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Questa è Democrazia. Non sono giorni persi
Difficile dire quanto l’opinione pubblica italiana sia preoccupata per la formazione del prossimo governo. Sicuramente molto preoccupati sono alcuni capi di governo europei, a cominciare da Angela Merkel e Emmanuel Macron, e nella Commissione Europea, il Presidente Jean-Claude Juncker e il Commissario all’Economia Pierre Moscovici. Sono un po’ tutti caduti in una trappola. Come molti commentatori anche italiani, considerano “populismo” tutto quello che non piace loro e hanno appiccicato l’etichetta sia al Movimento 5 Stelle sia alla Lega. Innegabilmente “vincitori” delle elezioni, hanno, seppure in maniera differenziata, delle strisce di populismo, ma nel primo la carica anti-establishment e nel secondo il “sovranismo” prevalgono nettamente sul populismo tant’è vero che entrambi stanno facendo la loro parte non contro le istituzioni, ma dentro e attraverso le istituzioni. Finora non è stato tempo perso, come qualche terribile censore della politica italiana vorrebbe fare credere. La ventina di giorni che separa il voto del 4 marzo dall’inaugurazione del nuovo Parlamento il 23 marzo è utilmente servita a svolgere in maniera positiva alcuni compiti importanti: consentire l’analisi del voto, fare circolare sia dentro sia fuori i partiti le valutazioni, sondare le preferenze. lanciare proposte.
Al netto delle inevitabili affermazioni propagandistiche, di alcuni silenzi, come quello, rattristato e deluso, di Berlusconi, e di alcune reazioni stizzite innervosite, come quella di Renzi e dei suoi declinanti sostenitori, questi giorni hanno contribuito a un processo di apprendimento collettivo. Dopo avere detto dall’alto del loro straordinario risultato elettorale, 32,8 per cento, che tutti avrebbero dovuto andare a parlare con loro, le 5 Stelle hanno capito che l’iniziativa la debbono prendere loro chiarendo che cosa davvero vogliono fare e con chi. Hanno persino annunciato che i Presidenti delle Camere debbono essere figure di garanzia che sappiano fare funzionare al meglio il Parlamento e che, pertanto, la loro elezione non prefigura la maggioranza che andrà al governo. Inopinatamente messo all’opposizione, non dai suoi elettori, i quali ovviamente avrebbero voluto tutt’altro, ma dal suo segretario dimissionario, il Partito Democratico sta lentamente scendendo dall’Aventino, da un’inutile e sterile posizione pregiudiziale. Sembra che una parte considerevole dei dirigenti democratici abbiano capito che il loro partito può essere indispensabile alla formazione di una maggioranza di governo. Prima è opportuno ascoltare che cosa proporranno gli altri, a cominciare da Di Maio. Forme e modi di eventuali coalizioni verranno dopo. Sappiamo che grande è la varietà di governi concepibili, lasciando da parte quello il cui scopo sia la sola riscrittura della pessima legge elettorale Rosato, e nel passato già concepiti e attuati. Il leader della Lega, Matteo Salvini, pur inorgoglito dal sorpasso su Berlusconi, anche grazie alla nettezza delle sue posizioni su immigrazione, sicurezza, anti-europeismo, mostra un “volto” nazionale, ma appare leggermente innervosito. Non c’è vittoria senza capacità di attrarre altri parlamentari e gliene mancano almeno una cinquantina, per formare una coalizione maggioritaria.
Quanto al decisore ultimo, vale a dire il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, invece di scrutarne le intenzioni, compito al quale si dedicano con ardore i cosiddetti retroscenisti, è meglio considerarne le esternazioni e ricordarne i poteri. Fin da subito Mattarella ha per ben due volte richiamato tutti i protagonisti al senso di responsabilità cosicché partiti e leader hanno appreso di avere grande responsabilità non soltanto nei confronti dei loro elettori, ma anche del paese. Il Presidente, che è “il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (art. 87 della Costituzione), ha più volte fatto variamente conoscere sia la sua contrarietà a nuove ravvicinate elezioni sia la sua intenzione di varare un governo politico. Eletti i Presidenti delle Camere, da queste due premesse si partirà senza perdere tempo.
Pubblicato AGL il 19 marzo 2018
Eleciones en Italia: Gianfranco Pasquino”Hay un voto de protesta porque al país le va mal”
Entrevista de Elisabetta Piqué
ROMA.– Hay un voto de protesta que se justifica perfectamente. A Italia le está yendo bastante mal y por lo tanto es justo protestar”. Son palabras que, sin pelos en la lengua, lanzó ayer Gianfranco Pasquino, uno de los politólogos más prestigiosos de Italia, que fue alumno de maestros como Norberto Bobbio y Giovanni Sartori.
Profesor emérito de Ciencias Políticas de la Universidad de Bolonia y profesor adjunto de la Johns Hopkins University, Pasquino -que fue senador de partidos progresistas en dos oportunidades- advirtió en una entrevista con LA NACION que es un error pensar que en las elecciones italianas ha ganado el populismo.
-¿Cómo evalúa este resultado? ¿Es el triunfo del populismo también aquí, en Italia?
-No. Este es un error grave que hacen los comentaristas italianos y extranjeros. Me parece que no todo lo que no nos gusta es populismo. El Movimiento Cinco Estrellas (M5E) es un movimiento antiestablishment, antipolítica, en favor de la honestidad. Es un movimiento que apunta al cambio. Después, claro, también hay lo que yo defino una “tira” de populismo, pero definirlo populista es un error. Matteo Salvini también es considerado populista, pero también representa el territorio del centro-norte de Italia.
-¿Entonces cómo define este resultado?
-Es un resultado en contra de la política que ha hecho, en particular, el secretario del Partido Democrático (PD) y expremier Matteo Renzi, y de sus colaboradores, que nunca le explicaron qué pasó en el referéndum de 2016 (para reformar la Constitución). Si no se tiene una visión política no se cambia el país, no bastan las medidas de política económica tomadas, que fueron simples “propinas”.
