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Quanto conta Mattarella nel tempo delle destre @DomaniGiornale


Le chiavi di lettura del ruolo del presidente della Repubblica italiana possono essere, dovremmo averlo oramai imparato tutti, molteplici. Sottolineerò che la molteplicità delle possibili interpretazione e la relativa discrezionalità del Presidente costituiscono un fattore positivo per il miglior funzionamento del sistema politico italiano. Sì, quanto ho scritto è fin d’ora un avvertimento agli eventuali riformatori. La relativa discrezionalità di cui opportunamente gode il Presidente dipende, anzitutto, dalla definizione dei suoi poteri stabilita, peraltro flessibilmente, nella Costituzione. Per quanto ciascun Presidente sappia che “rappresenta l’unità nazionale” (art. 87), le differenze nelle modalità con cui hanno svolto questo compito sono state significative. Sono cresciute sia per il cambiar dei tempi e della politica sia per il grado di autonomia di cui ciascun Presidente ha potuto e voluto godere soprattutto dopo il 1994. Molto hanno contato e continuano a contare anche le convinzioni e le capacità del Presidente stesso.
Dal canto suo, fin dall’inizio del suo primo mandato il Presidente Mattarella ha inteso e fatto chiaramente intendere che desidera rappresentare l’unità nazionale non tanto e non solo in patria (!), ma anche in special modo sulla scena europea. Pertanto, le sue esternazioni e i suoi comportamenti sono orientati a porre l’Italia, a prescindere dai governi del momento, che sono già stati parecchi, e parecchi sono stati i ministri con compiti europei, nella posizione e nella luce migliore possibile. Più di chiunque altro, proprio perché sta e vuole rimanere al disopra della mischia politica, Mattarella vuole proiettare sulla scena europea la credibilità del paese di cui è Presidente.
Qualche governo e qualche ministro rendono questo compito arduo, alcuni criticando il Presidente per una presunta invasione di campo. Invece, anche se, probabilmente il Presidente preferirebbe che il termine supplenza non venga evocato, la sua azione inevitabilmente e consapevolmente apporta qualcosa di più, di necessario per la credibilità, non tanto di uno specifico governo quanto del paese (della nazione, se vi suona meglio). La lunga telefonata di Mattarella con il Presidente Macron era intesa a comunicare a Macron che i rapporti fra Italia e Francia, fra le due nazioni, debbono rimanere (ritornare) a essere improntati a reciproca amicizia. Interpretando l’unità nazionale, il Presidente non si è sostituito al governo, ma ha in qualche modo segnalato al governo Meloni che deve ridefinire qualcosa di importante nello specifico rapporto con la Francia. Tocca al capo del governo, ai ministri competenti, a cominciare da quello degli Esteri, compiere, senza mal poste critiche, il passaggio dalla indiretta predica presidenziale ad una politica più equilibrata.
Pubblicato il 16 novembre 2022 su Domani
Per chi suona la fisarmonica del Capo dello Stato @formichenews

Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare presidente del Consiglio e ministri. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Il commento di Gianfranco Pasquino Accademico dei Lincei e autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)
La fisarmonica (del Presidente della Repubblica) non è affatto, come ha perentoriamente scritto Carlo Fusi (28 agosto), un “funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto”. Al contrario, è una metafora delle modalità elastiche del funzionamento delle democrazie parlamentari che consentono di analizzare, capire, spiegare al meglio il ruolo del Presidente della Repubblica italiana ieri, oggi e, se non sarà travolto dal pasticciaccio brutto del presidenzialismo diversamente inteso dal trio Meloni-Salvini-Berlusconi, domani.
In sintesi, definiti dalla Costituzione, dalla quale non è mai lecito prescindere, i poteri del Presidente della Repubblica italiana, l’esercizio di quei poteri dipende dai rapporti di forza fra i partiti in Parlamento e il Presidente, la sua storia, il suo prestigio, la sua competenza. Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare Presidente del Consiglio e ministro. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Se ci saranno i numeri, ovvero una maggioranza assoluta FdI, Lega e FI, dovranno essere Salvini e Berlusconi a fare il nome di Meloni a Mattarella, aggiungendo che non accetteranno nessuna alternativa.
