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Conte fa bene a tacere. Invece, che dice Draghi? @fattoquotidiano
La riduzione del numero dei parlamentari è stata approvata da maggioranze molto ampie sia per convinzione sia per opportunismo. Se verrà confermata dal referendum, dovrà essere giustamente interpretata come una vittoria dei Cinque Stelle (meglio senza balli da balconi). Se gli elettori la casseranno non sarà una sconfitta del governo giallo-rosso e neppure una delegittimazione del Parlamento in quanto tale, ma un segno di sfiducia nei parlamentari che quella riforma votarono senza torcersi il collo. Che il Presidente del Consiglio Conte non si esprima né in un modo né nell’altro è un segno di rispetto della decisione del Parlamento. La riduzione non è una riforma del governo. Anzi, in generale, le riforme costituzionali dovrebbero sempre essere ascritte al Parlamento. Quando le fa e le impone un governo ne seguono distorsioni partigiane, come per la riforma a opera della maggioranza di centro destra nel 2005 e come per il quasi plebiscitarismo di Matteo Renzi nel 2016. Conte ha, non il diritto, ma la facoltà di non impegnare nel voto referendario né se stesso né la sua maggioranza. La controprova è che se si esprimesse ne conseguirebbero critiche immediate e copiose sulla sua, ovviamente definita grave, ingerenza. Qualsiasi riforma della Costituzione riguarda tanto i legittimi rappresentanti del “popolo” quanto gli elettori i quali, grazie alla saggezza dei Costituenti che, non reputando infallibili e impeccabili i parlamentari, formularono l’articolo 138 che disciplina il referendum costituzionale. Avete un bel chiamarlo “confermativo”, aggettivo che non si trova nella Costituzione. L’esito potrà anche essere tale, ma più correttamente questo tipo di referendum meriterebbe l’aggettivo “oppositivo”. La riforma c’è. Si mobiliti e vada a votare, non c’è quorum, chi a quella riforma si oppone.
Tuttavia, Conte non può stare tranquillo. Anzi, sostengono tutti coloro che lo hanno accusato di iperpresidenzialismo e di volere inaugurare una deriva autoritaria, neppure doveva andare in vacanza. Certo, dovrebbe esprimersi un po’ su tutto, a cominciare dalla scuola e dai trasporti. Noi sappiamo che con qualche sua dichiarazione tempestiva avrebbe potuto impedire il Covid-19 nelle discoteche, a cominciare da quella che ci sta più a cuore: il Billionaire. Adesso, Conte è giustamente in declino di popolarità. Secondo Diamanti, che dovrebbe essere un po’ più raffinato nell’interpretazione, Conte è in picchiata, sceso da 65 (quota inusitata per i Presidenti del Consiglio italiani) a 60 punti di approvazione. Se non sente sul collo il fiato di Mario Draghi, giunto addirittura a 53 punti, glielo dicono i giornalisti. Quelli bravi, fra i giornalisti, aggiungono subito che oramai è quasi fatta: Conte sarà presto sostituito proprio dal Draghi. Qualcuno, specie fra gli studiosi di comunicazione, potrebbe fare notare che la popolarità di Draghi è rimbalzata, non tanto dopo il suo discorso al Meeting di Rimini (dove di discorsi di alto livello se ne sono ascoltati davvero pochi) quanto dalla eco che, in mancanza di meglio o semplicemente di altro, gli hanno dato i mass media.
All‘insegna del “farò soltanto debito buono” oppure citando un famoso proverbio di Francoforte “il debito buono caccia il debito cattivo”, SuperissimoMario si scalda dietro le quinte pronto a formare un governo? Come? Innestato sull’attuale maggioranza che dà il benservito a Conte, il più efficace punto di equilibrio fra i gialli e i rossicci (e fra l’Italia e l’Unione Europea)? Oppure dando vita nell’attuale parlamento ad un governo di unità nazionale che cozza contro tutte le, pur sbagliate, critiche del centro-destra che stigmatizza i governi “non votati dal popolo”? Comprensibilmente, Meloni si chiamerebbe subito fuori per granitica coerenza, per lucrare sulla inevitabile e giusta rendita di opposizione e per (ri)lanciare in suo non meglio precisato presidenzialismo. Nel frattempo, però, poiché il gossip domenicale non si ferma qui, è chiaro che da Mario Draghi vorremmo sapere non soltanto come investire nel Mezzogiorno, promuovere le donne, preparare un futuro migliore per i giovani (praticamente i punti deboli del consenso elettorale che il PCI sottolineava regolarmente), ma, soprattutto, come voterà al referendum costituzionale. Insomma, sarà anche bravo Draghi, ma il test, la cartina di tornasole è che lui dice sì o no, mentre il Conte tace. O tempora o mores.
