Home » Posts tagged 'Powell'

Tag Archives: Powell

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Relazione pronunciata al convegno
“La forma di governo tra riformismo elettorale e mutamento politicoistituzionale”
Giornata di studi sulle Riforme istituzionali
Torino, 17 novembre 2017
Campus Luigi Einaudi
Pubblicato in federalismi.it
RIVISTA DI DIRITTO PUBBLICO, COMPARATO, EUROPEO
ISSN 1826-3534  – Numero Speciale 1/2018

 

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Questa relazione è, prima di tutto, ma non soprattutto, un esercizio di resistenza alle tentazioni. Per quanto tentato dal replicare alle moltissime ignoranze e alle gravissime scorrettezze manifestate(si) nel dibattito sulle leggi elettorali, le loro riforme e controriforme, mi limiterò, a fatica, ad alcune considerazioni. Procederò a evidenziare gli errori più grossolani alla luce della ingente letteratura politologica in materia, la quale dovrebbe, da un lato, già essere patrimonio dei politologi e, dall’altro, apparire lettura essenziale per riformatori, in special modo, per i giuristi che si avventurino su un terreno ampio, dissodato, politicamente di straordinaria importanza. Purtroppo, non è affatto così. Mi troverò spesso di fronte ad un dilemma classico: criticare gli autori degli errori più grossolani, citandoli per nome e cognome (il pessimo articolo di Passarelli merita davvero la citazione) (1) oppure stendere un fin troppo pietoso velo sul loro sonno più che trentennale (2) di letture mancate e mai recuperate? Procederò molto pragmaticamente. Adesso, back to basics, come direbbe Giuliano Amato.

La più semplice definizione di una legge/sistema elettorale è che costituisce un meccanismo per la traduzione di voti in seggi (3) . Naturalmente, nel corso del tempo abbiamo imparato che è indispensabile guardare a tutto quello che sta a monte del momento elettorale e a tutto quello che sta a valle del voto. Con qualche ritardo, tuttavia molto utilmente, alcuni politologi USA (4) sono anche giunti a teorizzare e in parte a esplorare, cosa che nel loro paese diventa di importanza decisiva a causa delle drammatiche manipolazioni del voto attraverso il gerrymandering (5) – furiosamente praticato dalle assemblee statali dominate dai Repubblicani -, la necessità di analizzare il contesto (6) . Sono pochi, in Italia, ad avere proceduto a questo tipo di analisi prima di proporre, formulare, giudicare e fare approvare le nuove leggi elettorali.

Quando, nel 1953, un relativamente riluttante De Gasperi mosse alla riforma della legge elettorale proporzionale prevedendo un premio di maggioranza (7) la proposta era quella di rendere più solida la coalizione parlamentare (e politica) centrista a fronte della sfida di una riemergente destra neo-fascista e l’auspicio era quello di costringere i comunisti ad abbandonare la loro rendita di opposizione per diventare alleato dei socialisti, essenziale, ma non in posizione dominante.

Dunque, senza sminuire l’elemento partigiano, ovvero il rafforzamento della coalizione già al governo, importanza superiore aveva l’obiettivo sistemico: andare verso una competizione bipolare anche se per qualche prevedibile periodo di tempo sbilanciata a favore dei centristi. Nelle menti e negli intenti dei promotori dei referendum elettorali (1991, 1993) la motivazione sistemica era nettamente prevalente. Per molti di loro (mi colloco fra questi) era sostanzialmente cruciale: costruire le condizioni elettorali di una democrazia, qui sono costretto allo slogan, peraltro vicinissimo alla realtà, maggioritaria, bipolare, dell’alternanza e, aggiungo, che attribuisse all’elettorato il potere decisivo di produrre l’alternanza, non di eleggere il governo (obiettivo impossibile e improponibile nelle democrazie parlamentari), ma di scegliere fra coalizioni che a quel governo si sarebbero candidate. Qui tralascio tutti gli errori storici, politici e di comparazione di coloro che ritengono che l’alternanza, ovvero la sostituzione totale di un partito o di una coalizione al governo ad opera di un partito o di una coalizione all’opposizione caratterizzi la maggioranza delle elezioni nelle democrazie non solo europee (8) , ma occidentali (9) . Non è affatto così. Né, d’altronde, è corretto sostenere che sempre e dovunque il verificarsi dell’alternanza costituisca il fenomeno caratterizzante le democrazie di migliore qualità. Anzi, gli elettori del Regno Unito nonché ovviamente gli studiosi e i commentatori si sono lamentati della “troppa” alternanza negli anni Sessanta e, in seguito, hanno assistito (e cooperato) a lunghi periodi di governi conservatori (dal 1979 al 1997, diciotto anni e quattro elezioni generali), e di governi laburisti (dal 1997 al 2010, tredici anni e tre elezioni generali). Tecnicamente, la molto ben governata Germania, in quasi settant’anni di vita della sua Repubblica, ha avuto una sola alternanza completa nel 1998: dal governo Democristiani-Liberali guidati da Helmut Kohl al governo Sociadelmocratici-Verdi guidato da Gerhard Schröder.