Certo, il Presidente chiederà qualche garanzia europeista, ma non potrà opporsi al nome. “Crisi di sistema in atto”? O, piuttosto, funzionamento da manuale di una democrazia parlamentare nella quale il governo nasce in Parlamento e viene riconosciuto e battezzato dal Presidente? Verrà anche sostenuto dalla .sua maggioranza parlamentare e sarò operativo quanto il suo programma e i suoi partiti vorranno e i suoi ministri sapranno. Quel che dovrebbe essere eclatante è la constatazione che nessun presidenzialismo di stampo (latino) americano offre flessibilità. Anzi, i rapporti Presidente/Congresso sono rigidi. Il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso che, a sua volta, non può sfiduciare e sostituire il Presidente. Nel passato, spesso, l’uscita dallo stallo era un golpe militare.
Nessuna legge elettorale, nemmeno l’apprezzatissima Legge Rosato, può rendere elastico il funzionamento del presidenzialismo che, come abbiamo visto con Trump, ha evidenziato molti degli elementi più eclatanti di una crisi di sistema. Altro sarebbe il discorso sul semipresidenzialismo, da fare appena i proponenti ne chiariranno i termini e accenneranno ad una legge elettorale appropriata. Nel frattempo, sono fiducioso che in vista del post-25 settembre il Presidente Mattarella stia diligentemente raccogliendo tutti gli spartiti disponibili e facendo con impegno e solerzia tutti i solfeggi indispensabili per suonare al meglio la sua fisarmonica. Altri saranno i cacofoni.
Pubblicato il 30 agosto 2022 su Formiche.net
Chi viene eletto al Colle non è padrone né notaio @fattoquotidiano

Sento acuta (sic) l’esigenza di passare dal toto nomi presidenziali al toto qualità. Non intendo in nessun modo limitarmi alle qualità che si attaglino al mio presidente preferito (che ho), ma sono convinto che il toto qualità è l’esercizio più fecondo. Bisogna saperlo fare magari non partendo con il piede sbagliato. No, non è vero che, come scrive Galli della Loggia, “i Padri costituenti commisero l’errore di attribuire [al Presidente della Repubblica] tali e tanti poteri da rendere comunque possibile la trasformazione di quella figura … da notaio del sistema politico a suo padrone di fatto”. Né l’uno né l’altro termine sono corretti e, fra l’altro, il loro uso significa non avere capito un bel niente della metafora della fisarmonica formulata da Giuliano Amato e da me, debbo proprio scriverlo, variamente e ulteriormente elaborata e precisata. Quella metafora sta appunto ad indicare che il Presidente non è mai definito e congelato né come notaio né, meno che mai, come “padrone di fatto” del sistema politico.
Quando si accinsero a scrivere gli articoli relativi alla Presidenza della Repubblica, fin da subito i Costituenti si resero conto che non avevano modelli democratici da imitare. Molte democrazie parlamentari erano monarchie. Escluso il presidenzialismo USA, non era neppure il caso di guardare alla Repubblica di Weimar. Rimaneva la Quarta Repubblica francese (Costituzione prima bocciata, poi, ottobre 1946, approvata in un referendum, à la minorité des faveurs (astenuti e contrari più numerosi dei favorevoli), come dichiarò tanto ruvidamente quanto efficacemente il gen. De Gaulle che, lo abbiamo imparato, aveva un’altra idea/progetto di Repubblica). Meglio, decisero i Costituenti, innovare e riuscirono, con virtù e fortuna, a dare vita ad una figura dotata di poteri flessibili, ma, in buona misura, controbilanciati. Su un punto misero subito in chiaro, direi imperiosamente, che il Presidente “rappresenta l’unità nazionale”.
La batteria di poteri istituzionali e politici di cui, consapevolmente e non sbagliando, dotarono il Presidente derivano in parte dai poteri che aveva il monarca in parte da quelli indispensabili al buon funzionamento di una democrazia parlamentare. Non sono affatto poteri assoluti e svincolati. Il Presidente nomina il Presidente del Consiglio, ma sappiamo (e quel che più conta lo sa lui) che deve tenere in grandissimo conto la necessità che quel Presidente del Consiglio ottenga la fiducia delle due Camere. Il Presidente scioglie (ma anche no) il Parlamento quando, “sentiti” i Presidenti delle Camere, ha acquisito la convinzione che quel Parlamento non è (più) in grado di esprimere e sostenere un governo operativo. Qui debbo subito aggiungere che è del tutto raccomandabile che i parlamentari chiamati ad eleggere il Presidente tengano in grande considerazione l’autorevolezza, la competenza e l’affidabilità personale, politica e istituzionale di chi intendono votare.