Pubblicato il 1° settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano
Polveroni proporzional-maggioritari #LeggeElettorale
Scrivere una legge elettorale in attesa di un referendum quindi senza sapere quanti saranno i parlamentari da eleggere non è un’operazione saggia. Che la saggezza sia assente dal dibattito politico sul tipo di legge da scrivere è provato dalle affermazioni dei protagonisti politici. C’è chi vuole il “ritorno” alla proporzionale e chi lo ritiene un errore gravissimo. Però, la legge vigente, di cui fu relatore l’on. Rosato, oggi in Italia Viva, è già oggi due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria. Quanto al testo in discussione non è, comunque, “la” temutissima “proporzionale pura” poiché prevede una soglia del 5 per cento di voti per avere accesso al Parlamento. Comprensibilmente, tanto Italia Viva quanto Leu (liberi e Uguali), ai quali i sondaggi impietosi attribuiscono rispettivamente all’incirca tre e meno di due per cento delle intenzioni di voto vorrebbero una soglia più bassa. Dal canto suo, Salvini si dichiara sbrigativamente a favore del maggioritario (sul quale Meloni non si esprime), ma non chiarisce quale. Non sarebbe un chiarimento da poco poiché il maggioritario inglese e quello francese, entrambi applicati in collegi uninominali, dove i candidati vincono o perdono, funzionano in maniera molto diversa. Infatti, il doppio turno francese offre agli elettori la grande opportunità di usare due voti: al primo turno per la candidatura preferita, al secondo per la candidatura da fare vincere, la meno sgradita.
Dopo avere detto che per gli italiani la legge elettorale è l’ultima delle preoccupazioni, affermazione alquanto discutibile, Salvini annuncia che è favorevole a due riforme: presidenzialismo e federalismo, cioè, concretamente, che vorrebbe abbandonare la democrazia parlamentare. Il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, che non può permettersi di apparire un conservatore istituzionale, si dichiara “maggioritario” e propone la formula nota come “sindaco d’Italia”. Ma il sindaco d’Italia non è una legge elettorale. È una forma di governo di stampo sostanzialmente presidenziale poiché contiene l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, vale a dire il sindaco e il Primo Ministro. Non solo questo presidenzialismo mascherato richiederebbe la riscrittura di una manciata di articoli della costituzione italiana, ma, se disegnato seguendo il modello comunale, si basa su una legge proporzionale per l’elezione dei parlamentari, con un premio di maggioranza attribuito al capo, il sindaco o il Primo ministro, della coalizione vittoriosa. Curiosamente, nessuno si esprime in maniera limpida su due aspetti scandalosi della legge elettorale vigente: le candidature plurime e paracadutate, ovvero svincolate dalla residenza dei candidati. Sono gli strumenti con i quali i dirigenti dei partiti garantiscono l’elezione propria e dei loro più fedeli collaboratori/trici a scapito della rappresentanza politica che con il numero dei parlamentari ridotto di un terzo diventerà, a prescindere dalla formula elettorale, ancora meno soddisfacente.
