unas credenciales democráticas superiores. La oposición de esos países, muy a menudo, puede dar testimonio de cuán difícil y dura es su vida (y no solo política). El valor de la democracia radica en su capacidad para reformarse y ello, en el caso de la Unión Europea, exige la condición de que el diagnóstico sea correcto y de que los reformadores sepan proponer los remedios adecuados. Antes de declarar, por tanto, la existencia de un déficit democrático en la Unión Europea es necesario valorar, con conocimiento de causa, a qué se refiere cuando se habla de tal déficit, dónde se ubica y cómo se manifiesta.

¿Cómo no puede ser considerado democrático el Consejo en el cual se reúnen (se confrontan y enfrentan) los jefes de Gobierno de los Estados miembros? Cada uno de ellos ha ganado las elecciones en su país, por lo tanto representa a una mayoría electoral y política que permanecerá en el Consejo mientras se mantenga. Podremos, en todo caso, hacer objeciones a los procedimientos decisionales del Consejo. De un lado, a la regla de la unanimidad y, de otro, a la modalidad con la cual los jefes de Gobierno alcanzan las decisiones. La unanimidad, por otra parte rara vez utilizada, tiene escasa legitimidad democrática en tanto que permite a un mandatario bloquear cualquier decisión que no sea de su agrado aunque todos los demás jefes de Gobierno hayan alcanzado un acuerdo. El jefe de Gobierno que disiente puede, en cualquier modo, chantajear al resto. Por lo tanto, los reformadores deberían eliminar esta regla. En cuanto a la modalidad de procedimientos decisionales, en el Consejo y, en menor medida, en la Comisión, estos procedimientos son muchas veces farragosos y poco o nada transparentes. Es verdad que en algunas materias políticas es oportuno, precisamente para servir al objetivo de alcanzar decisiones mejores, preservar espacios más o menos amplios de confidencialidad. Sin embargo, sería deseable que la mayor parte de los procedimientos decisionales se desarrollasen de tal manera que los ciudadanos tengan la posibilidad real de atribuir responsabilidades, positivas y negativas, sobre qué se ha decidido, qué no se ha decidido o se ha decidido mal.

Aquéllos que consideran que la democracia se expresa de forma particular a través de las elecciones no pueden jamás sostener que el Parlamento Europeo es un organismo no democrático en el cual se manifestaría un déficit. Al contrario, la Eurocámara es un lugar muy significativo de representación de las preferencias y de los intereses de los ciudadanos europeos. En el curso del tiempo ha adquirido mayores cotas de poder tanto frente al Consejo como frente a la Comisión, controlando la actividad y evaluando los resultados. Si puede imputarse un déficit democrático al Parlamento europeo no es intrínseco a su naturaleza, sino que deriva de los partidos y los ciudadanos de los Estados miembros. Son los partidos, que hacen campañas electorales basadas en cuestiones y objetivos nacionales, a los que se debe imputar ese déficit. Paradójicamente, son menos responsables los partidos populistas y soberanistas, los cuales, haciendo campaña contra la Unión Europea, son más propensos a hablar propiamente de lo que Europa hace, no hace, hace mal y de cuánto mejor lo harían los Estados si recuperasen la soberanía cedida. Escribo “cedida”, no perdida ni expropiada, porque cualquiera de los Estados miembros ha cedido, de manera consciente y deliberada, parte de su soberanía a la Unión para perseguir objetivos que de otra manera serían inalcanzables como Estado singular.

Por tanto, los partidos nacionales son responsables de su incapacidad para convencer a los electores de ir a votar para elegir a sus representantes. Cuando, como en mayo de 2014, sólo el 44% de los electores europeos (porcentaje netamente inferior al que todos nosotros hemos estigmatizado respecto de los americanos en las elecciones presidenciales) va a votar, entonces tenemos un problema, pero que no es definible como déficit de las instituciones de la UE. Precisamente, se trata de un déficit de participación de los ciudadanos europeos a los cuales se necesitaría hacer saber, de alguna manera, que están perdiendo la facultad de criticar un Parlamento y unos parlamentarios que no han querido elegir.

En el banco de los imputados por el déficit democrático parece muy fácil poner, y hacerlo en bloque, a la Comisión Europea, y en particular a los comisarios. Les falta algún tipo de legitimación democrática. Serían, como afirman demasiados críticos mal informados y con prejuicios, burócratas o, incluso peor, los tecnócratas que los populistas consideran una raza maldita. Sobre todo porque anteponen sus conocimientos a las preferencias y experiencias del pueblo sin haber tenido nunca un mandato democrático (electoral).