Tanto nel rappresentare l’unità nazionale (quindi mostrarsi orgogliosamente patriota) quanto, ancor più, nello scegliere il capo del governo e nello sciogliere o no il Parlamento, il Presidente avrà maggiore o minore autonomia a seconda della forza dei partiti e del sistema dei partiti. Potrà, cioè, aprire e suonare la fisarmonica come e quanto preferisce oppure dovrà tenerla chiusa e riporla. Basterà un solo esempio. Se i segretari di alcuni partiti hanno formato una coalizione che ha la maggioranza in Parlamento e si sono accordati sul nome del Presidente del Consiglio, il Presidente ne prenderà atto, ma se gli offrono una rosa di nomi avrà la possibilità di scegliere. Se i partiti non sanno dar vita ad una coalizione di governo, il Presidente potrà, all’insegna della stabilità politica, suggerire, indicare, adoperarsi per una soluzione suonando la fisarmonica alla sua massima estensione. Non diventerà comunque “il padrone di fatto” del sistema politico. Rimarrà un protagonista che opera in nome dell’unità nazionale, che sfrutta al massimo la flessibilità istituzionale che è in tutte le democrazie parlamentari il loro massimo pregio.
La metafora della fisarmonica spiega come e entro quali limiti quel pregio può, anzi, deve manifestarsi e tradursi in realtà “effettuale” (Machiavelli). Ne concludo che i parlamentari che si accingono a votare il prossimo Presidente dovrebbero basare il loro voto anche su una difficile, ma significativa valutazione: “il/la presidenziabile ha le competenze e il carattere per fare il miglior uso della fisarmonica dei suoi poteri costituzionali, per suonarla nella maniera più efficace, politicamente e democraticamente armoniosa?” Quell’armonia dipende oggi anche dai rapporti con coloro che agiscono a livello europeo mettendo a buon frutto la condivisione delle sovranità nazionali come qualsiasi patriota colto sa e vorrebbe fare.
Pubblicato il 6 gennaio 20221 su Il Fatto Quotidiano
La storia di B. racconta ciò che è: un tipo “unfit” @fattoquotidiano

“Berlusconi può essere molto generoso” mi disse venticinque anni fa senza aggiungere nessun commento un deputato di sinistra. Qualche anno dopo il sen. De Gregorio, trovato colpevole di avere ricevuto 3 milioni di Euro per cambiare voto e casacca, costituì la prova definitiva della generosità di Berlusconi. Ho cercato in molti testi, Costituzione italiana compresa, se la generosità rientri fra i criteri ritenuti importanti, praticati e da praticare, per essere considerati presidenziabili. Pare proprio di no. Poiché la Presidenza della Repubblica è sicuramente una “funzione pubblica” i suoi compiti dovrebbero essere adempiuti, come sancisce l’art. 54 della Costituzione “con disciplina e onore”. I precedenti di Berlusconi al governo e la sua condanna definitiva per frode fiscale non sembrano rassicuranti. Molti ricordano anche che, allora Presidente del Consiglio, Berlusconi affermò che se le tasse sono molte e alte è un dovere morale non pagarle. Fra le qualità che ne giustificano la candidatura, Berlusconi i suoi sostenitori, ad eccezione di Giorgia Meloni che quelle qualità non ha e non le può proprio apprezzare, da qualche tempo recitano, attribuendole anche a Forza Italia: liberale, cattolico, garantista, europeista. Non intendo discutere del cattolicesimo di Berlusconi, qualità irrilevante per ascendere al Quirinale e oramai poco importante anche per ottenere i voti degli elettori. Mi stupisce, però, che nei mass media le qualità berlusconiane non siano mai discusse e valutate. Il garantismo, non soltanto berlusconiano, sembra consistere in Italia nell’attaccare regolarmente i magistrati, specie quelli che indagano sui comportamenti dei politici. Nel passato, alcuni “garantisti” hanno anche garantito mazzette di denaro a giudici impegnati in processi che li riguardavano.
Credo che le qualifiche europeista e liberale meritino la massima attenzione poiché riguardano in maniera molto significativa sia il funzionamento della democrazia italiana sia il ruolo e i compiti del Presidente della Repubblica. L’unica prova a sostegno del suo europeismo è costituita dall’essere Forza Italia una componente del Partito Popolare Europeo. Chi trovasse affermazioni di Berlusconi che contengano una visione europeista, indicazioni intese a procedere nell’unificazione politica dell’Europa, prese di posizione su tematiche importanti farebbe un vero scoop. Molti ricordano ad un meeting dei capi di governo dell’Unione Europea Berlusconi al telefonino fare segno a Angela Merkel di aspettare e allontanarsi. Altri hanno negli occhi la foto di rito di un vertice nel quale Berlusconi fa il gesto delle corna come uno scolaretto impertinente. L’europeismo folkloristico non è appropriato ad un Presidente della Repubblica italiana. Va assolutamente a scapito della credibilità e affidabilità dell’Italia.