Adesso, possiamo dirlo con maggiore conoscenza di causa, i referendari cercavano una riforma elettorale palingenetica che conferisse agli elettori tanto il potere di scegliere il loro candidato al Parlamento (quindi, di ottenere una rappresentanza migliore) quanto quello di incidere sulla formazione del governo. Nel 1993 la traduzione parlamentare dell’esito del quesito referendario fu fedele e ottima per il Senato: tre quarti di eletti in collegi uninominali, un quarto recuperati con riparto proporzionale fra i migliori, perdenti, sì, ma senza dimenticare né sottovalutare che quei perdenti avevano fatto campagna elettorale, parlato con gli elettori, ascoltato le loro richieste e, soprattutto, ottenuto voti, spesso molti. È la traduzione del quesito referendario alla Camera che lasciò molto a desiderare e fornì molto materiale da criticare. La legge, il cui relatore fu l’allora deputato Popolare Sergio Mattarella, si prestò alla critica e allo sberleffo di Giovanni Sartori che la definì Mattarellum.

Fermarsi qui, al latinorum, considerandolo uno dei contributi intellettuali grazie al quale Sartori merita di essere ricordato e celebrato (com’è improvvidamente stato fatto al Convegno Annuale della Società Italiana di Scienza Politica tenutosi a Urbino dal 14 al 16 settembre 2017) è semplicemente scandaloso. Significa non sapere niente dei sistemi elettorali e quindi non essere in grado di capire le motivazioni dello sberleffo al Mattarellum. La legge elettorale per la Camera era, in effetti, alquanto mattocchia. Congegnata, grazie al recupero proporzionale su scheda a parte (con possibilità di voto disgiunto, risorsa nelle mani degli elettori, ma anche strumento nelle mani dei partiti) ed alla facoltà di candidarsi in un collegio uninominale e in tre schede proporzionali, con l’obiettivo non proprio nascosto di salvare quei capipartito che non avessero conquistato il seggio nei collegi uninominali, la legge dava ai capi dei partiti piccoli notevole potere di ricatto. Il messaggio era ovvio: “se non candidate alcuni dei nostri in collegi uninominali sicuri, i vostri candidati non avranno i nostri voti”. Diversa, invece, fu la tattica della desistenza stipulata nel 1996 fra l’Ulivo di Romano Prodi e Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti. In una ventina o poco più di collegi, Rifondazione si impegnò a non presentare candidature invitando i suoi elettori a votare per i candidati dell’Ulivo. A sua volta, l’Ulivo reciprocava in altrettanti collegi. La desistenza, unitamente alla mancata alleanza fra Lega e Berlusconi, consentì all’Ulivo di vincere fortunosamente le elezioni, ma, in seguito, permise a Bertinotti di porre fine all’esperienza del governo dell’Ulivo nell’ottobre 1998, cambiando in peggio la storia d’Italia. A questo “peggio”, in misura piccola, ma concreta, aveva dato il suo contributo la frammentazione dei partiti, chiedo scusa, dei partitini, agevolata e mantenuta proprio dai meccanismi della legge Mattarella.

