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Gianfranco Pasquino: “Brutto testo quello sul premierato” @LaPortadiVetro Domani sera #27novembre ad Alessandria dibattito con Mario Deaglio

Intervista di Alberto Ballerino

Gianfranco Pasquino e Mario Deaglio si confronteranno domani, 27 novembre, sui problemi del nostro paese, tra economia e politica, nella sede dell’associazione Cultura e Sviluppo in piazza De André ad Alessandria. Un’occasione importante per riflettere su una fase storica complessa con due tra i più originali intellettuali italiani.

Una transizione infinita? Politica ed economia dalla fine del Novecento a un futuro da riprogettare è il titolo dell’appuntamento, in occasione del quale si parlerà anche dell’ultimo libro di Pasquino, In nome del popolo sovrano. Potere e ambiguità delle riforme in democrazia  (Egea). Un volume in cui vengono dati giudizi molto severi, a partire dalle riforme fino ad oggi fatte o proposte.  “Mediocri – ci dice l’autore -, alcune sbagliate e respinte dai referendum”.  Tra le più importanti finora attuate c’è sicuramente quella dell’articolo V sulle autonomie e il decentramento amministrativo. “Gli italiani non hanno mai capito bene cosa significa avere il decentramento. In realtà tutto va ripensato, tenendo presente che siamo in Europa: il decentramento deve creare delle entità autonome in grado di rapportarsi direttamente ad essa. Non vedo nessuno in grado di farlo. Probabilmente l’unico con idee valide in materia era Gianfranco Miglio, che però esagerava perché era interessato soprattutto alle regioni del nord. Oggi non c’è un vero federalista e abbiamo una cattiva distribuzione del potere tra le varie regioni”.

Sulle riforme al centro del dibattuto politico attuale è molto duro. Per quanto riguarda quella sulla giustizia, ritiene che sia sbagliata e diretta a consentire al potere politico di controllare quello giudiziario: “Nordio ha avuto una battuta infelice ma rivelatrice, dicendo che bisogna riequilibrare i poteri con la politica, dando più poteri a quest’ultima. Non è così che si fanno le riforme della giustizia: credo che sia giusto andare al referendum, il quale peraltro deve essere chiesto dagli oppositori e non dal governo perché altrimenti è un plebiscito. E ai plebisciti si risponde con un No”.

Altrettanto negativo il giudizio sul premierato: “Il testo è pessimo perché spacca uno dei principi cardine del costituzionalismo democratico come  la separazione dei poteri e cambia la forma di governo, da parlamentare a non parlamentare, direi extra parlamentare e forse anti parlamentare. Una riforma brutta che mira a togliere i poteri al presidente della Repubblica di nominare il capo del governo (scelto dagli elettori) e di sciogliere il Parlamento (sciolto dal capo del governo o dalla sua maggioranza). Il governo avrebbe più poteri del presidente della Repubblica, mentre, invece, il dualismo è indispensabile nel funzionamento del parlamentarismo italiano”.

Tra l’altro, per quanto riguarda le attività degli organi costituzionali, è proprio sulla presidenza della Repubblica che vanno i giudizi migliori: “Recentemente è quello che ha funzionato meglio. Il governo ha avuto alti e bassi mentre il Parlamento non è riuscito ad acquisire una sua autonomia. Funziona positivamente quando ci sono parlamentari capaci altrimenti non va particolarmente bene, va riformato. Per avere un Parlamento potenziato bisogna utilizzare una legge elettorale decente mentre l’attuale non lo è”.

Oggi, Pasquino sarebbe favorevole a una sola riforma: “Quella del voto di sfiducia costruttivo. Il capo del governo viene eletto direttamente dal Parlamento, in seduta congiunta eventualmente, e può essere sostituito soltanto da una maggioranza assoluta che abbia la capacità di eleggerne un altro. Questo responsabilizzerebbe il capo del governo, le maggioranze parlamentari e farebbe fare un salto di qualità all’intero sistema. Tutto il resto va bene così com’è. Nessuno di noi, né oggi né ieri, è in grado di fare meglio dei costituenti. Quella italiana è un’ottima Costituzione”.