La carriera politica di Berlusconi, che secondo i suoi sostenitori merita di essere premiata con la più alta carica istituzionale, si è svolta con un altissimo tasso di conflittualità tanto da rendere Berlusconi un candidato sicuramente divisivo, chiaramente inadeguato a rappresentare “l’unità nazionale” (art. 87). Gli stessi aedi del bipolarismo come modalità preferibile di competizione politica non possono negare che, anche a causa dell’interpretazione che ne dava Berlusconi, quel bipolarismo veniva spesso definito feroce. Nelle parole di Cesare Previti, ascoltato avvocato e amico, non bisognava “fare prigionieri”, l’avversario doveva essere eliminato. Sono anni che più o meno prestigiosi commentatori lamentano che Berlusconi non è riuscito a portare a compimento la rivoluzione liberale che aveva promesso scendendo in campo (e facendo diventare parlamentari cinque professori “liberali”). Quanto al rispetto per il Parlamento luogo centrale di una politica che voglia essere liberale, come da tempo ha insegnato Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, per Berlusconi la rappresentanza politica e la governabilità sarebbero (state) meglio garantite se votano i soli capigruppo, ciascuno contando per tutti i parlamentari del suo gruppo.
Di tanto tanto ingenuamente mi chiedo come qualcuno abbia potuto credere anche per un solo momento che il duopolista televisivo, immobiliarista e proprietario di cliniche, società di assicurazioni, case editrici e quant’altro, fosse interessato a lanciare una qualsivoglia rivoluzione liberale. D’altronde, non ha mai avuto la minima intenzione di risolvere il suo monumentale conflitto di interessi che tutti i liberali riterrebbero inevitabilmente un ostacolo insormontabile per l’ascesa ad una carica pubblica. Credo sia giunto il momento di dire alto e forte che Silvio Berlusconi è del tutto inadatto (unfit con il memorabile aggettivo usato dall’Economist per Berlusconi capo del governo) a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica italiana.
Pubblicato il 18 dicembre 2021 su Il Fatto Quotidiano
Basta bugie, il semestre bianco resta utilissimo @fattoquotidiano

Affannatissimi retroscenisti e editorialisti dello stivale si sono buttati sul semestre bianco. Hanno anche interpellato alcuni giuristi rimasti disoccupati dopo la sconfitta del referendum del saggio di Rignano. Le loro posizioni, però, non paiono né sufficientemente informate né convincenti. Sono anche prive di qualsiasi originalità. Il fatto che nessuno dei Presidenti della Repubblica abbia formalmente esplicitato il suo desiderio di essere rieletto e sia stato tentato dallo scioglimento anticipato del Parlamento nei suoi ultimi sei mesi di mandato, non rende in nessun modo inutile, superflua, sorpassata la disposizione costituzionale che glielo vieta. Peraltro, non è affatto vero che nel semestre bianco ne sono accadute di tutti i colori. In generale, le maggioranze di governo hanno tenuto. I partiti non hanno creato nessun caos politico e istituzionale. I Presidenti, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, non hanno dovuto risolvere nessun problema aggiuntivo. Il punto è che è sostanzialmente sbagliato pensare che il Presidente della Repubblica goda di un illimitato potere di scioglimento. Quando hanno proceduto a chiudere prematuramente la legislatura, i Presidenti non lo hanno mai fatto contro il Parlamento e contro i partiti, ma con l’accordo dei partiti che erano giunti alla conclusione, essendone peraltro parte in causa, che quel Parlamento non funzionava più.
Curiosamente o no, i cosiddetti quirinalisti e troppi altri presunti esperti dimenticano che: i) i Presidenti della Repubblica italiana si sono storicamente dati il compito preminente di agire come stabilizzatori del quadro politico, cercando sempre l’esistenza di una maggioranza di governo operativa e ii) che il loro vero potere è stato proprio quello di negare lo scioglimento anticipato a coloro che speravano di trarne vantaggi politici. Scalfaro disse “no” al Berlusconi furioso per il “tradimento” della Lega nel dicembre 1994. Poi, del tutto coerentemente, oppose un netto rifiuto al Prodi sfiduciato dal Bertinotti di Rifondazione Comunista nell’ottobre 1998. Flebile, ma reale, fu la richiesta dei berlusconiani nel novembre 2011 alla quale Napolitano oppose l’esistenza di una maggioranza operativa in un Parlamento che quindi non meritava e non doveva essere sciolto. Certamente nessuno oggi potrebbe pensare neanche per un momento che Mattarella, avendo espresso chiaramente la sua volontà di non rielezione, avrebbe avuto la tentazione di sciogliere il Parlamento, nella speranza che il prossimo si orienterebbe verso altre candidature lasciandolo libero.