Che si potesse fare peggio, anzi, molto peggio, lo dimostrarono nel 2005 i quattro “saggi di Lorenzago”: Roberto Calderoli (Lega), Francesco D’Onofrio (UDC), Domenica Nania (Alleanza Nazionale), Andrea Pastore (Forza Italia). Quella che Calderoli avrebbe poco tempo dopo definito una “porcata”, vale a dire il tentativo di scrivere una legge deliberatamente totalmente “partigiana” che, prima di tutto, andasse a svantaggio del centro-sinistra, poi avvantaggiasse il centro-destra e i capi dei partiti e che, per l’appunto, Sartori bollò spregiativamente con l’epiteto Porcellum, era una legge proporzionale. Aveva lunghe liste bloccate senza voto di preferenza. Consentiva candidature multiple addirittura in tutte le circoscrizioni, opportunità pienamente sfruttata da Berlusconi convinto, in parte probabilmente a ragione, che il suo essere capolista portava voti alla lista, e utilizzata in larga misura anche dagli altri capi dei partiti di centrodestra e di centro-sinistra (la cui opposizione alla legge in Parlamento non può essere considerata né durissima né memorabile). Conteneva un premio di maggioranza che mirava ad attribuire al partito/la coalizione vittoriosi alla Camera almeno 340 seggi, mentre al Senato i premi erano regione per regione, un problema per il centro-sinistra, debole nelle regioni grandi, più popolose, portatrici di un premio in seggi più consistente come la Lombardia, la Sicilia, il Veneto, talvolta anche la Campania.

Che la Corte costituzionale abbia lasciato passare tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) prima di dichiarare incostituzionali diversi punti della legge Calderoli attesta due punti. Il primo è sicuro, poi confermato dalla sentenza successiva sull’Italicum: la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale è, come mi ha detto un giudice costituzionale, “incerta” (sic!). Il secondo punto è che ai giuristi mancano le indispensabili competenze politologiche per valutare le conseguenze politiche delle leggi elettorali (10). Ancora oggi mi vanto di essere stato scelto più di trent’anni fa da due autorevoli Professori di Diritto Costituzionale (poi entrambi, Giuliano Amato e Augusto Barbera diventati giudici costituzionali, attualmente in carica) per scrivere il capitolo I sistemi elettorali nel loro Manuale di Diritto Pubblico (11) , aggiornato e ripubblicato per più di un decennio. Quanto all’Italicum, in pratica fu un Porcellinum. Qui ci metto del mio, sottolineando come fossero presenti tutte le componenti deprecabili del Porcellum in misura appena attenuata: le liste non erano più, dopo una lunga battaglia parlamentare, bloccate, ma i capilista sì con l’aggiunta successiva, a furor di popolo, del contentino di due preferenze purché per candidature di genere diverso. Le candidature multiple erano ancora possibili, ma “soltanto” in dieci circoscrizioni, non in tutte. Il premio di maggioranza rimaneva tale numericamente (non previsto per il Senato che Renzi e Boschi avevano reso non più elettivo salvo vederselo resuscitare sonoramente dal referendum costituzionale del 4 dicembre che bocciò tutte le loro malfatte riforme), ma poteva essere conseguito soltanto dal partito (divieto di formazione di coalizioni pre-elettorali) che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno (curiosamente proprio la percentuale raggiunta dal Partito Democratico nelle elezioni europee del maggio 2014) oppure dal partito (non le coalizioni poiché erano impediti gli apparentamenti, come pure è possibile nella legge per l’elezione dei sindaci) che vincesse il ballottaggio (12) fra i due più votati al primo turno.

Il ballottaggio è stato bocciato dalla Corte Costituzionale in mancanza della statuizione di una percentuale minima di voti per accedervi con il rischio di una gravissima distorsione della rappresentanza parlamentare. Infatti, nel frammentato sistema partitico italiano, non si può escludere che il partito vittorioso al ballottaggio avesse ottenuto fra il 20 e il 25 per cento dei voti e risultasse premiato con più del raddoppio dei suoi seggi pervenendo fino al 54 per cento. Qui è opportuno evidenziare che sia il Porcellum sia l’Italicum erano leggi elettorali proporzionali con premio di maggioranza. Quindi tutte le lamentele giornalistiche e politiche sul “ritorno alla proporzionale”, che, per Paolo Mieli e per alcuni politologi commentatori, costituirebbe il prodromo alla tragedia di Weimar in salsa italiana, mai contrastate dagli studiosi di scienza politica, erano assolutamente fuori luogo (senza contare che Weimar non crollò primariamente a causa della legge elettorale proporzionale). Vittoriosa con uno scarto minimo nel febbraio 2013, la coalizione Italia Bene Comune fra il Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e i Socialisti Italiani con meno del 26 per cento dei voti, ottenne il 54 per cento dei seggi. Il premio fu, dunque, 28 per cento di seggi; il rimanente 72 per cento fu assegnato con ripartizione proporzionale. La legge che, nella più volta ripetuta frase di Renzi e Boschi, tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato, frase avallata dai costituzionalisti di riferimento del governo e del PD e nella sostanza in un numero imprecisato di articoli sul “Sole 24 Ore” dal politologo Roberto D’Alimonte della LUISS di Roma, non ha avuto modo di essere applicata. Dal punto di vista politico, meglio così. Il sistema politico italiano si è risparmiato non pochi inconvenienti di funzionamento del sistema e non pochi rischi di torsione autoritaria del partito vittorioso e del suo leader. Dal punto di vista politologico, invece, esprimo un rammarico. Infatti, il suo utilizzo, almeno una volta, avrebbe confermato in modo palese l’esistenza di gravi inadeguatezze sia per la rappresentanza politica sia per la governabilità (anche su questo, di più infra).