 

 

Se nessuno sa approfittare del nervosismo di Meloni @DomaniGiornale

Grande è la versatilità di Giorgia Meloni nel passare dalla postura di statista di livello internazionale, che alterna serietà compunta e faccine sorridenti ammiccanti, a quella di capo di un governo variamente sfidato da opposizioni in disordine sparso, “costretto” a difendersi e a contrattaccare con toni minacciosi da comiziante (una parte che le ha dato fama e probabilmente portato voti). Qualche volta, però, di recente, la Presidente del Consiglio manifesta un eccesso di nervosismo che la spinge sopra le righe. Con un verbo che a Colle Oppio è di uso frequente, Meloni sbrocca. Raffinati psicologi meglio esploreranno modi, tempi, entità della perdita di controllo sulla voce e sul body language. Utile, forse preferibile andare all’individuazione delle cause politiche del comportamento di Meloni.

    Ad uso dei sostenitori e degli oppositori premetto che le difficoltà e le tensioni, le criticità nelle azioni del governo e le appena visibili conseguenze non positive non si traducono né immediatamente né automaticamente in caduta di consensi per lei e per il suo governo né, meno che mai, in impennate di intenzioni di voto per le opposizioni e i loro dirigenti. Ci vuole altro. Poi, però, purtroppo per loro, i benaltristi non sanno dire con sufficiente previsione e condivisione che cos’altro e come manca e da chi potrebbe essere prodotto.

L’agenda della valutazione e, presumibilmente, delle preoccupazioni del governo (e delle migliori fra le opposizioni, alcune sono solipsistiche) la dettano il fatto, il non fatto e il fatto male. La legge finanziaria è il fatto più importante. Sul punto mi atterrò alla sapida espressione inglese “a gentleman never quarrels about figures”. Non importa se i numeri danno qualche premietto ai ceti medi, tali definiti con riferimento ai redditi che spesso sappiamo non essere proprio il più affidabile degli indicatori. Importa poco anche che i “ricchi” sfuggano a qualsiasi aggravio. No, Robin Hood non frequenta nessuna foresta italiana. Importa di più che ai ceti più deboli non vengano dati aiuti più cospicui e destinati dare. Cruciale, invece, è che il governo preferisca il galleggiamento ad interventi “coraggiosi” per la crescita, per aumentare le dimensioni della torta e non per (re)distribuire poco più delle briciole. Sarà, come argutamente sospetta Giulia Merlo, la Finanziaria dell’Anno Elettorale o mostrare tutta la sua spinta espansiva, fatta specialmente di regali più meno mirati, collocati in bella mostra in vagoncini clientelari?

Quasi fatta è la separazione delle carriere fra Pubblici Ministeri e magistrati giudicanti. Non sarà lo sbandierato ricordo che questa riforma la voleva Silvio Berlusconi a farmi votare “Sì” al referendum prossimo venturo. Infatti, fra i mei ricordi trovo anche le strenue battaglie del Cavaliere e dei suoi seguaci non solo “nei” processi, ma “contro” i processi. Quanto ai sondaggi che danno al “Sì” un buon vantaggio, ricordo che anche il referendum di Renzi partì con notevole abbrivio che si spense piuttosto rovinosamente. Memore, Meloni ci rassicura o ci gela: il rigetto (referendum nient’affatto “confermativo”) non farà cadere il governo che pure quella separazione ha voluto e imposto. Non esattamente un bell’esempio di accountability. Fra il non fatto risplende “l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri”, sbrigativamente il premierato. Definita da Meloni stessa “la madre di tutte le riforme” sembra destinata a rimanere incinta ancora per molti mesi. Per non incorrere in un referendum rischioso assai nonostante il probabile sostegno dei riformisti già impunitamente renziani, è tutto rimandato alla prossima legislatura. Servirà, forse, in campagna elettorale quando si potrà assistere allo spettacolo senza precedenti dell’unico capo del governo italiano rimasto in carica per l’intera legislatura che chiede voti per la stabilità, degli altri. Sì, anche questa non remota eventualità provoca una non modica dose di nervosismo. Troppo banale concluderne che, al momento, non si vede chi sappia approfittarne e come?

Pubblicato il 12 novembre 2025 su Domani

Il PD è un partito indispensabile. Chi lo sabota aiuta la destra @DomaniGiornale

Per lo spazio che occupa, per le politiche che propone, per il ruolo che può svolgere, il PD è un partito indispensabile. Questa sua indispensabilità, unita alle incertezze, alle contraddizioni e agli errori dei suoi dirigenti lo rende particolarmente e giustamente esposto alle critiche. Facendo tesoro di queste critiche, filtrandole e selezionandone il meglio, i suoi gruppi (proprio così, al plurale) dirigenti riuscirebbero fare crescere il partito oltre il 20 per cento o poco più degli attuali consensi elettorali.