Pubblicato AGL il 6 luglio 2020
Due e forse più cose che so sulle leggi elettorali @formichenews
Il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica e autore, tra gli altri testi, di “I sistemi elettorali”, (Il Mulino, 2006)
No, non chiedete di sapere tutto sui sistemi elettorali. Soprattutto non chiedetelo né ai sedicenti riformatori elettorali né ai loro consulenti. Limitatevi ad alcuni pochi punti. Primo, a chi vi dice che non esiste legge elettorale perfetta rispondete subito che quell’affermazione è banale e persino un po’ manipolatoria. Per di più, cela il fatto che esistono alcuni sistemi elettorali che funzionano meglio, molto meglio di altri. Guardatevi intorno. Leggete qualche libro, almeno qualche articolo. Secondo, ricordate che nelle democrazie parlamentari, in TUTTE le democrazie parlamentari, le leggi elettorali servono a eleggere un Parlamento, mai un governo. Il pregio delle democrazie parlamentari è la loro flessibilità proprio per quanto riguarda il governo. Nasce in Parlamento, si trasforma, cade, può essere ricostituito. Terzo, eleggere un parlamento è operazione diversa dall’eleggere un sindaco o un presidente di regione. Dimenticate lo slogan “sindaco d’Italia”. Chi vuole il presidenzialismo oppure il semipresidenzialismo lo argomenti e lo proponga. Poi, comunque, dovrà anche suggerire una legge elettorale decente.
Leggi decenti e talvolta, anche buone possono essere sia maggioritarie sia proporzionali. Qui: Tradurre voti in seggi in maniera informata, efficace e incisiva. Si può, si deve, Lezione n 1 del Video Corso Il racconto della politica, Casa della Cultura di Milano agosto 2018, segnalo gli elementi essenziali da conoscere. Il plurale è d’obbligo poiché esistono interessanti varianti sia delle leggi maggioritarie sia, ancor più, delle leggi proporzionali. Un punto, però, deve essere chiarito subito –mi piacerebbe scrivere per sempre, ma con i riformatori/manipolatori italiani nulla può mai darsi assodato e accertato per sempre: i premi di maggioranza di qualsiasi entità e comunque congegnati non consentono di definire maggioritaria quella legge elettorale. Semmai, bisognerebbe parlare di sistema misto a prevalenza proporzionale o maggioritaria.
Mi affretto ad aggiungere che il doppio turno di coalizione non soltanto è una proposta pasticciata e pasticciante, ma non ha praticamente nulla in comune con il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali di tipo francese. Il doppio turno chiuso ovvero riservato a due soli candidati si chiama ballottaggio. Il doppio turno “aperto” ha clausole che lo disciplinano e che consentono operazioni politiche brillanti fra le quali desistenze, che servono ad accordi di governo, e “insistenze” che misurano la forza di candidati e di partiti e che testimoniano qualcosa (non posso essere più preciso).
Last but not least, il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Quando, per di più, i candidati/le candidate sono paracadutati in liste bloccate e con la possibilità di essere presentati in più collegi, la rappresentanza politica (che, comunque, richiede un discorso più ampio che ricomprenderebbe il non-vincolo di mandato e il non-limite ai mandati) non sarà sicuramente buona. La coda è tutta italiana.
Come si fa a scrivere una legge elettorale senza sapere quanti rappresentanti dovranno essere eletti: 200 o 315 senatori; 400 o 630 deputati. Se il referendum chiesto dalla Lega portasse a un ripristino del numero attuale dei parlamentari, qualsiasi legge elettorale nel frattempo elaborata dovrebbe essere riscritta e non sarebbe un’operazione semplice. Fin qui le mie proteste. La proposta è che si scelga fra il maggioritario francese con pochissimi adattamenti e senza nessun “diritto” (?) di tribuna e la proporzionale personalizzata (si chiama così) tedesca senza nessun ritocco, meno che mai la riduzione della clausola nazionale del 5 per cento per accedere al Parlamento. Dunque, non finisce qui.
Pubblicato il 18 dicembre 2019 si formiche.net
Un punto di svolta che potrebbe cambiare la storia degli Stati Uniti
Avevamo sempre pensato che la legittimazione e la funzionalità delle istituzioni anglosassoni nascessero e derivassero da un principio limpido: checks and balances, ovvero freni e contrappesi. Adesso, tutti gli estimatori italiani del presidenzialismo USA dovrebbero essere preoccupatissimi. Con le dimissioni dell’ottantaduenne giudice Anthony Kennedy, al Presidente Trump si offre l’opportunità di dare alla Corte Suprema una maggioranza repubblicana di 6 giudici a 3 destinata a durare per più di una generazione. Presidente quasi repubblicano, Congresso a maggioranza repubblicana, Corte Suprema repubblicanizzata: bye bye, cari rassicuranti freni e contrappesi.