La verdad es que, prácticamente siempre, han adquirido el cargo de comisario mujeres y hombres que provienen de cargos políticos y de gobierno, incluso al más alto nivel, en sus respectivos países. Por lo tanto, nunca son burócratas sino políticos, y frecuentemente con conocimientos de alto nivel. Deben su puesto al nombramiento y obra de los jefes de Gobierno de todos los Estados miembros, pero, como ya he comentado, éstos están legitimados democráticamente. Aun más, cada uno de los comisarios debe superar, o ha superado, un examen relativo a sus conocimientos y a su grado de europeísmo desarrollado frente al Parlamento europeo. Además sabe que, una vez confirmado, en su acción deberá prescindir de cualquier preferencia nacional. Deberá operar en el nombre de los intereses de la Unión Europea. Oso afirmar que la gran mayoría de los comisarios de los últimos 60 años ha tenido, de verdad, el proceso de la unificación política de Europa como estrella polar. En cuanto al presidente, a partir de 2014 se ha establecido que cada una de las familias políticas europeas pueda presentar un candidato a la Presidencia. El candidato de la familia que ha obtenido más votos es designado presidente, pero incluso en su caso debe superar el escrutinio del Parlamento europeo. Frente a estos procedimientos, cada uno con su evidente nivel de democraticidad, resulta ciertamente absurdo sostener que la Comisión no tiene signos democráticos, que existe una carencia democrática, cuando no por añadidura ilegítima. Obviamente, la Comisión, el verdadero motor institucional y en parte también política de Europa puede ser, por su parte, criticada por aquello que hace, no hace o hace mal.

Por tanto, ¿va todo bien en la Unión Europea? Ciertamente, no. Sin embargo, el problema no se llama déficit democrático. Se llama déficit de funcionalidad. Seguramente hay mucha burocracia en la Unión Europea, demasiada red tape, como han sostenido constantemente los ingleses (a los que echaremos de menos y que están dándose cuenta de que echarán de menos a Europa). Hay demasiado espacio para los lobbies, para los grupos de interés. Demasiada lentitud a la hora de tomar decisiones. Demasiada opacidad. Son inconvenientes que, asimismo, pueden ser seguramente afrontados y resueltos desde dentro de la Unión. No podrán hacerlo, desde luego, aquellos que reclaman irse fuera. Y menos aún podrán resolver estos y otros problemas -empezando por la inmigración y siguiendo con el crecimiento de las economías europeas y la regulación y la tasación de las grandes corporaciones- aquéllos que obstaculizan la Europa que existe. A pesar de los soberanistas, ningún Estado solo podrá hacer más y mejor de lo que ya ha hecho y podrá hacer en los próximos años la Unión Europea por la vida de sus ciudadanos. Serán los ciudadanos europeos, aquéllos que se interesan por Europa, que se informan, participan y votan, los que decidirán, democráticamente, qué Europa quieren. Y serán responsables de aquello que hagan, de lo que voten o dejen de votar. Tal y como ocurre en las (mejores) democracias.

Publicado el 18 de octubre de 2018 elmundo.es

C’è ancora poca Europa, troppo tiepido Juncker

Ha suscitato una fiammata di dibattito la preoccupazione espressa dal Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker che dopo il voto del 4 marzo l’Italia non sia/sarà in grado di darsi un governo “operativo”. Grande levata di scudi da tutti i protagonisti della campagna elettorale i quali, invece, di alleviare la preoccupazione di Juncker e dire a quale governo operativo daranno vita, hanno preferito gridare con toni e enfasi diverse all’interferenza dell’Europa nelle elezioni italiane. Juncker ha poi fatto una piccola marcia indietro, ma è immaginabile che lui, gli altri governi degli Stati-membri dell’Unione e, naturalmente, molti italiani siano davvero preoccupati dalla prospettiva di un non-governo dopo il voto, se non, peggio, di un governo non più europeista. Sarebbe sorprendente il contrario ovvero che Juncker dichiarasse che non gliene importa un bel niente di quel che succede in un paese che è uno dei sei Stati fondatori, che è la seconda economia manifatturiera dell’Unione Europea e che, nel bene, che c’è, eccome, e nel male, che pure fa capolino, sostiene una visione europeista federalista.