  Lo spazio occupato è grosso modo equidistante fra due piccoli partiti che si contendono il centro, non propriamente affollato da elettori, e due organizzazioni che mirano ad un elettorato più orientato a sinistra. In assenza del Partito Democratico nessuno di questi raggruppamenti avrebbe qualche chance di contrastare credibilmente il governo di centro destra e di controproporre politiche rilevanti. Sulle politiche, il Partito Democratico soffre degli stessi problemi che hanno inciso e continuano ad incidere negativamente su molti partiti socialisti e progressisti. Per un insieme di ragioni, tutti hanno effettuato uno scivolamento verso politiche culturali, di genere e molto attente ai diritti, venendo percepiti come meno inclini e meno capaci di elaborare politiche economiche e sociali gradite e utili alle classi popolari. Per dirla in maniera giornalistica, insieme ad altri partiti simili, il PD è diventato il partito della ZTL dimenticando le periferie e i suoi abitanti/elettori e, naturalmente venendo fortemente penalizzato in termini di voti. Eguaglianza economica irraggiungibile, dislivello di status, di riconoscimento, di prestigio incolmabile: quasi il peggior dei mondi possibili.

  Nel contesto italiano forse un po’ di più che in altri contenti occidentali multipartitici, il ruolo che il PD può svolgere e al quale, spesso, adempie è doppiamente cruciale. Con la sua presenza attiva e convinta l’opposizione acquisisce maggior peso, visibilità, efficacia. Senza il suo contributo, le sue attività, le sue personalità non è minimamente concepibile/immaginabile che si affermi e esista una qualsiasi alternativa politico-elettorale praticabile al governo Meloni. Se, poi, è vero, come credo e sono in grado di documentare, che la qualità dei governi dipende anche dalla qualità delle opposizioni, ne consegue che il contributo complessivo del PD al funzionamento del sistema politico sarebbe elevato e ricadrebbe positivamente anche sui ceti popolari.

  Per essere all’altezza della sua indispensabilità (e del suo nome) il PD non può fare a meno del pluralismo interno, dell’incontro/scontro di posizioni diverse, di proposte, persino di prospettive in competizione. Mi pare che definire questa competizione come riguardante in maniera schematica, da un lato, i “movimentisti radicali” capeggiati dalla segretaria Schlein, dall’altro, i sobri “riformisti” che hanno abbandonato Bonaccini, sia troppo semplicistico e poco illuminante. Inoltre con riferimento alle dichiarazioni e alle non nuove prese di posizione dei riformisti vedo il duplice gravissimo rischio di indebolire il partito tanto nel ruolo di centro propulsore dell’opposizione quanto come asse portante dell’alternativa a venire. Comunque, il criterio principe con il quale valutare il tasso di riformismo dei riformisti non può essere quello di correre in soccorso delle “riforme” come quella della magistratura fatte dal governo Meloni, quasi un anticipo del soccorso da portare al più impegnativo e più dirompente premierato. Indebolendo il PD i rifomisti non stanno affatto facendo avanzare una prospettiva riformista. Al contrario, in parte danno qualcosa di più di una immeritata apertura di credito al governo (poi, si sa, i governi hanno sempre la possibilità di essere generosi), in parte maggiore ridimensionano il ruolo del loro partito, la sua indispensabilità e la sua efficacia. In definitiva, non giovano neppure al miglior funzionamento del sistema politico.

Pubblicato il 5 novembre 2025 su Domani

Confermativo, oppositivo o abrasivo. Il referendum e il potere degli aggettivi @DomaniGiornale

In principio era il verbo, cioè la parola (un sostantivo). Poi arrivarono gli aggettivi e fu tutta una Babele. C’era chi beatamente continuava a definire perfetto il bicameralismo italiano commettendo due errori gravi. Primo: l’uso di un aggettivo valutativo invece dell’indispensabile aggettivo descrittivo,  per un Parlamento in cui le due camere hanno grosso modo gli stessi poteri e svolgono le stesse attività, paritario o simmetrico. Poi, con grandissimo sprezzo del pericolo, e del ridicolo, se ne annuncia l’imprescindibile necessità della riforma epocale: rendere imperfetto il bicameralismo perfetto. Riforma bocciata dagli elettori.