I feticci della riforma elettorale
Senza riforme presidenziali, le strade si riducono. Ma si semplificano
Chiunque voglia scrivere una buona legge elettorale in Italia oggi deve sconfiggere tre feticci espressi sotto forma di necessità assoluta di: 1. conoscere il vincitore la sera stessa delle elezioni; 2. produrre Il governo direttamente con il voto del popolo; 3. evitare la formazione di governi di coalizione.
Il fatto che questi feticci siano adorati in maniera diffusa e persino crescente non li rende accettabili. Quanto al primo feticcio, non è neppure chiaro che cosa significhi esattamente “conoscere il vincitore delle elezioni”. Forse chi ha avuto più voti? Chi ha vinto più seggi? Chi ha ottenuto il maggior incremento percentuale/numerico rispetto alle elezioni immediatamente precedenti? Ma, poi, è davvero questa la preoccupazione principale dell’elettorato? Probabilmente, no. Comunque, non esiste nessuna ricerca in materia, nessuna evidenza.
Il secondo feticcio è molto pericoloso per due ragioni. Da un lato, in nessuna democrazia parlamentare il popolo, gli elettori, i cittadini votano per il governo. In tutte le democrazie parlamentari, che sono democrazie rappresentative, i voti dei cittadini servono ad eleggere i loro rappresentanti al Parlamento. Contati i voti e i seggi, quei rappresentanti, che probabilmente conoscono le preferenze dei loro elettori e hanno molte informazioni sugli eletti degli altri partiti, cercheranno accordi programmatici per dare vita a un governo stabile, duraturo, efficace. Dall’altro lato, il feticcio “il popolo elegge il governo” legittima e incoraggia la critica populista, antiparlamentare, e nega ai rappresentanti qualsiasi spazio di manovra.
Il terzo feticcio “evitare i governi di coalizione” è, per quel che riguarda le democrazie parlamentari, fattualmente sbagliato e non esiste post-verità che lo renda nemmeno plausibile. Agitando quel feticcio si oscurano due elementi importantissimi per tutti coloro che hanno a cuore la governabilità, non come arma propagandistica, ma come esito. I governi di coalizione sono maggiormente rappresentativi dell’elettorato, delle sue preferenze e dei suoi interessi. Sono anche più “moderati”, vale a dire che nessuno dei partiti potrà tradurre in politiche pubbliche le sue promesse più estreme, spesso fatte soltanto per conquistare un pugno di voti in più, ma tutti i partiti dovranno moderare le loro proposte programmatiche per renderle compatibili con le preferenze degli altri partners, ciascuno costretto a rinunciare a qualcosa.
Coloro che vogliono ottenere la traduzione pratica di tutt’e tre i feticci non possono accontentarsi di nessuna legge elettorale né maggioritaria né proporzionale. Debbono proporre il mutamento della forma di governo: da parlamentare a presidenziale. Sì, la sera delle elezioni sapranno chi le ha vinte (a meno che non siano stati denunciati brogli elettorali); sì, il Presidente eletto darà rapidamente vita ad un governo; sì, è molto probabile, ma non sempre possibile, che quel governo sia espressione di un solo partito, quello del Presidente. Naturalmente, come sanno gli studiosi dei presidenzialismi e come hanno imparato gli elettori, nelle Repubbliche presidenziali quello che conta è l’esistenza di freni e contrappesi al potere del Presidente, ma questo è un problema/inconveniente che nessuna legge elettorale può affrontare, meno che mai risolvere.
Una volta chiarito che in Italia praticamente nessuno propone esplicitamente un modello presidenziale e buttati a mare i feticci creati ad arte, la discussione sulla legge elettorale può ripartire con il piede giusto. Può andare in Francia a pescare il doppio turno (non ballottaggio) in collegi uninominali con clausola di passaggio al secondo turno, oppure visitare la legge elettorale proporzionale personalizzata con clausola di accesso al Parlamento funzionante in Germania. Scegliendo un sistema elettorale già sperimentato si riducono i rischi e si potrebbe persino ovviare a qualche loro inconveniente. Tutto il resto è melina, inconcludente, fastidiosa, persino pericolosa.