Occuparsi e preoccuparsi anche della politica negli Stati-membri sta nei doveri costitutivi della Commissione europea. Forse, guardando a quello che è successo e continua a succedere in Ungheria, Polonia e Slovacchia, la Commissione dovrebbe persino essere più intrusiva. Giustamente non è stata criticata quando ha espresso la sua critica alla Brexit e ai suoi protagonisti. Non lo è stata quando ha espresso il suo apprezzamento per la vittoria di Emmanuel Macron in Francia. È stata criticata per non avere più rapidamente e più incisivamente deprecato i tentativi secessionisti dei catalani che incidono anche sull’Unione Europea come la conosciamo e come vorremmo che diventasse, più “stretta”, più solida, più determinata.

È nell’interesse di tutti i cittadini degli Stati-membri che l’Unione Europea funzioni in maniera migliore e che, quindi, i governi di ciascuno Stato siano non soltanto stabili, ma per l’appunto operativi e che soddisfino fino in fondo i criteri della democraticità. Mi spingo più in là sottolineando che l’Unione Europea, la Commissione e il suo Presidente devono continuare a essere fortemente interessati agli sviluppi politici in ciascun paese anche perché sono troppo spesso accusati, soprattutto dai cosiddetti sovranisti di avere costruito strutture burocratiche e oligarchiche. Se vogliamo più politica e crediamo che il conflitto politico, ovviamente dentro le regole e le procedure, anche quelle elettorali, costituisca il sale delle democrazie, il parere e gli auspici di Juncker hanno un significato, contano, sono da prendere in seria considerazione.

All’insegna della non-interferenza, tutti i politici italiani e la grande maggioranza dei commentatori ne hanno approfittato per evadere la domanda implicita, ma chiarissima, di Juncker: “avrà l’Italia un governo operativo?” e, personalmente, aggiungo di quale caratura: europeista o sovranista? Nonostante i bene intenzionati sforzi di Emma Bonino, l’Europa non è nei primi posti dei punti programmatici e delle battaglie elettorali in corso. Senza esagerare in retorica, non sempre da disprezzare, sarebbe opportuno che i capipartito dicessero con grande limpidezza agli elettori che l’Europa è il destino dell’Italia e che starne fuori significa sprofondare nel Mediterraneo. Se vogliamo migliorare l’Italia dobbiamo cercare di essere più credibili come Stato-membro dell’UE grazie ad un governo in grado di assumere impegni e rispettarli ottenendo in cambio l’aiuto necessario all’economia e a problemi come, soprattutto l’immigrazione.

Stare fuori dall’Unione significa credere che l’Italia da sola saprà risolvere problemi che sono già difficili per l’Unione: pura, ma pericolosissima illusione. Insomma, Juncker ha peccato per difetto. Sarebbe stato molto preferibile che, candidamente, dicesse: “senza Europa voi italiani non andrete da nessuna parte e senza un governo operativo renderete difficile anche le importantissime attività dell’Unione”.

Pubblicato AGL il 25 febbraio 2018

Il braccio di ferro della Merkel

Premesso che le Grandi Coalizioni non sono il male assoluto, ma una modalità di formazione dei governi nelle democrazie parlamentari, CDU e SPD hanno perso voti non perché protagonisti della Grande Coalizione 2013-2017, ma per le politiche che hanno attuato/sostenuto, in materia d’immigrazione e di politica economica e sociale nell’Unione Europea. Immediatamente ripudiata dal molto sconfitto Martin Schulz, candidato della SPD, la Grande Coalizione è tuttora numericamente possibile. Potrà persino diventare politicamente praticabile. Su un punto, però, Schulz ha ragione da vendere: non si può lasciare il ruolo di opposizione parlamentare (e sociale) ad Alternative für Deutschland. Sbagliano la maggioranza dei commentatori quando molto sbrigativamente etichettano l’AfD come movimento/partito populista. No, primo, non tutto quello che non piace ai democratici sinceri e progressisti è populismo, brutto, cattivo e irrecuperabile. Secondo, la piattaforma programmatica di AfD comprende almeno tre tematiche: i) la difesa dei tedeschi, quelli che parlano il tedesco, hanno precisato alcuni dirigenti del partito, contro l’immigrazione eccessiva e incontrollata accettata/incoraggiata dalla cancelliera Merkel; ii) una posizione più dura in Europa contro gli Stati-membri che sgarrano, ma anche minore disponibilità ad andare a soluzioni quasi federaliste; iii) qualche, talvolta eccessiva, pulsione che non accetta tutta la responsabilità del passato nazista e che, talvolta, ne tenta un (odioso, l’aggettivo è tutto mio) recupero.