Poi vennero quelli che il premierato … L’aggettivo chiave è forte, ma subito è il caso di osservare che il premierato è il premierato è il premierato. Forte e debole sono qualità che riguardano semmai i premier, i capi di quella forma di governo, vale a dire, specialmente le loro capacità e la loro autonomia. Lanciato più di un quarto di secolo fa con il contributo di alcuni benpensanti moderatamente di sinistra, il premierato ha come fondamento essenziale l’elezione popolare diretta del capo del governo. Non è sufficiente la “quasi” elezione diretta, come arditamente veniva affermando un professore comunista di diritto poi approdato alla Presidenza della Corte Costituzionale. Ironia o sbeffeggio della storia, proprio in quel periodo i conservatori inglesi reclutavano dai loro ranghi parlamentari quattro primi ministri uno dei quali, Liz Truss, occupò la carica addirittura per quasi 50 giorni. Non succederà così con il disegno di legge costituzionale di Giorgia Meloni, “madre” [non Giorgia, ma l’elezione popolare] di tutte le riforme” poiché una sostituzione dell’eletto/a è consentita. Non consentito è l’aggettivo “forte”, uomo forte evocando i tempi in cui capo del governo era Lui, Sua Eccellenza il Cav. Benito Mussolini (v. in materia l’analisi di Ruth Ben-Ghiat, Strongmen. How They Arise. Why They Succeed. How They Fall, London, Profile Books, 2021).

Troppo facile, poi, notare che non pochi capi di governi parlamentari, non eletti direttamente, Margaret Thatcher (1979-19909 e Tony Blair (1997-2007); Felipe Gonzales (1982-1996); Helmut Kohl (1982-1998), Angela Merkel (2005-2021), sono stati forti, duratori, autorevoli. A loro volta per non pochi Presidenti di Repubbliche presidenziali (Argentina, Raul Alfonsin 1983-1987; molti boliviani e peruviani; George H. Bush (1988-1992), Joe Biden (2020-2024), l’elezione popolare non servì affatto a renderli forti. Il Presidente semipresidenziale francese Emmanuel Macron costituisce un caso interessante che contiene una risposta più che soddisfacente. Grazie al solido sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare, è stato molto forte nel corso del suo primo mandato (2017-2022). Pur rieletto dal “popolo”, ma, perduta quella maggioranza, Macron appare debole e ha scarso potere decisionale nell’attuale secondo mandato che finirà inesorabilmente nel 2027.  

Giunti al termine della stesura di un testo limpido, ma articolato e necessariamente complesso come la Costituzione italiana, i Costituenti non ebbero dubbi. Uno o più articoli del testo, non soltanto quelli, peraltro non molti, sui quali si erano manifestate perplessità e tenute votazioni, avrebbero alla prova dei fatti forse trovato/meritato altre soluzioni. Il tempo e l’attuazione della Costituzione erano destinati a evidenziare inconvenienti e a sollevare problemi. Dunque, era più che auspicabile stabilire modalità sufficientemente precise con le quali addivenire a adeguate revisioni costituzionali. 

Per l’approvazione di una revisione costituzionale (art. 138) sono richieste in ciascuna Camera due letture a distanza minima di tre mesi. La doppia lettura e il tempo servono a tutti i protagonisti per imparare. I parlamentari avranno modo di ascoltare le motivazioni dei revisionisti e degli oppositori e le eventuali proposte alternative. Mass media e commentatori potranno narrare gli sviluppi e informare i cittadini, l’opinione pubblica L’elettorato avrà la possibilità più che in una elezione normale di farsi un’idea approfondita e raffinata quanto vorrà. La ragione per la quale i referendum costituzionali non hanno quorum è proprio perché i costituenti intesero premiare i cittadini interessati, informati e partecipanti e impedire che coloro che per qualsiasi motivo scelgono di non votare risultino distrattamente decisivi.