Pubblicato il 1°marzo 2017
Riforme: un’altra narrazione
Naturalmente, i tempi nuovi richiedono, sostengono molti, nuove narrazioni. Richiedono anche nuovi narratori. Forse li abbiamo già trovati. Qualcuno ritiene che é sufficiente che la narrazione sia nuova e che i narratori siano giovani affinché si ottenga un salto di qualità. Altri, invece, pensano che nessun salto di qualità potrà essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro. Qui mi scapperebbe di aggiungere, ma sarebbe un appunto da “vecchia” narrazione, al fine di pervenire ad “una piú elevata sintesi”. Come non scritto. Naturalmente, “contraddittorio” significa confronto sulle idee e sulle proposte contenute nelle nuove narrazioni. Non consiste in nessun modo nella derisione personale con la quale si travolgono gli eventuali interlocutori, magari approfittando delle proprie posizioni di potere politico. Ciò detto, in questo breve articolo, mi eserciterò soltanto nell’analisi della narrazione istituzionale variamente e succintamente pronunciata dal presidente del Consiglio alla quale hanno finora fatto da eco tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna.
Naturalmente non è vero che negli ultimi trent’anni di riforme non ne siano state fatte. Anche tralasciando la legge sulla Presidenza del Consiglio nel 1988, nello stesso anno giunse a compimento la sostanziale abolizione del voto segreto voluta da Bettino Craxi. Tre anni dopo, anche contro il famoso invito di Craxi ad andare al mare, il 62,5 per cento degli elettori italiani preferì andare a votare nel referendum sulla preferenza unica. Nel 1990 era già stata approvata una legge innovativa, per quanto priva di interventi sul sistema elettorale, sul riordino delle autonomie locali. Nel 1993, superata l’incerta giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, gli italiani furono in grado di dare una spallata consapevole e decisiva alla legge elettorale proporzionale e, nella stessa tornata, abolirono il finanziamento statale dei partiti e tre ministeri: Agricoltura, Partecipazioni Statali, Turismo e Spettacolo. Per evitare un referendum che avrebbe cambiato in senso fortemente maggioritario la legge per l’elezione dei comuni e delle province, nello stesso anno il parlamento approvò la tuttora vigente legge in materia che ha dato ottima prova di sé. Nel 2001 il centro-sinistra formulò cambiamenti significativi, nei rapporti Stato/enti locali, Titolo V, giungendo fino, così si vantarono quei legislatori, “ai limiti del federalismo” (quello allora alla moda). Poi, per consolarsi delle elezioni perdute, ma stabilendo un brutto precedente, il centro-sinistra sottopose la sua riforma costituzionale a referendum, vincendolo, nell’ottobre 2001. Nel 2005, il centro-destra fece approvare dai suoi parlamentari sia la legge elettorale nota come Porcellum sia un’ambiziosa riforma della Costituzione: 56 articoli su 138. Anche se smantellato dalla Corte costituzionale, il Porcellum è ancora con noi, mentre in un referendum tenutosi su sua richiesta nel giugno 2006, il centro-sinistra fece bocciare dall’elettorato l’intera, pasticciata, riforma costituzionale del centro-destra. Nessun rimprovero, nessun rimpianto, nessuna autocritica.
Dunque, seppure controverse e scoordinate, molte riforme sono state fatte e approvate dal 1988 ad oggi. É stupefacente come i mass media non siano stati in grado oppure non abbiano voluto controbattere con dati durissimi le affermazioni propagandistiche del presidente del Consiglio, del suo ministro per le Riforme Istituzionali, dei suoi costituzionalisti (ma anche di qualche improvvisato politologo) di riferimento che si presentano come i riformatori venuti dal nulla.
Oltre alle riforme costituzionali e istituzionali, da circa quindici anni a questa parte, seppur faticosamente, nel centro-sinistra, nella pratica ante litteram prima, poi, quello che più conta, nello Statuto del Partito democratico, è stata introdotta una riforma molto importante, fra l’altro, decisiva per la stessa carriera politica di Matteo Renzi: le elezioni primarie. Non è il caso di andare alla ricerca dei diritti di primogenitura (ma poiché carta canta, anche la carta della rivista “il Mulino”), l’esercizio è facilmente fattibile. É sufficiente sfogliare l’indice degli articoli pubblicati negli anni novanta. Certamente, fra i fautori delle primarie non troveremo i costituzionalisti dell’attuale presidente del Consiglio. Non troveremo i professoroni. Non troveremo neppure i “gufi”. Troveremo, invece, coloro, pochissimi, che hanno sempre creduto e scritto che nessuna riforma, neanche la più tranchante, delle istituzioni, è in grado di produrre, da sola, un miglior funzionamento del sistema politico se non riesce a trasformare i partiti politici che, per quanto indeboliti, ma meno di quel che si crede, rimangono centrali. Chi sottovaluta l’importanza delle primarie e dei rapporti “istituzioni-partiti” è destinato a fare riforme brutte che avranno cattive conseguenze.