Facendo leva solo sulle “pulsioni”, nel passato, partiti di stampo neo-nazista erano riusciti ad arrivare nei pressi della soglia del 5 per cento, rimanendo esclusi dal Bundestag. Insomma, almeno l’8 per cento degli elettori dell’Afd, che ha ottenuto quasi il 13 per cento dei voti, è contro l’Unione Europea com’è e i migranti. Questa posizione è condivisa dai quattro di Visegrad, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Poiché due terzi dei voti di AfD provengono dai Länder della Germania orientale è lecito dedurne che non è stato fatto abbastanza per superare democraticamente culture nazionaliste e xenofobe che i regimi comunisti avevano superficialmente mascherato. Non si cancelleranno quegli infausti retaggi colpevolizzando gli elettori di AfD quanto, piuttosto, premendo sulle contraddizioni interne al movimento/partito. Con ogni probabilità, Angela Merkel farà una coalizione con i Verdi, affidabilmente europeisti, e con i Liberali, blandamente europeisti, direi europeisti à la carte, inclini a sfruttare tutti i vantaggi di cui la Germania già gode pagando il prezzo più contenuto possibile. Qui, rientra in campo, la Cancelliera con il suo potere istituzionale, con il suo appena intaccato prestigio politico, con la sua ambizione personale mai sbandierata a entrare nella storia.

Il lascito del suo mentore, Helmut Kohl, cancelliere per 16 lunghissimi e importantissimi anni 1982-1998, è consistito sia nel successo della quasi fulminea riunificazione sia nella sua infaticabile azione europeista della quale il Trattato di Maastricht e l’Euro sono i due più luminosi risultati. Vorrà la Cancelliera uscire a testa alta dal suo lungo periodo di governo avendo operato per spingere l’Unione Europea ancora più avanti in termini economici e sociali, se non anche politici? L’asse franco-tedesco non può in nessun modo essere messo in discussione. Allora, l’interrogativo è se, consumata la Brexit, Italia e Spagna sapranno cogliere l’opportunità di inserirsi costruttivamente nei rapporti fra la Germania della Merkel e la Francia di Macron. La consapevolezza che nessuno dei grandi problemi, economici e sociali, può essere risolto dagli Stati nazionali e dai “sovranisti” più o meno populisti potrà costituire l’elemento comune per inaugurare le politiche europee necessarie. È un compito per il quale la Merkel, politicamente indebolita, ma oramai liberata dall’esigenza di prossime campagna elettorali, è in grado di attrezzarsi e di svolgere.

Pubblicato AGL il 26 settembre 2017

L’Europa e i suoi nemici

L’Unione Europea ha un Alto Rappresentante per la Politica Estera, l’italiana Federica Mogherini, ma gli Stati-membri continuano a mantenere ampi spazi per la loro politica estera e fanno grande fatica (è un eufemismo) a coordinarsi proprio quando il problema da affrontare è serio. Il caso recente più emblematico è rappresentato dalle sanzioni alla Russia per il suo intervento negli affari interni dell’Ucraina. L’Unione Europea non ha una politica di difesa comune. L’ironia, questa volta molto triste, della storia, è che la Comunità Europea di Difesa fu bocciata nel 1954 proprio dai francesi, più precisamente da una strana, ma facilmente comprensibile, alleanza di gollisti (fortemente nazionalisti) e di comunisti (ancor più fortemente pro-sovietici). In seguito, la Francia del Generale Presidente Charles de Gaulle, dotatasi per ragioni di prestigio dell’arma nucleare, la force de frappe, pose praticamente la parola fine a qualsiasi progetto di difesa comune. [Un grande studioso di Relazioni Internazionali, ottimo conoscitore della Francia, recentemente scomparso, dopo avere insegnato a Harvard per più di cinquant’anni, Stanley Hoffmann criticava questo e altri comportamenti degli stati europei bollandoli come “ostinati e obsoleti”.] Oggi, il Presidente socialista François Hollande, in uno dei momenti più drammatici della storia della Francia contemporanea, ha annunciato di volere fare ricorso ad un articolo del Trattato dell’Unione europea che consente a ciascun Stato-membro di chiedere sostegno anche militare agli altri Stati-membri. Hollande non può (probabilmente neppure vorrebbe) coinvolgere la Nato nelle azioni militari francesi poiché nel lontano 1966 il Presidente de Gaulle decise di uscire dalla componente militare dell’alleanza. La Francia procederà a incontri bilaterali con tutti i capi di governo degli Stati-membri dell’Unione che dichiarino la loro disponibilità a partecipare ad azioni militari con la Francia e a sostenerla.