   Il referendum costituzionale è facoltativo, vale a dire che una revisione costituzionale approvata secondo le procedure descritte entra in vigore se non è sfidata nei tre mesi successivi la sua approvazione. Non si può avere nessun referendum se la revisione è stata approvata in seconda lettura dai due terzi dei parlamentari di entrambe le camere. La ratio di questa statuizione è tanto semplice quanto importante. In un paese nel quale l’antiparlamentarismo è un sentimento molto diffuso, incomprimibile, talvolta alimentato faziosamente, è saggio non offrire un’occasione di delegittimazione del parlamento espressosi con una maggioranza dei due terzi.    Detto e ribadito che il referendum deve essere richiesto, i costituenti stabilirono che richiedenti potessero essere “un quinto dei membri di una Camera o 500 mila elettori o cinque consigli regionali”. Dunque, non è previsto che il referendum costituzionale sia chiesto dalle autorità di governo meno che mai se quella particolare revisione è stata formulata dal governo con addirittura il capo del governo che se la intesta. Il referendum si trasformerebbe in plebiscito come successe al referendum voluto da Renzi sulle “sue” riforme. Infine, poiché logicamente dovrebbero essere, e, per lo più sono stati, gli oppositori della revisione a chiedere il referendum l’aggettivo confermativo è assolutamente sbagliato. Contiene anche un elemento sottilmente manipolatore: l’invito alle urne per confermare quanto fatto dalla maggioranza parlamentare. No, il referendum costituzionale non ha nessun aggettivo. Confermativo, comunque, sarebbe l’eventuale esito. Pertanto, se chiesto da chi s’oppone alla revisione, il referendum sarebbe più corretto definirlo oppositivo, contro la revisione. Quanto all’esito, se la revisione viene sconfitta e cancellata, la mia preferenza va all’aggettivo abrasivo. Preciso e definitivo.

Pubblicato il 4 novembre 2025 su Domani

VIDEO Il Premierato dello stivale #LectioMagistralis #SanLazzaro #Bologna SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETÀ

SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETÀ

https://www.facebook.com/1832744447/videos/1066356235145714

IL PREMIERATO DELLO STIVALE

Lectio Magistralis di

GIANFRANCO PASQUINO                              
professore emerito di Scienza Politica nell’Università di Bologna

Coordina: GIUSEPPE GILIBERTI
professore di Fondamenti del diritto europeo nell’Università di Urbino

Il premierato inesistente. Audizione presso la I Commissione Affari costituzionali della Camera #NOMOS n. 2/2024

Nomos. Le attualità nel diritto – n. 2/2024


Il dibattito costituzionale: le audizioni sul premierato.
Gianfranco Pasquino
Il premierato inesistente

Audizione presso la I Commissione Affari costituzionali della Camera nell’ambito dell’esame dei progetti di legge C. 1354 cost. Boschi e C. 1921 cost. Governo del 18 luglio 2024

IL PREMIERATO DELLO STIVALE #LectioMagistralis #18ottobre #SanLazzaro #Bologna SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETÀ

SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETÀ Organizzazione di Volontariato,  Attività n. 949950, R.U.N. Terzo Settore n. 464693, C. f. n. 91436240377, Sede legale: Agorà, via Jussi 102, San Lazzaro-Bologna www.smips.org https://www.facebook.com/groups/960878214738454

venerdì 18 ottobre 2024 ore 20.45

in presenza: Agorà, Via Jussi 102, San Lazzaro-Bologna

in diretta web: https://www.facebook.com/groups/960878214738454

IL PREMIERATO DELLO STIVALE

Lectio magistralis di

GIANFRANCO PASQUINO                              
professore emerito di Scienza Politica nell’Università di Bologna

Coordina: GIUSEPPE GILIBERTI
professore di Fondamenti del diritto europeo nell’Università di Urbino

INVITO Il premierato del nostro stivale e altre delicatessen #7settembre #MolinoScodellino Caste Bolognese #RA

Associazione Amici del Molino Scodellino

Sabato 7 settembre 2024 ore 18
Molino Scodellino via canale 7 Castel Bolognese – Ravenna

Gianfranco Pasquino

Il premierato del nostro stivale e altre delicatessen

La madre di tutte le riforme. Sul premierato Meloni ricordi la lezione di Renzi @DomaniGiornale

Una volta stabilito che una percentuale ragguardevole di italiani, lo testimoniano gli esiti dei referendum costituzionali, sono contrari alle revisioni, in particolare, della forma parlamentare di governo, chi può sostenere che hanno ragione i sedicenti improvvisati riformatori? Perché mai qualsiasi riforma costituzionale, da Renzi a Meloni, dovrebbe essere preferibile a quanto fu scritto da Calamandrei e Mortati, Fanfani e Basso (non intendo eccedere nell’elenco)? In base a quale valutazione i sostenitori di riforme purchessia riuscirebbero a migliorare la Costituzione in vigore da 75 anni e che ha accompagnato la grande trasformazione dell’Italia dal 1945 a oggi? Davvero coloro che si oppongono all’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio sono oggi terrorizzati dal “complesso del tiranno”, vale a dire dalla paura che gli Italiani si affidino all’uomo, pardon, donna, forte? Qualcuno, probabilmente, molti di loro sembrano più preoccupati dal venir meno di freni e contrappesi, dalla espansione del potere di una istituzione, il governo, a scapito dell’istituzione parlamento, da prevedibili squilibri e scompensi con gravi derive personalistiche. Non c’è bisogno di essere Liberali con la elle maiuscola per credere fermamente che il costituzionalismo democratico vuole gli strumenti per controllare il governo, li ha approntati, ne dispone. Sconcerta vedere che non pochi sussiegosi liberali à la carte vogliono dare più poteri al governo e al suo capo senza porsi nessun problema di riequilibrio fra le istituzioni, alle quali, in questo caso, va aggiunta anche la Presidenza della Repubblica.