-¿Las elecciones reflejaron un voto de protesta?
-Hay un voto de protesta, de insatisfacción, muy fuerte, que se justifica perfectamente: a este país no le está yendo bien, le está yendo bastante mal y por lo tanto es justo protestar. ¿En contra de quién? De la clase política, en contra de los que están en el gobierno. Es decir, es un voto justificable y muy comprensible.
-¿Qué tipo de gobierno podemos esperar ahora?
-Podemos esperar diversos tipos de gobierno porque las democracias parlamentarias son muy flexibles. Podemos esperar un gobierno guiado por alguien cercano al M5E que obtiene los votos necesarios en el Parlamento. Podemos esperar incluso un gobierno de centroderecha, quizá guiado por Salvini, si obtiene los números, claro, y si logran encontrar entre 40 o 50 parlamentarios dispuestos a apoyarlos. Podemos esperarnos también un “gobierno del presidente”, con una personalidad indicada por [Sergio] Mattarella que logra tener un consenso amplio en el Parlamento, con votos del M5E, de parte del PD y hasta de Forza Italia, del expremier Silvio Berlusconi. Hay diversas posibilidades.
-¿Para usted qué solución es más probable?
-No puedo ser astrólogo (risas). Le digo lo que pienso que sería posible y útil, que es un gobierno que vea el PD junto al M5E y otros pequeños partidos, como Libres e Iguales (de izquierda), que tenga claras algunas prioridades.
-¿Silvio Berlusconi a este punto está acabado?
-Creo que sí. En este punto debería jubilarse, porque fue derrotado sonoramente por Salvini, este es el punto relevante. Y los parlamentarios de Forza Italia ahora saben que si quieren tener un rol específico lo tienen que apoyar a Salvini.
Due libri sul #M5S: storia, struttura e sociologia politica di un movimento “pigliatutti”
Paolo Ceri e Francesca Veltri,
Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle,
Rosenberg&Sellier
Piergiorgio Corbetta
(a cura di),
M5s. Come cambia il partito di Grillo,
Il Mulino
Il Movimento Cinque Stelle ha, giustamente, attirato un’attenzione enorme da parte dei mass media e degli studiosi, italiani e stranieri. Ho letto molto in materia. Ho trovato cose buone e meno buone; cose originali e cose ripetitive; cose utili e cose inutili alla comprensione del Movimento; cose che mirano alla oggettività e cose che si (s)qualificano per la faziosità (quando sono gli studiosi ad essere faziosi, si mostrano “sottilmente” tali). Credo che il problema più importante non sia quello di classificare il Movimento in categorie a noi note, ma di comprenderne le origini, di collocarlo nel sistema politico e nella società italiana, di valutarne l’impatto e, nella misura del possibile, che potrebbe anche non essere scarsa, prevederne il futuro. In buona parte, questo è il lavoro svolto da Paolo Ceri e Francesca Veltri. Dirò un po’ pomposamente che il Movimento Cinque Stelle è un pezzo consistente dell’autobiografia della Repubblica italiana post- 1945 (preparata da qualche embrione precedente). Trova certamente un prodromo nel Fronte dell’Uomo Qualunque fondato nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, durato meno di un decennio. Si alimenta non soltanto di critica della politica, ma di vera e propria antipolitica, a lungo nascosta e tenuta sotto controllo dai partiti italiani, soprattutto quelli di massa la cui scomparsa ha aperto la diga. È antipolitica non tanto colpire tutti i privilegi dei politici, tutte le loro sregolatezze senza genio nella gestione del potere e, nel nepotismo, tutti i loro scandali e i salvataggi reciproci dei coinvolti nel malgoverno e nel malaffare quanto pensare e agire come se la politica, in particolare, il ricoprire cariche elettive, fosse un’attività che chiunque, in qualsiasi luogo o in qualsiasi momento, possa svolgere. Insomma, sulla scia di un poco conosciuto Karl Marx, i “cittadini” delle Cinque Stelle vorrebbero credere e farci credere che possiamo fare a meno del “governo degli uomini sugli uomini” poiché con il loro ingresso in politica e in Parlamento, nonché nei governi locali, siamo quasi arrivati allo stadio della “amministrazione delle cose”. Poi, resuscitando Lenin, il bilancio dello Stato e degli enti locali non soltanto diventerà leggibile dalle cuoche, ma lo stileranno loro stesse. Sarà, finalmente un bilancio partecipato, “cucinato” attraverso il web da tutti gli aderenti in maniera assolutamente democratica: uno vale uno.
Prima di riflettere su questo punto, eguaglianza “sostanziale”?, approfondirlo e valutarlo, è opportuno sottolineare che, secondo non pochi studiosi e commentatori politici, il Movimento Cinque Stelle si caratterizza per essere soprattutto e anzitutto populista molto più che, semplicemente (e rozzamente) antipolitico. È Piergiorgio Corbetta che dà voce a questa interpretazione populista che contiene non pochi elementi convincenti. Ho due obiezioni e un suggerimento di tipo previsionale. La prima obiezione è che da qualche tempo un po’ dappertutto si eccede nel qualificare come populista tutto quello: stile, messaggio, contenuti, persone, che non ci piace e che vorremmo non esistesse e sparisse. Invece, bisognerebbe abituarsi a dare per scontato che nelle democrazie, in tutte le democrazie c’è sempre quella che chiamo una “striscia di populismo”. Le democrazie senza popolo sono una contraddizione in termini. Le democrazie con associazioni intermedie deboli e esitanti e con istituzioni di rappresentanza e di governo mal funzionanti aprono praterie all’ingresso dei populisti. È facilmente accertabile che dal momento del meritato crollo dei partiti tradizionali nel 1994 e dell’intero sistema partitico ad oggi l’Italia si trova in condizioni di grande vulnerabilità rispetto al populismo. La seconda obiezione all’uso del populismo classico come categoria interpretativa del Movimento Cinque Stelle va ricondotta a due specificità: da un lato, il fatto che di leader ce ne sono due, il fondatore, Beppe Grillo, e colui che chiamerei il gestore, ieri GianRoberto Casaleggio, oggi il figlio Davide; dall’altro, l’importanza della rete, del Web, mai così tanto cruciale nei rapporti fra il leader e i followers (qui, mi rifaccio al linguaggio dei “social”), laddove il populismo classico, ma anche quello più recente, di Berlusconi e di Bossi, mette l’accento sulla persona fisica del leader, sulla sua carne e le sue ossa, sull’uso evidente del corpo. Il suggerimento di tipo previsionale è che, fermo restando che il populismo si manifesta in corso d’opera, fino ad oggi tutti i movimenti populisti hanno mostrato un problema letale comune: non sopravvivono alla scomparsa del leader-fondatore. Da ultimo, questo è il caso, drammatico per le sue conseguenze sulla vita della popolazione del Venezuela, di Hugo Chavez il cui successore, Nicolàs Maduro, dimostra quotidianamente di non avere praticamente nessuna delle qualità che resero Chavez un populista esemplare (sic).