La cronaca dei tentativi furbeschi di elaborare e di fare approvare una legge che consentisse sia all’indolenzito (dalla batosta referendaria) Renzi sia al ringalluzzito Berlusconi di scegliere i loro parlamentari e, al tempo stesso, di svantaggiare il Movimento Cinque Stelle e di posizionarsi in maniera tale da pervenire, eventualmente, ad una coalizione governativa quasi centrista, non apporta elementi conoscitivi di nessun interesse tranne quello di ribadire che l’orizzonte dei sedicenti riformatori continuava ad essere ostinatamente “partigiano”. Né il potere degli elettori né il miglioramento del sistema politico trovavano posto nelle loro motivazioni anche se la parola governabilità era enfaticamente e ripetutamente pronunciata dai Democratici. In nessuno dei testi a me noti la governabilità si consegue attraverso l’elezione popolare diretta del governo (13). In nessun paese l’ingovernabilità è attribuibile/attribuita ai sistemi elettorali, neppure a quelli proporzionali, quanto, piuttosto a dinamiche sociali e culturali nonché, ovviamente, politiche, alle quali si possono dare risposte anche istituzionali che solo in minima parte passano attraverso le riforme elettorali (14). Nessun politologo ha mai sostenuto che la governabilità (15) crescerà riducendo la rappresentanza che è, invece, la tesi prevalente fra i politici italiani e i loro commentatori di riferimento. È una tesi sbagliata come, indirettamente, ma molto convincentemente, ha dimostrato Powell (16). Oserei affermare che quanto migliore è la rappresentanza elettorale, politica, parlamentare dei cittadini-elettori tanto più probabile è che si pervenga ad un buon governo, vale a dire ad un governo che voglia e riesca a tradurre le preferenze, gli interessi, le domande degli elettori in politiche pubbliche (17) .

Se la rappresentanza politica, che può essere tale esclusivamente se è elettiva (18), si esprime attraverso sistemi elettorali pessimi, le conseguenze negative su parlamento e governo saranno automatiche (19) . Coloro che, nominati e paracadutati in posizioni di vertice nelle liste bloccate e in collegi sicuri, sanno di potere contare sulla ricandidatura non si cureranno affatto di rispondere al loro elettorato (che, peraltro, molto raramente conoscono o possono identificare) e neppure, meno che mai, alla Nazione alla quale, secondo l’art. 67 della Costituzione dovrebbero offrire rappresentanza “senza vincolo di mandato” (su molti di questi aspetti si veda quanto affermato da Calamandrei in due pregevoli saggi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso) (20). In questo modo si spezza il cruciale circuito dell’accountability. Viene meno l’insieme di comportamenti democratici virtuosi che mettono in relazione cittadini, rappresentanti e governanti (21). Nella legge elettorale a firma del deputato Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, non si trova nessuna preoccupazione per l’accountability, per la responsabilizzazione degli eletti in Parlamento a tutto scapito degli elettori e del loro potere ridotto ai minimissimi termini. Detto alto e forte che la legge Rosato non è affatto un ritorno alla proporzionale poiché duecentotrentadue deputati e centosedici senatori saranno eletti in collegi uninominali e trecentottantasei deputati e centonovantatre senatori nelle circoscrizioni proporzionali, piccole per i deputati, da due a quattro eletti per circoscrizione, e in circoscrizioni regionali, come impone la Costituzione, per il Senato, va subito aggiunto che combina in peggio l’elemento maggioritario con l’elemento proporzionale.