Seguendo il solco del presidenzialismo missino brandito contro i partiti e contro il parlamentarismo, la riforma voluta da Giorgia Meloni e inscritta nel programma elettorale 2022 di Fratelli d’Italia era proprio il presidenzialismo, poi “derubricato” al ben diverso semipresidenzialismo francese per approdare a quello che viene chiamato, ma si potrebbe molto discuterne, premierato elettivo. Qui il punto non è analizzarne pregi, non ce ne sono, e difetti, sostanziali e monumentali dell’elezione popolare diretta del capo del governo, ma farsi due domande. La prima è chi si oppone alla riforma Meloni è automaticamente collocabile fra gli immobilisti costituzionali e da additare al pubblico ludibrio? E, seconda domanda, definito in maniera altisonante il premierato “la madre di tutte le riforme”, affermazione che necessita una approfondita riflessione, la sua bocciatura potrà rimanere senza conseguenze politiche? Nessuna riforma sarà più praticabile? Meloni si è affrettata a dichiarare che non ha la minima intenzione di lasciare il governo in seguito al referendum costituzionale che sconfiggesse la madre di tutte le (sue) riforme. Nel 2016 Renzi che, consapevolmente, aveva impostato un plebiscito sulle “sue” riforme costituzionali, agì diversamente. Se ne andò subito, per ripicca, sdegnato, lasciandoci soli.

Sarebbe molto opportuno che a tempo debito Meloni tenesse comunque conto di questo interessante precedente. Peraltro, fa ancora a tempo, certo gettando nello sconforto tutti coloro che si servono di lei per criticare i sinistri immobilisti costituzionali, a ritirare il suo disegno di legge oppure a lasciarlo appassire silenziosamente sans faire de bruit. Ce ne faremo una ragione. Non sarà per cercare riforme condivise al ribasso, al minimo, forse, infimo comun denominatore, quanto, piuttosto, per gettare uno sguardo oltre le Alpi dove prosperano alcune ottime democrazie parlamentari. “È la comparazione, bellezza” che ha il grande pregio di insegnare cosa funziona, come, quando. Metodo e merito come dice spesso la Presidente del Consiglio. E così sia.

Pubblicato il 31 luglio 2024 su Domani

Il premierato dello Stivale – l’antifascista anno LXXI – n° 3

Articolo pubblicato in
l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXXI – n° 3 – 4 Marzo – Aprile 2024

 

Il testo del disegno di legge n. 935 “Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica” è approdato nell’aula del Senato. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani lo ha dichiarato non modificabile. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ne vorrebbe l’approvazione in prima lettura prima delle elezioni del Parlamento Europeo fissate per il 9 e 10 giugno. Quella che ha definito la “madre di tutte le riforme” sarebbe un successo tale da risultare portatore di voti aggiuntivi di elettori entusiasti e galvanizzati.

Non entro in nessuna delle polemiche politicistiche e non intendo ripercorre l’iter che ha portato al testo attuale, ma debbo menzionare alcuni elementi. Il primo è che sono state fatte circa 55 audizioni di esperti tutti, con la sola eccezione di uno storico, le cui conoscenze in materia di sistemi politici, di governi, di parlamenti, di leggi elettorali non (mi) sono note, provenienti dal mondo del diritto, nessuno da quello della Scienza politica. Sì, lo so, in quanto Professore emerito di scienza politica metto entrambi i piedi nel piatto del conflitto di interessi ovvero, meglio, del confronto delle conoscenze e delle competenze. Stabilire e regolamentare come procedere alla formazione del governo in una democrazia parlamentare è un’operazione che può essere fatta conoscendo quasi esclusivamente le norme giuridiche da cambiare e da formulare oppure facendo affidamento sulle molte conoscenze politologiche di base: sistema dei partiti, loro natura, compiti del Parlamento, a cominciare dal rapporto con il governo, distribuzione dei voti, conoscenze che sono ovunque nelle altre democrazie parlamentari assolutamente decisive?