I due libri qui recensiti hanno taglio e intenti diversi. Ceri e Veltri sono interessati, come recita correttamente il sottotitolo, alla storia e alla struttura del Movimento 5 Stelle. I collaboratori del libro curato da Corbetta offrono, invece, complessivamente quella che chiamerei la sociologia politica del Movimento: presenza nelle istituzioni (Rinaldo Vignati); andamento elettorale (Pasquale Colloca e Andrea Marangoni); basi sociali (Andrea Pedrazzani e Luca Pinto); l’elettorato (Luca Comodo e Mattia Forni); i cambiamenti nell’organizzazione (Gianluca Passarelli, Filippo Tronconi e Dario Tuorto); le modalità di comunicazione (Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari). Non potendo sintetizzare nessuno degli articoli, operazione comunque difficilissima per il recensore e diseducativa per il lettore, mi limiterò a pescare nell’ampio e utile materiale messo a nostra disposizione quello che ritengo più rilevante per la comprensione del Movimento, quello che non si trova nei mass media e che, al contrario, gli operatori dei mass media dovrebbero conoscere, ricordare, utilizzare per non farsi sorprendere tutte le volte dagli avvenimenti che riguardano il Movimento.
Primo elemento molto importante: non siamo di fronte ad un’insorgenza subitanea che potrà essere facilmente assorbita. Le Cinque Stelle non sono un movimento flash che, nato ieri, morirà domani. Dieci anni di vita suggeriscono che la spinta propulsiva non si è affatto esaurita. Anzi, si è trasformata in crescita, in espansione, in radicamento. Secondo elemento: stando così le cose, mi sarebbe piaciuta una pluralità di approfondimenti, soprattutto da parte del sociologo Paolo Ceri (che giustamente si riferisce a due grandi classici: Robert Merton e C. Wright Mills), relativi alle possibilità e alle modalità di istituzionalizzazione del Movimento Cinque Stelle. Insieme alla sua co-autrice, Ceri preferisce condurci ad uno sbocco peraltro annunciato indirettamente già a p. 13: “le promesse mancate della democrazia diretta” (che è il titolo delle conclusioni) finiranno per condurre ad un nuovo “dispotismo”? Terzo elemento: curiosamente sia Ceri e Veltri sia Corbetta sembrano credere che il disvelamento del grande inganno “(non) democratico” delle Cinque Stelle espressosi al suo meglio nella frase di Grillo “fidatevi di me” (affermazione populista quant’altre mai) che sceglieva il candidato sindaco perdente per Genova, farà sgonfiare il Movimento, gli toglierà il vento dalle vele. Ho due obiezioni a queste aspettative. La prima la mutuo da Giovanni Sartori che sosteneva e continuerebbe a sostenere (anche se né Grillo né i suoi parlamentari riscuotevano il suo apprezzamento) che quello che conta nella competizione politico-elettorale non è la democrazia interna. Semmai è la democrazia/ticità nella competizione fra partiti.
Il partito è uno strumento che si organizza per conseguire obiettivi. Fintantoché li consegue nessuno metterà in discussione quanto avviene al suo interno né la scelta delle candidature né l’individuazione e accentuazione degli obiettivi programmatici né, tantomeno, la leadership. Il successo si autoalimenta. Le richieste di democrazia faranno la loro insorgenza a fronte di gravi fallimenti, non di piccole battute d’arresto. La seconda obiezione è che il Movimento non è nato su una spinta democraticista, ma, come ho già accennato, su una spinta antipolitica. Quindi, incontrerà delle difficoltà quando, per l’appunto, il vento dell’antipolitica si trasformerà in pochi lievi refoli. L’avvenimento in Italia appare alquanto improbabile (questo è davvero un understatement!). Gli attacchi basati sulla carenza di democrazia interna e sulla manipolazione lasciano il tempo che trovano anche perché i portatori di quegli attacchi non sono, per così dire, impeccabili, al di sopra di ogni sospetto. Affermare, come fa Corbetta, con molti buoni motivi, che il Movimento esprime “una visione in aperta contraddizione con la concezione liberale della democrazia” (p. 270) suscita subito l’interrogativo su chi sarebbero in Italia i portatori di una “concezione liberale della democrazia”, in rigoroso ordine alfabetico: Berlusconi, Bossi, Meloni, Renzi, Salvini, Verdini?
Insomma, è utile e importante sapere che il Movimento è diventato sociologicamente pigliatutti, vale a dire tutti gli elettori che può con una leggera prevalenza di quelli che altrimenti sceglierebbero le sinistre. Ha forti tratti populisti. Dovrà presto vedersela con le sue contraddizioni quanto ai rapporti ambigui intessuti con i mass media. Tuttavia, fintantoché la politica italiana sarà praticata da una maggioranza di carrieristi/e senza scrupoli e senza etica, da sedicenti riformatori che perseguono fini particolaristici e corporativi, da uomini e donne che galleggiano nei loro conflitti di interessi, da incompetenti che non sanno fare funzionare né le assemblee rappresentative né le compagini di governo, all’incirca il 30 per cento di coloro che vanno a votare continueranno a sostenere il Movimento Cinque Stelle. Pour cause.