Per coloro che amano questi paragoni, la legge Rosato capovolge la legge Mattarella, ne sminuisce la competitività e la svirilizza a favore delle segreterie dei partiti. Poiché oltre alla candidatura nel collegio uninominale sono ammesse fino a cinque candidature nelle circoscrizioni proporzionali fin d’ora possiamo essere certi (assured), anche se in verità non ne sentivamo il bisogno, che nessuno dei dirigenti dei partiti e dei loro collaboratori più stretti perderà il seggio. Gravissimo è che, a fini puramente partigiani, vale a dire, per vincolare il voto al partito, la legge Rosato neghi la possibilità del voto disgiunto. Chi sceglie un candidato nel collegio uninominale automaticamente vota la coalizione che lo sostiene nella quale può trovarsi un partito sgradito a quello stesso elettore. Chi apprezza una coalizione e la vota, automaticamente e inevitabilmente dà sostegno al candidato uninominale che, forse, avrebbe preferito non sostenere. Il voto disgiunto insieme alle liste bloccate fa della legge elettorale Rosato un esemplare fra i più riprovevoli della riaffermazione di quel che rimane della partitocrazia/partitinocrazia italiana. È una legge che nessuno in Europa ci invidierà e nessuno penserà di imitare.

La legge Rosato è anche una legge poco promettente per la governabilità come, malamente, intesa dai loro fautori. Non può in nessun modo promettere la maggioranza assoluta di seggi per uno schieramento. Anzi, suggerisce che sarà difficile per tutti andare a comporre una coalizione di governo decente, in grado di durare. Qui, però, prendendo atto che, seppure molto obtorto collo, qualcuno si è finalmente accorto che le democrazie parlamentari nell’Unione Europea hanno governi di coalizione, mi affretto ad aggiungere che qualsiasi governo di coalizione composto da due/tre partiti (persino quattro e più raramente cinque, remember il pentapartito?) è più e meglio rappresentativo di un governo composto da un solo partito. Da non sottovalutare che i cittadini il cui partito si trova nella coalizione di governo si sentiranno logicamente più e meglio rappresentati dei cittadini i cui partiti sono esclusi dal governo.
Dopodiché molto dipenderà dalla qualità dei governanti, sperabilmente scelti anche fra i parlamentari più esperti e più capaci.

Una delle tentazioni, peraltro non impellente, alla quale non voglio cedere, è quella di procedere alla simulazione della distribuzione dei seggi nel Parlamento da eleggere nel 2018. Anzi, intendo mettere in guardia tutti dalle simulazioni per di più condotte dagli orfani di un padre malevolo come fu l’Italicum. Chi prevede un futuro politico-parlamentare oscuro e pericoloso sta facendo, non del tutto inconsapevolmente, affermazioni dal contenuto poco democratico. Quattro mesi di campagna elettorale passerebbero come acqua sul volto e sulle opinioni degli elettori. I candidati (questo può essere vero) e i leader dei partiti non sapranno trovare gli argomenti giusti e le parole appropriate per fare cambiare opzione di voto a percentuali significative di elettori. Non soltanto costoro avrebbero già deciso, ma non cambieranno idea neppure se i leader e i loro esperti/collaboratori commettessero errori clamorosi (22) . Sappiamo, invece, che una percentuale notevole di elettori decide, anche guardando alle coalizioni in lizza, nell’ultima settimana della campagna se non, addirittura, un giorno prima o il giorno stesso del voto. Certo, la legge Rosato offre pochissime opportunità agli elettori che chiamerò, in ossequio ad una classificazione che ha avuto qualche successo, “d’opinione” (23), a coloro che, per l’appunto, valutano le scelte in campo. I “sinceri democratici” debbono augurarsi che gli elettori d’opinione siano molti, intendano attivarsi e superino il disgusto recandosi alle urne e smentendo con la loro crocetta i simulatori senza fantasia e i politici senza vergogna. Purtroppo, una legge elettorale pessima non consentirà di avere un Parlamento buono a sostegno di un governo capace. Chi comprime la rappresentanza non può ottenere governabilità.