Per le mie credenziali mi limito a citare il libro da me curato Capi di governi (Bologna, il Mulino, 2005) che contiene tutto il materiale comparato necessario a qualsiasi riformatore e apparentemente quasi del tutto sconosciuto agli estensori del testo e agli “auditi” fra i quali sono emersi l’ex-Presidente della Camera che equiparò i ragazzi di Salò ai giovani della Resistenza e alcuni giuristi renziani(ssimi). L’indispensabile citazione di Giovanni Sartori “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico” valga come epitaffio. Ma è anche un modo di indicare la necessità di guardare altrove per vedere con il confronto che cosa è “normale” e che cosa è anomalo e per imitare/importare quello che funziona.

 Per migliorare il testo nella sua versione in Senato abbiamo a disposizione quanto fatto e poi abbandonato in Israele, 1996, 1999, 2001, utile solo per tenersi alla larga da una soluzione che non ha funzionato. Alcuni volenterosi portatori d’acqua al mulino del premierato, sopravvissuti, ma non istruiti dal loro renzismo pancia a terra nel 2016, hanno offerto un pacchetto di riformette razionalizzatrici, tutte respinte dalla maggioranza. Interessante è che per fare brecci a nel Partito Democratico e immagino in Italia Viva e Azione hanno resuscitato Maurice Duverger (1917-2014). Chi era costui?

Giurista più che politologo, con un ambiguo e oscuro passato di vicinanza politica negli anni trenta del secolo scorso a gruppi di estrema destra sostenitori del Maresciallo Pétain, negli anni cinquantail Professor Duverger argomentò vigorosamente dalle pagine dell’allora prestigioso quotidiano progressista Le Monde per l’appunto l’elezione popolare diretta del Primo ministro come modalità di uscita dall’eterna palude (parole sue) della politica francese, in particolare quella della Quarta Repubblica. I premieratistini italiani tentano di rafforzare le loro credenziali ricordando che nel 1989 Duverger fu eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano. Da tempo i volonterosi colpevolmente trascurano che Duverger, sconfitto dai riformatori gollisti che nel 1958 avevano installato la Quinta Repubblica, era rapidamente diventato e tuttora rimane il più autorevole cantore del semipresidenzialismo voluto e ottenuto dal Generale Charles de Gaulle. Quasi nessuno, poi, ricorda una frase rivelatrice pronunciata dal Generale-Presidente in occasione di una oscura crisi di governo italiana: “L’Italie en est à la Cinquième”, segnalazione di come risolvere le difficoltà della Repubblica parlamentare più simile nelle istituzioni e nel sistema dei partiti alla Quarta Repubblica francese, vale a dire passando al semi-presidenzialismo. Meloni ha rivelato di averne intrattenuto l’idea, abbandonandola poiché criticata in quanto sarebbe stato necessario cambiare il ruolo del Presidente italiano. Ripetutamente lei e i suoi corifei affermano che con la loro riforma il Presidente non perde i suoi attuali poteri.

A fronte di questa brutta e cattiva menzogna istituzionale trasecolo e barcollo. Appare innegabile e inevitabile che con il Premierato il Presidente della Repubblica perda i suoi due cruciali poteri istituzionali: nomina del Presidente del Consiglio e scioglimento/non scioglimento del Parlamento. Pena clamorosi e pericolosi scontri, dovrà nominare l’eletto/a dal popolo e, senza nessuno spazio di discrezionalità, dovrà accettare la richiesta di scioglimento proveniente dal capo del governo. Insomma, la fisarmonica dei suoi poteri perderà le due note qualificanti. Logica conseguenza di una riforma che introduce il premierato.