Il punto vero, pertanto, è che la preoccupazione dei costituenti ha un fondamento di natura istituzionale duratura. Senza il semestre bianco, la tentazione del Presidente, ma soprattutto dei suoi sostenitori e collaboratori, potrebbe essere grande: “”Cari parlamentari, so che non volete rieleggermi, allora vi sciolgo. I sondaggi dicono che probabilmente i vostri successori saranno più malleabili”. Per mettere tutti i Presidenti al riparo da quella tentazione e per non esporli a troppe pressioni interessatissime, la clausola del semestre bianco si merita di rimanere nella Costituzione italiana.
Al contrario della tesi, meglio dell’allarmata ipotesi che i partiti daranno il peggio di se stessi sapendo che i loro parlamentari non possono essere mandati a casa, non sembra proprio che nella fase attuale (ma, in verità, neppure nei precedenti semestri bianchi), vi siano progetti e orientamenti per indebolire il governo Draghi, meno che mai per sfiduciarlo. Peraltro, alla improbabile sfiducia, farebbe seguito l’ostracismo immediato nei confronti degli sfiducianti che perderebbero le cariche ministeriali e ne seguirebbe inevitabilmente la formazione di un nuovo governo, anche eventualmente di minoranza fino all’elezione del prossimo Presidente.
Al momento, mi sembra che i dirigenti dei partiti e i loro rappresentanti nel governo non vogliano proprio darsi la zappa sui piedi e siano molto più consapevoli dei commentatori che il semestre bianco debba e possa essere messo a buon frutto: continuare nelle riforme anche con l’impiego dei fondi europei che stanno arrivando e attivarsi per individuare un buon successore/successora di Mattarella. Sono compiti importanti che, per di più, influenzeranno la politica italiana per molto tempo a venire. Suggerisco che dovremmo vedere il semestre bianco come una opportunità di bilancio del fatto, non fatto, fatto male, come una opportunità di valutazione e di correzione, come una pausa di riflessione e di elaborazione. “Chi ha più filo tesserà più tela” nella aspettativa che il tessitore massimo dal Quirinale sappia dare il suo autorevole contributo.
Pubblicato il 5 agosto 2021 su Il Fatto Quotidiano
Quer pasticciaccio brutto sul MES
Nei pre-annunci di voto sulla riforma del Meccanismo Economico di Stabilità, gli attori (sì, uso proprio questa parola per dare il senso di uno spettacolo) politici italiani stanno, con qualche eccezione, dando il peggio di sé. In alcuni, a cominciare da Berlusconi e da diversi parlamentari pentastellati, c’è tattica: dimostrare che esistono. Ottenuto quel che voleva per Mediaset, mai convintamente europeista, Berlusconi ha preferito ricongiungersi ai sovranisti coerenti Salvini e Meloni dicendo no al MES riformato. Poiché è (im)pura tattica, probabilmente Berlusconi riluciderà la sua immagine ribadendo il suo sostegno al MES solo per spese sanitarie dirette e indirette. La tattica dei dissidenti pentastellati serve a evidenziare che, pur non essendo pochi, non hanno ottenuto cariche significative nel Movimento. Oltre, verso una strategia non sanno e non possono andare. L’unico che ha una strategia è il Presidente del Consiglio che gode anche del sostegno delle riconosciute qualità di autorevolezza e credibilità in Europa del Ministro dell’Economia Gualtieri. La rotta è quella dell’Europa. Bisogna tenere la barra diritta. Lasciare che gli oltranzisti si sfoghino tanto non hanno nessuna alternativa praticabile. Una rottura sull’Europa non sarebbe affatto apprezzata dal Presidente della Repubblica. Dietro l’angolo, piuttosto spigoloso, non c’è nessuna maggioranza, nessuna prospettiva. Le posizioni ideologiche pentastellate non contengono una visione strategica. Sono imbarazzanti e paralizzanti.