Recensione pubblicata il 1 marzo 2018 su CasadellaCultura.it
La tecnologia non salverà la democrazia, servono più cultura e più pensiero
La tecnologia non salverà la democrazia, servono più cultura e più pensiero
Se non c’è una discussione informata che precede la decisione, secondo Pasquino, è meglio astenersi. Ma su Internet prevalgono le immagini, è difficile riuscire a comunicare ragionamenti complessi, spesso si preferiscono le battute più o meno sagaci. Con gli strumenti digitali, quindi, possiamo al massimo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Si potrebbe stare un attimo a decidere sulla pena di morte, ma se prima non si è strutturato un discorso sulla decisione, gli esiti che emergono dalla rete possono essere drammatici. La democrazia che ha in mente Pasquino è l’agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, si confrontano anche con chi ne sa di più. Per questo serve più cultura e più pensiero. Ad esempio, le élite sono tali nella misura in cui sono in grado di elaborare idee. Molto spesso non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che ha ormai molte difficoltà ad influenzare la maggioranza, in più coloro che ne fanno parte sono restii ad impegnarsi in politica per paura di farsi etichettare come casta.
“La tecnologia non salverà la democrazia,
servono più cultura e più pensiero”
Intervista a Gianfranco Pasquino di Gabriele Giacomini, 21 giugno 2017
Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Attualmente è James Anderson Senior Adjunct Professor alla SAIS-Europe. È editorialista dell’Agenzia Giornali Locali del gruppo L’Espresso.
Come stanno i partiti italiani?
Purtroppo la crisi dei partiti italiani è una realtà oramai accertata, assodata e anche sostanzialmente irreversibile. Oggi in questo paese è rimasto un unico partito, che non sta molto bene in salute, che si chiama Partito Democratico. Tutti gli altri non si chiamano neanche più partiti, non sono organizzazioni partitiche, ma sono perlopiù dei comitati elettorali o delle reti di utenti del web che si scambiano qualche informazione, qualche polemica, si espellono a vicenda e così via. Nessuno di questi gruppi si chiama partito, sia giustamente perché partiti non sono, sia per evitare il discredito – uso questo termine – di cui godono i partiti definiti tali.
C’è chi parla di partiti personali.
Infatti, la maggior parte delle organizzazioni che ci sono attualmente possono essere definite personalistiche. Quindi abbiamo il movimento di Grillo, Forza Italia di Berlusconi, la Lega di Salvini, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e poi ci sono gli Alfaniani, i Verdiniani. Tutto ruota attorno ai nomi. Dietro i nomi, però, non c’è granché dal punto di vista dell’elaborazione programmatica. Ci sono ambizioni personali che si mettono insieme e che qualche volta ottengono un po’di soddisfazioni e qualche seggio in parlamento.
Che ruolo hanno avuto i media, prima la televisione e poi Internet, nella crisi dei partiti?
La televisione ha un po’ di responsabilità. Internet parecchia perché chi comunica su Internet spesso non ha la capacità di comunicare ragionamenti complessi, altre volte non lo vuole fare deliberatamente e si limita alle battute più o meno spiritose e sagaci. Ma credo sia stata soprattutto la stampa, quotidiana e settimanale, per intenderci testate come La Repubblica e Il Corriere, L’Espresso e Panorama, a diffondere ampiamente discredito nei confronti dei partiti. Se dovessi indicare il maggior responsabile per la crisi dei partiti in questi ultimi dieci, quindici anni, direi che è il libro di Stella e Rizzo, La Casta che ha colpito profondamente l’immaginazione di un milione di lettori e che ha diffuso il discredito, lasciando intendere che gli uomini e le donne dei partiti di questo paese sarebbero tutti o quasi esponenti di una casta.
Prima accennava al fatto che manca elaborazione programmatica.
Questo dipende sostanzialmente dal crollo dei partiti tradizionali che in passato avevano governato il paese, certamente qualche volta anche nella forma peggiore, la partitocrazia. Quando il Partito comunista nell’89 va in difficoltà, giustamente perché non si era rinnovato durante gli anni precedenti, gli elettori sentono che non hanno nemmeno più bisogno di votare Democrazia cristiana, nel senso che non c’è necessità di una diga contro un partito comunista che non pone più nessun tipo di sfida e di minaccia. Nel frattempo, altri partiti avevano avuto dei problemi anche maggiori con Mani Pulite: molti segretari dei partiti politici vengono indagati e a quel punto c’è il crollo. Però il crollo in realtà era già nelle cose, perché era scomparso il fondamento culturale, erano scomparse le culture politiche. Non c’era più una cultura politica socialista, comunista, democratico cattolica. Di marxismo non si parlava più. Di tanto in tanto i comunisti recuperavano Gramsci. Una cultura socialista sopravviveva in parte nella rivista “Mondoperaio”, ma fu rapidamente normalizzata da Craxi. Era scomparsa anche la cultura cattolico democratica, il cui ultimo grande esponente è stato Pietro Scoppola. Senza culture politiche è difficile far vivere o rivivere i partiti politici.
Nella globalizzazione la democrazia ha ancora il potere sufficiente per incidere sulla vita dei cittadini? Forse i cittadini percepiscono che la politica ha un potere limitato.