Secondo elemento: i due bersagli che il disegno di legge Meloni vuole colpire sono, rispettivamente, l’instabilità dei governi e la possibilità di governi cosiddetti tecnici. Sappiamo che l’Italia dal 1945 ad oggi ha avuto 68 governi, ma “solo” 31 capi di governo, alcuni in carica per molti anni come Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi, detentore del record di durata consecutiva, ma destinato a essere superato da Meloni. Uno sguardo comparato suggerisce che, da un lato, la stabilità in carica dei capi dei governi parlamentari non dipende affatto dall’elezione popolare diretta: Helmut Kohl 1982-1998; Angela Merkel 2005-2022; Felipe Gonzales 1982-1996; Margaret Thatcher 1979-1990; Tony Blair 1997-2007. Dall’altro, che la stabilità politica può facilmente diventare immobilismo, cioè può portare ad una situazione nella quale il capo del governo si limita a decidere il minimo possibile per non agitare le acque e per non rischiare di essere sostituito. Immobilismo.

Dal 1949, grazie ai Costituenti tedeschi, fra i quali non mancavano alcuni politologi, sappiamo che il voto di sfiducia costruttivo, è un efficacissimo strumento per, da un lato, evitare crisi di governo al buio, vero e proprio deterrente e, dall’altro, la chiave per produrre cambi di maggioranze e del Cancelliere senza vuoti di potere. Nella loro Costituzione fine anni Settanta, gli spagnoli brillantemente procedettero ad una razionalizzazione semplificatrice. Diventa Presidente del Governo il primo firmatario della mozione di sfiducia votata da una maggioranza contraria al Presidente del governo in carica. Incomprensibilmente, di questo non c’è traccia nel discorso sul premierato.

L’elezione popolare diretta serve anche a dare legittimità politica e istituzionale a chi viene eletto. Ma quale legittimità potrebbe avere un capo di governo eletto con il 30 per cento dei voti o poco più (anche meno)? La non previsione di una percentuale minima di voti, che comunque non dovrebbe essere inferiore al 40-45 per cento, è una ferita profonda. Ancora, è ingiustificabile il rigetto del ballottaggio, previsto in sostanzialmente quasi tutti i sistemi politici nei quali si pratica l’elezione popolare diretta. Tuttavia, non può bastare, come sembra credere Antonio Polito, l’introduzione del ballottaggio, per accettare una mala riforma. Grave ferita alla legittimità politica deriva dalla previsione che il capo del governo possa essere sostituito da un altro esponente della sua stessa maggioranza già in Parlamento. Costui potrebbe addirittura minacciare e chiaramente ottenere lo scioglimento del Parlamento. Né può confortarci che bizantinamente si sia giunti alla regola simul stabunt simul cadent, mentre la regola dei presidenzialismi vigenti è declinata tutta al contrario: il Presidente non può sciogliere il Congresso, il Congresso non può sfiduciare il Presidente. Insieme stanno insieme rimarranno fino alla fine dei rispettivi mandati.

Da ultimo, in maniera del tutto impropria e inappropriata il disegno di legge costituzionale sull’elezione popolare del capo del governo pretende di dettare, alla faccia del principio della separazione delle istituzioni, anche la legge per l’elezione del parlamento stabilendo che alla coalizione che ha espresso e sostenuto la candidatura vincente andrà il 55 per cento dei seggi. Sulla costituzionalità di questa assegnazione di premi e di seggi non prevista e mai attuata da nessuna parte al mondo, in nessuna dei modelli di governo esistenti, lascio la parola al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale. La mia notazione finale è che né i premieratisti né i loro affannati followers sembrano consapevoli che il pregio maggiore delle democrazie parlamentari consiste nella loro adattabilità, nella capacità di affrontare in maniera flessibile le sfide al loro funzionamento grazie ad una mutevole distribuzione del potere politico e istituzionale fra i partiti che rispondono all’elettorato e danno vita a coalizioni parlamentari e grazie ai governanti e ai rappresentanti che sfruttano i loro ambiti di autonomia. Qualsiasi irrigidimento, come quello inevitabilmente derivante dall’elezione diretta del capo del governo, è pericoloso. Mentre non è detto che la rigidità ne rafforzi carica e azione, sicuramente lo espone a sfide esistenziali.

Come spesso capita a chi, non sapendone abbastanza e quindi non essendo in grado di valutare le alternative, è costretto a difendere l’esistente, il centro-destra si è arroccato. Tutto considerato, il premierato si configura come una bruttissima innovazione, con forte sapore populista, ma qualitativamente inferiore ai pur già criticabili e criticati presidenzialismi, e nient’affatto un superamento delle democrazie parlamentari. Le opposizioni impostino i loro lavori in Parlamento in chiave pedagogica che sia e diventi la premessa politica e culturale dell’indispensabile referendum oppositivo: il padre della difesa della democrazia parlamentare.

Bologna, 8-9 maggio 2024