La risposta di Renzi è stata complessivamente positiva, ma saranno poi le concrete richieste di Hollande la base sulla quale valutare l’effettiva disponibilità italiana. Per di più, Renzi ha in qualche modo spostato l’attenzione affermando che la guerra all’ISIS non può essere risolutiva e deve essere accompagnata da altre modalità di intervento. L’idea che i terroristi anche quelli dell’ISIS e coloro che reclutano in Europa sono il prodotto di situazioni di intenso disagio sociale, di emarginazione, della disperazione non trova fondamento convincente. La manovalanza è attirata anche dalla possibilità di uscire da luoghi e ambienti, le banlieues parigine, un quartiere di Bruxelles, brutte cittadine nei dintorni di Londra, e di andare a distruggere coloro ritenuti responsabili del loro malessere. La maggioranza dei terroristi, certamente i capi e i coordinatori, non sono mossi né dal disagio né dall’emarginazione (i veri emarginati sono talmente isolati da non entrare neppure in contatto con i reclutatori). L’ISIS è un progetto politico che, nella sua ambizione: ricostruire il Califfato, un potente Stato islamico, ha enorme potere d’attrazione. Pensare che quel progetto, più o meno sostenuto e predicato da una moltitudine di imam nelle moschee del Medio-Oriente e di alcuni paesi europei, possa essere sconfitto, in tempi brevi, creando opportunità di lavoro oppure attraverso l’istruzione, è assolutamente illusorio. La guerra che la Francia e la Russia hanno lanciato contro l’ISIS e le sue basi è necessaria. Dovrà essere accompagnata, come ha detto a chiare lettere quel realista che è Putin, dal taglio dei finanziamenti all’ISIS moltissimi dei quali provengono da stati arabi, in primis l’Arabia Saudita e il Qatar, che si pagano, non sempre con successo, la loro sicurezza domestica. [Quanto ai i paesi produttori di armi, fra i quali, anche la Francia e l’Italia, dovrebbero riflettere su quello che fanno e quello che vendono].

Qualcuno ha frequentemente sostenuto che l’unificazione politica di più paesi è facilitata dall’esistenza di un nemico potente e vicino. L’Unione Sovietica è stata a lungo quel nemico per l’Europa che, infatti, fino al 1989, anzi, al 1990, riunificazione tedesca, è gradualmente cresciuta nell’integrazione. Dopo il 1989, gli Stati-membri dell’Unione hanno sacrificato l’approfondimento dell’integrazione politica all’allargamento dell’Unione con la conseguenza che Polonia, Repubblica Ceca, Slovakia e Ungheria non pensano affatto di dovere accettare alcune politiche europee comuni, in specie quella sulla redistribuzione degli immigrati. E’ possibile che l’ISIS, il nuovo nemico, facilmente entrato in un continente che giustamente si vanta di essere aperto, serva ad accelerare e ad approfondire l’unificazione politica dell’Europa.