I tedeschi risponderebbero che sono convinti della capacità della politica di incidere e che la cancelliera Merkel e il ministro Schaeuble fanno delle scelte politiche rilevanti. Ma prendiamo un altro esempio. I grandi operatori economici internazionali, le agenzie di rating, la banca Goldman Sachs attaccano la Danimarca? No. Si potrebbe dire perché il trofeo è troppo piccolo. Ma potrebbe essere che non l’attaccano perché il paese è governato bene, perché i cittadini hanno fiducia nelle loro istituzioni e nel loro stato, perché le banche non hanno fatto pasticci. E quindi in realtà la politica, se fatta bene, è in grado di resistere, di scoraggiare qualsiasi vento della globalizzazione. I paesi governati bene non vengono attaccati dalla globalizzazione finanziaria, non vengono messi in crisi dalla globalizzazione delle comunicazioni. Se fossimo ben governati anche noi non verremmo attaccati. Veniamo attaccati perché siamo deboli, vulnerabili, ma questo è appunto un problema legato alle carenze della politica.
Umberto Eco era molto critico nei confronti di Internet. Sosteneva che Internet da risalto a voci che non meriterebbero questa possibilità. Lei è d’accordo?
Sono molto d’accordo. Aggiungerei che noi naturalmente possiamo difenderci da Internet, nel senso che dovremmo sapere selezionare le persone e le fonti con le quali vogliamo parlare, interagire, delle quali leggiamo i tweet o cose del genere. Però, nel frattempo, sta emergendo un cambiamento culturale che Sartori aveva preveggentemente colto nel suo libro Homo Videns: subiamo una grande esposizione alle immagini e non siamo più in grado di elaborare ragionamenti. Si passa dall’uomo cartesiano “cogito ergo sum” all’uomo insipiens “video ergo sum”. Questo ostacola i ragionamenti, quando invece la politica è un mondo dove le persone si scambiano opinioni che hanno costruito magari attraverso letture e lo studio, è un mondo dove c’è un confronto razionale che però richiede appunto un pensiero. Se invece ci limitiamo a scambiare delle immagini allora entriamo in una situazione che rende difficile la vita della e nella democrazia.
I nuovi media favoriscono risposte populiste?
I nuovi media vengono usati dai populisti nella misura in cui è facile fare affermazioni brevi, fare un tweet, farne tanti. Questo naturalmente favorisce il discorso populista che per definizione non è un discorso particolarmente articolato. Basta dirsi contro, insultare, ripetere le stesse parole, schierarsi con il popolo, spesso la parte peggiore (che c’è, eccome se c’è) del popolo.
Come è possibile creare le condizioni per un confronto politico di qualità migliore?
La risposta standard è insegnare e diffondere cultura. Però, i ragazzini guardano le immagini prima ancora di iniziare ad andare a scuola. E a scuola addirittura si pensa che usando Internet si riesca a offrire un insegnamento migliore. Le élite sono tali nella misura in cui hanno fatto un percorso culturale, si dimostrano in grado di elaborare idee. Molto spesso le élite non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Ovviamente ci sono anche élite di tipo economico, ma, ad esempio, Trump non è certamente una élite culturale. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che non riesce più ad influenzare la maggioranza, perché quella maggioranza è raramente in grado di capire che cosa dice l’élite. Anche se le élite sminuzzano il loro pensiero, lo semplificano, quella maggioranza che è andata male a scuola, che ha seguito corsi fatti male, che non legge praticamente mai un libro, non riesce a seguire.
Qual è il ruolo delle élite in democrazia?
R. Come noto Aristotele non aveva grande fiducia nella democrazia, però sperava che mettendo insieme diverse modalità di governo si formasse quella che lui chiamava politeia, cioè il buon governo. Sartori sosteneva che il compito della democrazia è di selezionare una pluralità di élites, e che chi ci rappresenta deve essere migliore di noi. Altrimenti perché lo votiamo? Deve essere migliore di noi, naturalmente. Quando sento Grillo che dice che uno vale uno penso che non abbia capito niente e che stia distruggendo la democrazia rappresentativa. Uno non vale uno. Un parlamentare deve valere di più di un cittadino. Se qualcuno entra in parlamento pensando che gli possono essere sufficienti le conoscenze e le competenze da cittadino ha sbagliato il luogo da frequentare. Non vedo bene il futuro della democrazia perché le élite non vengono selezionate adeguatamente, e in più coloro che fanno parte delle élite politiche non vogliono esporsi al ludibrio di sentirsi chiamare casta. Mentre magari stanno facendo un lavoro davvero importante, anche per i loro cittadini, e parecchi di loro ci rimettono in termini di denaro, di tempo libero, di energie, di attività che stavano compiendo prima. Se non ci rendiamo conto che fare politica non è un gratuito servizio, ma è un compito importante, non riusciremo ad avere il contributo delle élite e tante altre cose.
Che cosa ne pensa dell’utilizzo del digitale per prendere decisioni politiche?
La democrazia che ho in mente io si chiama agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, parlano anche con qualcuno che ne sa di più. È chiaro che Socrate non lo troveremo più tanto facilmente nel mondo, Ci sono però persone che hanno intelligenze, conoscenze e disponibilità a dialogare. La rete e gli strumenti digitali possono servire qualche volta per prendere delle decisioni, su punti molto semplici, ma se prima non si è stati in grado di strutturare il discorso sulla decisione, gli esiti che vengono fuori dalla rete possono essere drammatici. Faccio un esempio: la reintroduzione della pena di morte. È facile dire sì o no. Ma è opportuno fare prima un dibattito su che cosa significhi tutto questo. Un dibattito di questa complessità non può essere fatto nella rete, certamente non solo. Al massimo. sulla rete possiamo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Ma anche in questo caso probabilmente le persone che abitano in quella strada e che hanno l’automobile potrebbero spiegare perché quella strada non deve essere chiusa. Se non c’è una discussione informata che precede la decisione è meglio astenersi.
Quali nuove forme di impegno e partecipazione politica vede all’orizzonte?