Infine, c’è la drammatica perdita di memoria persino riguardo ad avvenimenti recentissimi. Qualcuno, anzi, molti, nell’Amministrazione pubblica e nelle numerose, forse troppo, squadre apposite messe al lavoro da Conte (e sperabilmente coordinate da lui e da pochissimi collaboratori) è al difficile lavoro di preparare piani operativi per investire gli ingenti fondi, 209 miliardi di Euro, più di qualsiasi altro Stato-membro dell’Unione Europea, in parte prestiti, in parte molto consistente sussidi, assegnati all’Italia. Sembra assurdo che nessuno dei contendenti italiani che obietta alla riforma del MES si renda conto che tanto la posizione di rifiuto quanto le motivazioni, a mio parere, molto peregrine (che l’UE voglia asservire la nostra economia, mentre, al contrario, cerca di salvarla e di rivitalizzarla) sono destinate a essere viste con grande preoccupazione. Per di più sono proprio i due attori, Berlusconi e il Movimento 5 Stelle, nei quali già in partenza le autorità europee hanno fiducia molto relativa, a mettersi di traverso. In questo modo, però, più o meno consapevolmente viene danneggiata la credibilità, non tanto del governo Conte, ma, usando il politichese, del “sistema paese”. Al momento della valutazione dei progetti italiani non saranno soltanto i paesi autodefinitisi frugali a esercitare un surplus di attenzione e di rigore, ma un po’ tutti coloro che udendo lo strepito italiano penseranno che l’Italia non riuscirà a fare quello che ha promesso. Tristemente.
Pubblicato AGL 4 dicembre 2020
La democrazia imperfetta #Recensione Minima Politica @UtetLibri su @lasiciliait
Il libro. ”Minima politica” di Gianfranco Pasquino analizza conoscenze politiche che dovrebbero avere tutti i cittadini. La recensione di Paolo fai
«Laddove le persone hanno poco potere sulla politica e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico»
Gianfranco Pasquino, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, ha da poco licenziato alle stampe un libro «Minima politica – Sei lezioni di democrazia», Utet 2019, pp. 175, euro 14,00, il cui titolo – spiega Pasquino – «intende essere il mio modesto omaggio a Theodor Adorno, “Minima moralia” (1951) […], nel convincimento che per arrivare a grandi cose bisogna cominciare dalle piccole cose, impararle e farle il meglio possibile. “Minima politica” contiene, analizza e, spero, illumina il minimo di conoscenze politiche che i cittadini dovrebbero acquisire se desiderano adempiere efficacemente ai loro doveri civili e democratici».
Innervato di rigore scientifico e insieme meritoriamente divulgativo, il libro attraverso sei sezioni (Leggi elettorali, Rappresentanza politica, Presidenti della Repubblica, Deficit democratico, Governabilità, Non liberali, non democrazie) offre al lettore un’analisi, chiara e puntuale, delle problematiche attinenti al funzionamento della forma di governo, la democrazia, in cui, quanto meno per forza di etimologia, il popolo, ovvero la comunità degli individui-cittadini, è il detentore del potere politico.
Intanto, Pasquino non è tra i politologi che cantano la messa funebre alla democrazia. Né è pessimista sul futuro della democrazia. Perché, alle lamentazioni degli apocalittici, per i quali «alle democrazie manca sempre qualcosa», egli ribatte che «le democrazie sono imperfette ed è giusto così. Forse è persino meglio così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello che manca, spesso trovandolo».
Allora, dovendo scegliere fior da fiore, troveremo che a Pasquino «pare che, in maniera più appropriata, il deficit democratico meriti di essere riferito al potere dei cittadini, etimologicamente: deficit di potere del popolo. Laddove i cittadini hanno poco potere sulla politica e sui politici e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico». Spesso, tale deficit si avverte quando vanno al potere governi neoconservatori (Tatcher, Reagan, ma anche Trump, che per Pasquino non ha «la benché minima infarinatura di liberalismo»), il cui obiettivo è «comprimere la partecipazione politica, scoraggiare i movimenti collettivi, disincentivare la mobilitazione sociale e reprimerla», al fine di ridurre il “sovraccarico” ovvero «l’accumularsi di un numero eccessivo di domande» da parte dei cittadini, che, secondo Richard Rose, sarebbe la causa della crisi di governabilità.
Il libro si apre e si chiude, ad anello, con due capitoli che si illuminano l’un l’altro: “Leggi elettorali” e “Non liberali, non democrazie”. Le democrazie si fondano sul voto dei cittadini. Ne consegue che «il rapporto tra elettori, da un lato, e rappresentanti e governanti, dall’altro, è accertatamente influenzato dalla legge elettorale che viene utilizzata». Pasquino classifica le riforme elettorali in “partigiane” e “sistemiche”. Fu sistemica quella elaborata nel 1946 dalla Costituente, che riguardava il funzionamento del sistema politico. Tutte quelle venute dopo sono state partigiane, compresa la cosiddetta “schiforma” Renzi-Boschi, su cui Pasquino, caustico, osserva: «Che la stabilità del governo […] dovesse essere affidata al premio di maggioranza ricorda la legge truffa [del 1953], la riabilita e la redime».