 

 

1 G. PASSARELLI, Electoral Laws and Elections in the Second Italian Republic. The 2013 Landmark (?), in Polis, n. 1/2014, pp. 107-122.
2 Più che trentennale poiché, lasciando da parte la legge truffa (1953) e, non tornando assurdamente alla legge Acerbo (1923), improponibile come termine di paragone, dibattito e riforme risalgono all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Per una essenziale panoramica, si veda M. REGALIA, Electoral Systems, in E. JONES – G. PASQUINO (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford, OUP, 2015, pp. 132-143. La mia proposta, presentata in Commissione Bozzi il 4 luglio 1984 e ampiamente discussa per tutto il decennio, ora si trova in G. PASQUINO, Partiti, istituzioni, democrazie, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 229-242.
3 S. ROKKAN, Citizens, Elections, Parties, Oslo, Universitetsforlaget, 1970.
4 M. HTUN – G.B. POWELL, Jr. (a cura di), Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance, American Political Science Association, Washington, D.C., September 2013 (reperibile all’url: https://liberalarts.utexas.edu/government/_files/moserweb/APSATaskForce2013.pdf).
5 Il ritaglio truffaldino dei collegi elettorali è operazione che risale al governatore del Massachusetts Elbridge Gerry il quale la iniziò, con successo, nel 1812.
6 Il contesto, come messo in limpida evidenza cinquant’anni fa da Sartori, include i partiti e i sistemi di partito (G. SARTORI, Political Development and Political Engineering, in J.D. MONTGOMERY – A.O. HIRSCHMAN (a cura di), Public Policy, Cambridge (MA), HUP, 1968, pp. 261-298). Entrambi sono spariti dall’orizzonte culturale (sì, parola grossa) degli apprendisti riformatori italiani i quali, nel non necessariamente migliore dei casi, vedono solo l’orizzonte degli interessi del loro partito.
7 Il Ministro Maria Elena Boschi è arrivata ad affermare che i capilista bloccati sarebbero stati “i rappresentanti di collegio”. George Orwell direbbe che questo è uno splendido esempio di neolingua. Date le modalità con le quali è probabile che fossero selezionati e i comportamenti che si sarebbero attesi da loro, mi permetterei di suggerire che quei capilista erano a tutti gli effetti intesi come “commissari di partito” (del capo del partito).
8 M. VALBRUZZI, Government Alternation in Western Europe: A Comparative Exploration, tesi di dottorato, Firenze – Istituto Universitario Europeo, 2017.
9 G. PASQUINO – M. VALBRUZZI (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, BUP, 2011.
10 D.W. RAE, The Political Consequences of Electoral Laws, New Haven-Londra, Yale University Press, 1971.
11 G. AMATO – A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, il Mulino, 1984.
12 Di ballottaggio si deve parlare con precisione poiché è limitato a due concorrenti, competitors, non di secondo turno che spesso contempla la presenza anche di tre, addirittura quattro candidati.
13 G. PASQUINO, Sistemi politici comparati, Bologna, Bononia University Press, 2007; G. PASQUINO, Governments in European Politics, in J.J. MAGONE (a cura di), Routledge Handbook in European Politics, Londra, Routledge, 2015, pp. 295-310.
14 R. ROSE (a cura di), Challenge to Governance. Studies in Overloaded Polities, London, Sage Publications, 1980; M. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Milano, Franco Angeli, 1977.
15 La governabilità può essere secondo Sartori la conseguenza della stabilità del governo che consente e agevola la produzione di decisioni. Quanto le decisioni siano/saranno efficaci dipende soprattutto, ma non solo dalla competenza dei governanti.
16 G.B. POWELL. Jr., Elections as Instruments of Democracy, New Haven e Londra, Yale University Press, 2000.
17 O. MASSARI – PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna, il Mulino, 1994.
18 Se gli eletti parlamentari temono che a sanzionare i loro comportamenti saranno, nell’ordine, il capo del partito, il capo della corrente di partito, il gruppo di pressione che ne ha imposto la presenza in lista e non gli elettori, è prevedibile che daranno “rappresentanza”, se tale si può definire (meglio obbedienza) ai capi e non agli elettori. Sul punto si veda: G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 211-236.
19 G. PASQUINO, Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea-UniBocconi, 2015, pp. 71-91.
20 P. CALAMANDREI, Patologia della corruzione parlamentare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017.
21 G. PASQUINO, Accountability, Electoral, in B. BADIE – D. BERG SCHLOSSER – L. MORLINO (a cura di), International Encyclopedia of Political Science, Londra, Sage Publications, 2011, pp. 13-16.
22 Molti elementi utili a smentire ciascuna e tutte queste affermazioni si trovano in P. BELLUCCI-P. SEGATTI (a cura di), Votare in Italia: 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, il Mulino, 2010.
23 A. PARISI – G. PASQUINO, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in A. PARISI – G. PASQUINO (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 215-249.