Naturalmente ci sono dei movimenti che si attivano. Ad esempio, qualcuno potrebbe dire che i No Tav sono una nuova forma di partecipazione. L’azione di questi movimenti deve però essere valutata nella sua complessità, ad esempio, chiedendosi se è giusto che siano solo gli abitanti della Valle di Susa a decidere sulla Tav, anche per coloro che trarrebbero enormi benefici dalla rete ad ‘alta velocità. Altri potrebbero sostenere che le varie associazioni No Profit sono luoghi importanti di partecipazione, purché, aggiungo io, siano davvero indipendenti. In generale, senza una struttura fondamentalmente partitica, organizzata, che duri nel tempo, questi movimenti e queste organizzazioni sono transeunti, nascono e muoiono. Quelli che reggono sono, ad esempio, quelli vicini alla Chiesa, perché la Chiesa è una struttura molto potente, radicata e che dura nel corso del tempo, una struttura dalla quale una serie di organizzazioni traggono alimento, sostegno, appoggio e qualche volta anche denaro. Tutti gli altri movimenti non organizzati sono molto fragili e traballanti. Possono svolgere un compito importante in democrazia, ma non possono essere loro il fondamento della democrazia.
Pubblicato il 30 gennaio 2018 su fondazionebassetti.org
Quelle incerte traiettorie
Nessun paletto e nessuna abiura è la linea morbidamente dettata dal segretario Renzi alla Direzione del Partito Democratico. I toni meno cattivi e meno trionfali non intaccano minimamente la sostanza del discorso politico. Renzi non vuole cambiare le politiche da lui imposte quando era Presidente del Consiglio che, però, sono proprio una delle ragioni per le quali Sinistra Italiana si era rapidamente allontanata dal governo e il Movimento Democratico e Progressista ha fatto la scissione. Se non abiure, almeno l’indicazione chiara di quali correzioni di rotta il segretario avrebbe potuto darla. È rimasto nel vago mirando soprattutto a non antagonizzare le minoranze interne al suo partito. All’esterno, Renzi ha delineato una strategia che in altri tempi sarebbe stata chiamata pigliatutti: la formazione di una coalizione (un tempo parola e fenomeno da lui sdegnosamente respinti: è questa, oggi, un’abiura?) che va da MDP e da quel che c’è di Campo Progressista a quel che rimane, pochino pochino, di Scelta Civica più la non troppo in buona salute Alternativa Popolare di Angelino Alfano. Sulla porta restano i radicali e un embrionale raggruppamento pro-europeista. Insomma, anche a causa di una brutta legge elettorale che impone le coalizioni, Renzi disegna qualcosa che sembra soprattutto un cartello elettorale in grado di opporsi, di fare argine a quelli che lui definisce populismi. Ma non tutto quello che non ci piace può essere definito e esorcizzato come “populismo”.
Nel centro-destra fieramente populista, ma anche sovranista, è il leader della Lega Matteo Salvini e, forse, ma, in verità, poco, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, decisamente più sovranista che populista. Incredibilmente grande è la sottovalutazione del potenziale populismo che Berlusconi scatenerà, altro che “moderati”, al momento opportuno. Alla sinistra del PD, almeno per due terzi, dicono i sondaggi, sta il populismo “felicemente decrescente” a mio modo di vedere, del Movimento Cinque Stelle nel cui consenso politico-elettorale che non accenna a diminuire gioca moltissimo la protesta per le molte cose che non vanno in Italia. Lo schieramento suggerito da Renzi si avvicina moltissimo alla tanto deprecata Unione di Prodi che vinse molto risicatamente le elezioni del 2006, poi non riuscendo a tenere insieme le troppo variegate posizioni e preferenze cadde rovinosamente neppure due anni dopo. Apertamente, sia Prodi, l’Ulivista, sia Veltroni, il primo segretario del Partito Democratico, hanno manifestato forti perplessità sul futuro del partito guidato da Renzi, il primo chiamandosi fuori, il secondo lanciando un appello più sentimentale che nutrito da elementi politici. Naturalmente, il tentativo di trovare punti di convergenza e di accordo in quel che si trova a sinistra –dire che “si muove” mi parrebbe troppo lusinghiero– non finisce qui.
Inevitabilmente, ci sono personalismi che sembrano incompatibili e insuperabili. Ci sono prospettive di carriera, che, senza negare l’esistenza di convinzioni politiche, riguardano anche i presidenti delle due Camere, oltre che i molti parlamentari alla ricerca di quella ricandidatura che Renzi più di altri può garantire. Ci sono, infine, nodi programmatici irrisolti e priorità non dichiarate. Aspettare l’emergenza assoluta e trovare un accordo tecnico esclusivamente per non finire del baratro della sconfitta annunciata non è affatto una buona idea. A meno che, con una buona dose di cinismo, qualcuno nel PD pensi che, tutto sommato, il Partito non andrà così male e dovrà comunque essere preso in considerazione per formare il prossimo governo, da Berlusconi o chi per lui. La traiettoria da altezzoso partito a vocazione maggioritaria ad alleato subalterno dovrebbe turbare i sonni dei Democratici (e dei loro elettori). O no?
Pubblicato AGL il 14 novembre 2017
Il braccio di ferro della Merkel
Premesso che le Grandi Coalizioni non sono il male assoluto, ma una modalità di formazione dei governi nelle democrazie parlamentari, CDU e SPD hanno perso voti non perché protagonisti della Grande Coalizione 2013-2017, ma per le politiche che hanno attuato/sostenuto, in materia d’immigrazione e di politica economica e sociale nell’Unione Europea. Immediatamente ripudiata dal molto sconfitto Martin Schulz, candidato della SPD, la Grande Coalizione è tuttora numericamente possibile. Potrà persino diventare politicamente praticabile. Su un punto, però, Schulz ha ragione da vendere: non si può lasciare il ruolo di opposizione parlamentare (e sociale) ad Alternative für Deutschland. Sbagliano la maggioranza dei commentatori quando molto sbrigativamente etichettano l’AfD come movimento/partito populista. No, primo, non tutto quello che non piace ai democratici sinceri e progressisti è populismo, brutto, cattivo e irrecuperabile. Secondo, la piattaforma programmatica di AfD comprende almeno tre tematiche: i) la difesa dei tedeschi, quelli che parlano il tedesco, hanno precisato alcuni dirigenti del partito, contro l’immigrazione eccessiva e incontrollata accettata/incoraggiata dalla cancelliera Merkel; ii) una posizione più dura in Europa contro gli Stati-membri che sgarrano, ma anche minore disponibilità ad andare a soluzioni quasi federaliste; iii) qualche, talvolta eccessiva, pulsione che non accetta tutta la responsabilità del passato nazista e che, talvolta, ne tenta un (odioso, l’aggettivo è tutto mio) recupero.