Se vengono meno, sostiene con forza Pasquino, i capisaldi delle democrazie liberali moderne, cioè, «da un lato, il riconoscimento, la protezione, la promozione dei diritti dei cittadini, delle persone, e, dall’altro, la separazione delle istituzioni e dei poteri», avremo solo «sistemi politici in cui si tengono elezioni intrinsecamente poco libere», quindi non liberali, non democrazie. Tra i fini di quelle pseudo-democrazie (la Turchia di Erdoğan e l’Ungheria di Orbán, ma anche la Russia di Putin), che Pasquino definisce “democrazie elettorali”, «non si trova praticamente mai quello di dar vita e senso alla “rule of law” (“governo della legge”), o (“stato di diritto), o “nomocrazia”), di tenere separate le istituzioni, di approntare freni e contrappesi, di creare canali e strutture di responsabilizzazione (“accountability”) dei governanti e dei rappresentanti. Questo è il catalogo al quale debbono attingere coloro che vogliono costruire uno stato, una democrazia compiutamente liberale». Da solo, però, il “governo della legge” non basta. Occorre anche una libera stampa e, principalmente, una forte consapevolezza politica nei cittadini. «Le (non) democrazie illiberali –conclude Pasquino – si fondano su cittadini, più o meno consapevolmente, illiberali». E sul silenzio imposto agli oppositori e ai giornalisti. Come nel «caso, esemplarmente tragico, della giornalista Anna Politkovskaja».
Pubblicato il 25 Marzo 2020 sul quotidiano La Sicilia
Minima Politica @UtetLibri
È possibile avere buona rappresentanza politica con una pessima legge elettorale? Chi può credere che meno rappresentanza porti a più governabilità? Che non sia, piuttosto, un passo verso una democrazia illiberale? Fra i freni e i contrappesi che producono equilibri liberal-democratici in Italia svolge un ruolo importante il Presidente della Repubblica? Le risposte esaurienti a questi legittimi interrogativi costituiscono cognizioni minime indispensabili per capire la politica e agire di conseguenza.
La Repubblica italiana, sorta dalle macerie della guerra e inserita da subito nel tessuto politico della tradizione democratica europea, vive momenti di grande confusione. Guerre di visualizzazioni e like su Facebook, baruffe senza costrutto nei talk show, scenette tragicomiche nelle austere aule di Senato e Camera. A questo ircocervo tra reality show e vaudeville siamo talmente assuefatti che ci sembra l’unico orizzonte possibile.
La ragione sta nell’ignoranza diffusa e persino compiaciuta che pare essersi impossessata del discorso corrente. Tra l’ansia da sondaggio e il termometro ossessivo dei social network, viviamo un assetto da campagna elettorale permanente dove i politici possono dire tutto e il contrario di tutto, fiduciosi nella labile memoria storica del loro elettorato e nell’inerzia intellettuale dell’opinione pubblica che dovrebbe sorvegliare e in caso criticare.
Però, chi ancora crede nella democrazia sa che è imperativo reagire all’attuale temperie di approssimazione, fumisteria e populismo. Che è necessario impegnarsi per pulire il linguaggio, per fare uso corretto dei concetti fondamentali, per comunicare insegnando e imparando, giorno dopo giorno.
Con il cuore e la testa ai Minima moralia di Theodor Adorno, Gianfranco Pasquino impartisce sei nitide, ironiche, affilate lezioni sui nodi cruciali della politica contemporanea: i meccanismi elettorali, gli speculari spettri di governabilità e rappresentanza, il ruolo e i compiti delle istituzioni nella complessa architettura della democrazia, lo spauracchio degli eurocrati e il mito del sovranismo.
Ripercorrendo la nostra complicata storia nazionale, ma attingendo dove serve anche agli esempi europei e internazionali, Minima politica racchiude e sprigiona il minimo di conoscenze che i cittadini devono acquisire per capire gli accadimenti politici e partecipare ogni giorno alla vita di questo confuso e malgovernato Paese.
Chi rompe deve pagare
Il Coronavirus è lungi dall’essere debellato. Continua a contagiare e mietere vittime. Sta, forse, per estendersi in luoghi finora non affetti. Il suo impatto sull’economia cinese è già stimato ingente, non solo in termini di riduzione di almeno un punto del Prodotto Interno Lordo, ma anche di scambi commerciali e turistici con il resto del mondo. Date le dimensioni economiche oramai conseguite dalla Cina, un po’ tutti i sistemi economici subiranno conseguenze negative. Da tempo in sostanziale stagnazione, l’economia italiana subirà, sta già conteggiando, notevoli perdite dalle mancate esportazioni. L’Italia è alle soglie di una probabile recessione senza che la politica ne avverta la gravità e si prepari a misure straordinarie.