Pubblicato AGL 19 novembre 2015

Un patto contro gli elettori

Sembra che il vero punto unificante del patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, stilato a gennaio e confermato ieri, consista nel ridimensionamento del potere degli elettori italiani. Il Senato non sarà più elettivo. La sua composizione sarà determinata dai consigli regionali, vale a dire, dai partiti colà rappresentati, certamente, come rivelano i troppi scandali degli ultimi anni, non la migliore delle classi politiche. I nuovi senatori faranno riferimento a chi li ha nominati, non ai cittadini delle rispettive regioni. Aumenteranno le firme per chiedere i referendum abrogativi, da 500 mila a 800 mila, ma anche per esercitare l’iniziativa legislativa popolare, moltiplicate per cinque: da 50 mila a 250 mila firme. Quanto alla legge elettorale, il vero snodo nei rapporti fra gli elettori, i deputati e il governo, sembra che nel migliore dei casi, Renzi e Berlusconi siano disposti ad ammorbidire le soglie per l’accesso al Parlamento, consentendo anche a partiti relativamente piccoli di ottenere seggi, in special modo se si alleano con il Partito Democratico oppure con Forza Italia, ma finora netto è il loro “no” alle preferenze. La motivazione non è detta, ma chiara: perché, da un lato, raccogliendo preferenze, i candidati riuscirebbero a dimostrare di avere un consenso politico personale; dall’altro, una volta eletti grazie alle proprie forze, non sarebbero malleabili dai loro capi partito e pretenderebbero di decidere come votare, magari, addirittura, facendosi portatori delle esigenze, delle preferenze dei loro elettori.

Ecco, il punto: “no”, quindi, alle preferenze che, con il soccorso di alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, costituirebbero “un’anomalia tutta italiana”, espressione di voto di scambio, tramite dei voleri delle lobby, portatrici di corruzione. Non importa che siano tutti fenomeni raramente provati e, in alcune aree del paese, inesistenti. Importa che, in assenza del voto di preferenza, il potere di nominare i parlamentari rimarrà solidamente nelle mani del declinante Berlusconi e dell’ascendente Renzi. Naturalmente, per riportare agli elettori il potere di scegliere i parlamentari sarebbe sufficiente e molto “democratico” introdurre i collegi uninominali nei quali chi vince cercherà poi di rappresentare tutti gli elettori con l’obiettivo di essere rieletto. In tre quarti delle democrazie europee, variamente congegnata, è garantita agli elettori la possibilità di esprimere una o più preferenze nell’ambito della lista di candidature presentata dal partito prescelto. L’elenco è molto lungo. Riguarda, con poche differenze pratiche, tutti i paesi scandinavi: Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia (incidentalmente, sono i sistemi politici nei quali c’è meno corruzione in assoluto). L’elenco contiene anche le nuove democrazie dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e della Polonia e vecchie democrazie come Belgio Lussemburgo, Olanda.

Fra le ventotto democrazie occidentali prese in considerazione (nell’analisi del mio allievo Marco Valbruzzi), ventitré concedono ai loro elettorati la possibilità di intervenire in maniera incisiva, in collegi uninominali oppure esprimendo un voto o più di preferenza, sulla scelta del o dei candidati che andranno a rappresentarli in Parlamento. Dunque, il voto di preferenza, sul quale in Italia si tenne anche un referendum popolare nel giugno del 1991, non costituisce affatto “un’anomalia tutta italiana”. Al contrario, l’Italia si trova adesso nella compagnia di una minoranza di Stati che hanno liste bloccate: Bulgaria, Croazia, Portogallo, Romania, Spagna. Non è il caso di andare a valutare il grado di soddisfazione dei cittadini di quei sistemi politici sul funzionamento delle loro democrazie. Sappiamo che gli italiani sono fra i più insoddisfatti ed è davvero azzardato pensare che la nomina dei parlamentari ad opera dei capi dei partiti non sia una delle motivazioni dell’elevata insoddisfazione. Non sarà il voto di preferenza a salvarci, ma avendolo e utilizzandolo gli elettori sarebbero almeno consapevoli che il miglioramento della politica dipende anche da chi votano.

Pubblicato AGL 7 agosto 2014

Liste bloccate? ma mi faccia il piacere!

Il voto di preferenza è, come sostengono alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, “un’anomalia tutta italiana”?

Sbagliato!

Come dimostra chiaramente la tabella preparata dal mio allievo Marco Valbruzzi, soltanto quattro paesi su ventuno condividono quella che non è “un’anomalia”, ma una scelta politicamente e elettoralmente rilevante.

Per non consegnare i prossimi parlamentari nelle mani di Renzi e di Berlusconi, la battaglia per almeno una preferenza è cosa buona e giusta.

clicca sulla tabella per espanderla

tabella Valbruzzi

Se escludiamo i casi in cui la “rappresentanza personale” deriva dal collegio uninominale (Francia, Regno Unito, in parte Germania e Ungheria) o dal ricorso al Voto Singolo Trasferibile (Irlanda e Malta), i paesi che restano fuori, a far compagnia all’Italia, sono: Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Croazia.