Facendo leva solo sulle “pulsioni”, nel passato, partiti di stampo neo-nazista erano riusciti ad arrivare nei pressi della soglia del 5 per cento, rimanendo esclusi dal Bundestag. Insomma, almeno l’8 per cento degli elettori dell’Afd, che ha ottenuto quasi il 13 per cento dei voti, è contro l’Unione Europea com’è e i migranti. Questa posizione è condivisa dai quattro di Visegrad, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Poiché due terzi dei voti di AfD provengono dai Länder della Germania orientale è lecito dedurne che non è stato fatto abbastanza per superare democraticamente culture nazionaliste e xenofobe che i regimi comunisti avevano superficialmente mascherato. Non si cancelleranno quegli infausti retaggi colpevolizzando gli elettori di AfD quanto, piuttosto, premendo sulle contraddizioni interne al movimento/partito. Con ogni probabilità, Angela Merkel farà una coalizione con i Verdi, affidabilmente europeisti, e con i Liberali, blandamente europeisti, direi europeisti à la carte, inclini a sfruttare tutti i vantaggi di cui la Germania già gode pagando il prezzo più contenuto possibile. Qui, rientra in campo, la Cancelliera con il suo potere istituzionale, con il suo appena intaccato prestigio politico, con la sua ambizione personale mai sbandierata a entrare nella storia.
Il lascito del suo mentore, Helmut Kohl, cancelliere per 16 lunghissimi e importantissimi anni 1982-1998, è consistito sia nel successo della quasi fulminea riunificazione sia nella sua infaticabile azione europeista della quale il Trattato di Maastricht e l’Euro sono i due più luminosi risultati. Vorrà la Cancelliera uscire a testa alta dal suo lungo periodo di governo avendo operato per spingere l’Unione Europea ancora più avanti in termini economici e sociali, se non anche politici? L’asse franco-tedesco non può in nessun modo essere messo in discussione. Allora, l’interrogativo è se, consumata la Brexit, Italia e Spagna sapranno cogliere l’opportunità di inserirsi costruttivamente nei rapporti fra la Germania della Merkel e la Francia di Macron. La consapevolezza che nessuno dei grandi problemi, economici e sociali, può essere risolto dagli Stati nazionali e dai “sovranisti” più o meno populisti potrà costituire l’elemento comune per inaugurare le politiche europee necessarie. È un compito per il quale la Merkel, politicamente indebolita, ma oramai liberata dall’esigenza di prossime campagna elettorali, è in grado di attrezzarsi e di svolgere.
Pubblicato AGL il 26 settembre 2017
Decurtare i vitalizi ma senza populismi
La premessa è doverosa. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sono stato Senatore della Sinistra Indipendente e dei Progressisti. Dunque, sono il fortunato (e mio figlio aggiunge: privilegiato) percettore di un vitalizio. Denuncio il mio personale conflitto d’interessi poiché, se il testo approvato dalla Camera passasse senza variazioni al Senato, il mio vitalizio sarebbe significativamente decurtato, quasi dimezzato. Non solo perché me lo dice mio figlio, ritengo che i vitalizi siano non diritti, ma privilegi acquisiti che, di conseguenza, possono anche, applicando criteri equi, essere in una certa misura ridimensionati. Naturalmente, se il criterio di fondo è che i parlamentari debbono essere trattati come tutti i cittadini perché cittadini sono e bisogna ricordarglielo, allora emergono subito due enormi problemi. Primo problema, potrebbero, di conseguenza, essere ricalcolate, compito immenso, tutte le pensioni basate sulle retribuzioni e non sui contributi effettivamente versati da qualche milione di nostri concittadini? Il rischio esiste. Forse si richiederebbe qualche precisazione nel testo di legge, anche per evitare che il quasi inevitabile intervento della Corte Costituzionale, poiché è facile prevedere che vi saranno ricorsi, finisca per cassare tutto. Naturalmente, questa eventualità è di scarso interesse per i parlamentari delle Cinque Stelle il cui scopo prominente è di avere una tematica popolare (populista?) con la quale condurre la prossima campagna elettorale. “Abbiamo imposto la decurtazione dei vitalizi” può funzionare altrettanto bene che “la casta ha bocciato la nostra legge moralizzatrice”. Quanto al Partito Democratico, fra i cui parlamentari esistono posizioni più articolate e più sfumate, parerà comunque il colpo sottolineando che il primo firmatario della legge è un suo deputato.
Il secondo problema mi appare molto più grave e denso di pericoli attuali e futuri. Fare il parlamentare non è un mestiere come qualsiasi altro. Richiede preparazione e competenze che non si acquisiscono necessariamente e soltanto nelle università, ma che vengono anche dall’esperienza. Questa è una motivazione della mia contrarietà al limite dei mandati elettivi. Quando fa la sua comparsa un parlamentare bravo, in qualsiasi modo si definisca la sua bravura: competenza, capacità di lavoro, volontà di ascoltare e rappresentare preferenze, interessi, ideali dei suoi elettori, non vedo perché troncargli/le la carriera in maniera burocratico-ragionieristica. Siano gli elettori a decidere se rieleggerlo/a o mandarlo/a a casa. Qui sta la ragione per la quale sono assolutamente favorevole a una legge elettorale fondata sui collegi uninominali nei quali gli elettori vedono i candidati che, a loro volta, cercano di capire le esigenze degli elettori. Accompagnare la decurtazione dei vitalizi con affermazioni che degradano il ruolo e il compito dei parlamentari è assolutamente diseducativo. Blandisce l’antiparlamentarismo di troppi italiani che ha una lunga e nient’affatto venerabile storia. Alimenta atteggiamenti di critica, talvolta pur meritati da alcuni parlamentari, a scapito dell’istituzione parlamento nel suo complesso, della stessa democrazia rappresentativa.