Sicuramente, è importante discutere della prescrizione che attiene ai diritti dei cittadini, dei decreti sicurezza che dovrebbero per l’appunto rassicurare i cittadini, le loro vite, la loro libertà, le loro proprietà. Però, non concentrare l’attenzione sul rilancio dell’economia e della sua crescita che, creando posti di lavoro, avrebbe conseguenze benefiche sulla vita quotidiana delle famiglie italiane è molto più che un grave errore. Invece, il dibattito pubblico è quasi sostanzialmente monopolizzato dalla minaccia quotidiana di Renzi e di Italia Viva rivolta al governo Conte. Più precisamente, Renzi afferma di non volere elezioni anticipate, ma curiosamente dice di non temerle pur non avendo attualmente i voti necessari a superare la clausola di ingresso nel prossimo parlamento. Vuole la sostituzione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Nessun governo Conte 3, ma un altro governo, non è chiaro composto e guidato da chi, è la richiesta di Matteo Renzi.
In un Parlamento che, se il taglio dei parlamentari non sarà sconfitto nel referendum costituzionale del 29 marzo, perderà un terzo dei suoi componenti, sono molti coloro che vanno in cerca di un riposizionamento promettente. Ha senso criticarne le modalità, ma non le intenzioni. Sullo sfondo si staglia il classico pericolo/spauracchio dell’economia italiana: l’impennata dello spread che seguirà subito qualsiasi segnale di instabilità governativa. Sono proprio le reciproche accuse, le malposte ambizioni, le ripicche e i personalismi che aprono una prateria all’instabilità del governo e alla sua inevitabile impossibilità di prendere decisioni. Altrove, qualsiasi buon amministratore avvertirebbe tutti i suoi collaboratori degli ingenti costi di un dibattito malevolo, centrato sulle persone e non orientato a soluzioni operative. Potendo cercherebbe di disarmare i responsabili dei danni. Forse è giunto il momento che dal colle del Quirinale il Presidente della Repubblica faccia sapere solennemente e “costituzionalmente” a tutti gli inquilini pro tempore di Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama che non è (mai) sufficiente l’esistenza di una maggioranza numerica che non sappia dimostrarsi operativa. La pazienza “presidenzial-costituzionale” non è infinita.
Pubblicato AGL il 19 febbraio 2020
Triangolo virtuoso. Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica. Imparare e non dimenticare #CrisiDiGoverno
1 Non possiamo che rallegrarci che, finalmente, politici e commentatori abbiano scoperto che l’Italia è una Repubblica parlamentare (meglio, democrazia parlamentare). Che, però, pensino che tutto il potere stia nel Parlamento è sbagliato. In democrazia, mai nessuno ha “pieni poteri”. Quanto alle istituzioni, il potere sta nel triangolo virtuoso Parlamento-Governo-Presidenza della Repubblica, nella loro assunzione di responsabilità e nel loro controllo reciproco.
2 Nessun parlamento è onnipotente anche se lì si esprime principalmente la sovranità popolare, meglio se con una legge elettorale meno indecente della Legge Rosato. In Parlamento nascono, si trasformano, muoiono e si (ri)formano i governi. Però, un buon Parlamento fa molte altre cose. E’ luogo di rappresentanza e conciliazione di interessi (lascio il gergo riprovevole a chi comunque non conosce l’abc del parlamentarismo); è luogo di espressione delle opposizioni e di produzione delle decisioni. Soprattutto, è fonte insostituibile di informazioni e conoscenze per gli elettori che desiderino votare in maniera efficace, a ragion veduta.
3* Il problema non è mai, come hanno scritto opportunamente alcuni autorevoli scienziati della politica, se saremo governati, ma, sempre, come saremo governati. Detto che in Italia un governo esiste solo se ha ottenuto “la fiducia delle due Camere”, le aggettivazioni aggiuntive sono quasi tutte improprie. Governo di scopo, di decantazione, del Presidente, et al, addirittura di legislatura (obiettivo che tutti i governi dovrebbero sempre porsi) significano poco o nulla. Quello che conta, anche con riferimento alla situazione italiana attuale, è, non per quanto tempo, ma come il governo che nasce saprà governare(rci).
*A causa di un problema tecnico la registrazione si è interrotta bruscamente, un po’ come l’esperienza del governo giallo-verde. Noi rimedieremo. Loro, meglio di no.