Sottolineo che, invece di parlare di alternative immaginarie alla democrazia rappresentativa, ogni volta smentite dalle pasticciate consultazioni grilline sulle quali si abbatte la frase di Grillo: “fidatevi di me”, poi rivelatasi perdente, l’obiettivo dovrebbe essere quello di fare funzionare meglio, eventualmente, perfezionandola, la democrazia rappresentativa. La certezza di un’indennità che consenta a chi ha solo quell’emolumento di fare il parlamentare a tempio pieno (quindi, maggiormente criticabile quando assente dai lavori) e quella di un vitalizio al termine degli anni di lavoro è essenziale per trovare un’ampia e qualificata, questo è un punto dirimente, platea di aspiranti fra i quali poi saranno gli elettori a scegliere soprattutto se esisteranno i collegi uninominali. Male e incertamente ricompensati, sotto l’eventuale mannaia del limite di mandati (che inevitabilmente spingerà molti di loro nel secondo mandato a dedicare parecchio tempo alla ricerca di alternative occupazionali), additati come profittatori agli occhi di un’opinione pubblica male informata e mal disposta, molti italiani che avrebbero le capacità e la voglia di fare politica potrebbero ritrarsi. Avremo risparmiato sui vitalizi e sull’indennità. Sprecheremo molte energie indispensabili a rinnovare l’asfittica politica italiana e la sua democrazia poco e malamente rappresentativa.
Pubblicato il 28 luglio 2017
Il populismo nei giochi di coalizione
Nelle elezioni amministrative succedono molte cose che non necessariamente si ripeteranno nelle elezioni politiche. Però, qualche lezione se ne può trarne in maniera piuttosto chiara. Le propongo in un ordine d’importanza diverso da quello delle prime analisi, spesso influenzate da pregiudizi e tese a definire la situazione in modo favorevole a una specifica parte politica. Prima lezione, sia il sistema elettorale per l’elezione dei sindaci sia, più in generale, la politica delle democrazie, anche locali, spingono verso la formazione di coalizioni. Smentendo affermazioni propagandistiche campate in aria, questo voto amministrativo dice che le coalizioni sono il modo preferibile di fare politica. Un buon leader, ma Berlusconi dovrebbe ricordarsi del suo esordio vincente nel 1994, quando costruì due coalizioni, smussa le differenze, raggiunge accordi, unifica posizioni. Chi sa costruire coalizioni in modo adeguato a sostegno di una candidatura decente viene giustamente premiato dall’elettorato (in Italia e altrove). Dunque, non è corretto sostenere che è “tornato” il centro-destra. Esiste un elettorato di centro-destra al quale, in molti contesti, Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno fatto una buona offerta di rappresentanza e di governo delle città, risultandone premiati. Se troveranno un accordo simile a livello nazionale, più difficile a causa delle posizioni sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia e del conflitto sulla leadership, il centro-destra sarà competitivo con qualsiasi sistema elettorale. Anche il Partito Democratico, nonostante l’idiosincrasia altalenante del suo segretario, ha variamente costruito coalizioni persino con gli scissionisti pure, spesso, definiti “traditori” dai collaboratori più stretti di Renzi. Dopo il voto e in vista del ballottaggio, quegli stessi collaboratori aggiungono buffamente che il PD si alleerà con i movimenti civici di sinistra, ma anche con quelli di centro. Insomma, alcuni piddini stanno ancora sulla prospettiva del Partito della Nazione. Anche nel loro caso, però, dovrebbe valere la lezione che le coalizioni bisogna cercarle e saperle fare non solo per motivi elettorali.
Il primo turno delle elezioni amministrative ha uno sconfitto sicuro: Beppe Grillo, forse due: Luigi Di Maio. Non è soltanto che gli elettori di Genova, come tutti sanno la città di Grillo, gli hanno risposto che no, non si fidano di lui e del cambio in corsa della candidata che aveva vinto le primarie (una violazione della democrazia sotto tutte le latitudini), ma anche che coloro che Grillo aveva spinto fuori dal Movimento, come il sindaco di Parma (ben piazzato per il ballottaggio) e il sindaco di Comacchio (che ha già rivinto la carica), hanno dimostrato di non avere bisogno di lui (né di Di Maio). Per chi guida un Movimento verticistico questa è più che una sconfitta elettorale. È una sconfessione abbastanza plateale. Tuttavia, le liste del Movimento nel loro insieme non vanno malissimo. Anzi, le elezioni amministrative sono state una buona occasione per continuare il radicamento sul territorio. Il resto l’hanno fatto, in maniera evidentemente non convincente, le candidature.
Gli elettori erano perfettamente consapevoli che stavano votando il potenziale sindaco e che centro-destra e centro-sinistra offrivano alternative talvolta sperimentate e credibili. Qui si apre il problema del reclutamento delle Cinque Stelle per risolvere il quale non potrà bastare un pugno di votanti come quelli che si sono espressi nelle apposite consultazioni. Tuttavia, fanno male i commentatori che scrivono che ha perso il populismo. Tanto per cominciare quello di Salvini, accompagnato dalla presenza sul territorio, è vivo e vegeto e, in secondo luogo, il consenso per le Cinque Stelle a livello nazionale proviene più che da toni e stile populisti, dalla critica dei politici e del loro modo di fare politica. È uno zoccolo che i non buoni risultati nelle elezioni amministrative sfiorano, ma non scalfiscono. Il resto ce lo diranno fra due settimane, con la forza del loro voto, che sanno usare in maniera efficace, gli elettori dei ballottaggi.
Pubblicato AGL 13 giugno 2017