Naturalmente, non è vero che, se andasse in porto, la riforma del Senato porrebbe fine al bicameralismo perfetto. Infatti, il bicameralismo italiano, se le parole hanno un senso, e in politica sarebbe sempre opportuno che lo avessero, non è mai stato perfetto (aggettivo che si riferisce al funzionamento). É sempre stato indifferenziato e paritario, aggettivi che si riferiscono alle strutture e ai poteri. Non è neppure vero che la lentezza del processo legislativo in Italia sia attribuibile all’esistenza di due Camere. Infatti, come ripetutamente evidenziano i presidenti di Camera e Senato, sbagliando ripetutamente, poiché considerano il numero delle leggi approvate il segnale che il parlamento fa le leggi, mentre le leggi le fa il governo spesso saltando il parlamento con la decretazione e umiliandolo con i voti di fiducia, entrambe le Camere sono sempre state molto operose. Anno dopo anno, un po’ meno di recente, fanno (meglio approvano) molte leggi, all’incirca quattro volte di più di Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, abbondantemente due volte di più di Bundestag e Bundesrat tedeschi e dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Quinta Repubblica francese, tutti parlamenti bicamerali “imperfetti”, ovvero differenziati. Pertanto, né la quantità né la velocità della produzione legislativa costituiscono criteri convincenti a giustificazione della riforma del Senato per porre fine ad un bicameralismo che perfetto non è mai stato, ma che non ha in quasi nessun caso e modo costituito l’intralcio principale o predominante all’azione del governo. Gli stessi commentatori che hanno, non proprio sobriamente, applaudito la riduzione del Senato a Camera delle regioni, hanno sempre pappagallescamente argomentato che il problema del modello di governo parlamentare all’italiana consiste nei pochi poteri a disposizione del presidente del Consiglio. Pare alquanto difficile sostenere che ridimensionando i poteri del Senato, fin quasi all’azzeramento sulle leggi del governo e sulla possibilità di chiamare il governo e i suoi ministri a rendere conto del fatto, del non fatto e del malfatto, automaticamente il presidente del Consiglio italiano ne uscirà con potere istituzionale e politico rafforzato.
Naturalmente, nelle democrazie parlamentari, “forti” risultano essere i capi di governo, uomini e donne che sono espressione di un partito grande, coeso, rappresentativo di più ceti sociali, che hanno esperienze di governo e che guidano una coalizione programmatica. Curiosamente, negli stessi giorni dell’epica battaglia di Palazzo Madama, battuto alla Camera dei deputati, il governo Renzi annunciava che avrebbe recuperato al Senato. No comment. Al momento, è soltanto possibile affermare che la riforma del Senato squilibra la democrazia parlamentare italiana. Non è una deriva autoritaria. Più italianamente, è la deriva di chi procede perseguendo tornaconti di immagine e di pubblicità di breve periodo poiché la sua incultura istituzionale non gli consente neppure di intravedere il lungo periodo.
Naturalmente, “non esiste proprio” che la disciplina di partito possa essere imposta sulle riforme costituzionali. Il solo pensiero è aberrante. Sentirlo dire e ripetere dai collaboratori di Renzi senza che nessuno dei commentatori e dei giornalisti rilevi l’aberrazione è più che sconfortante. Primo, la disciplina di partito può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori, sul quale ha ottenuto voti grazie ai quali quei parlamentari sono stati eletti, soprattutto quando esistono le liste bloccate. Il discorso potrebbe essere leggermente diverso se i parlamentari fossero stati eletti in collegi uninominali. In questo caso, alcuni approfondimenti e altre precisazioni sarebbero necessarie. Toccherebbe a quei parlamentari formularli anche come informazione da mettere a disposizione degli elettori, sicuramente interessati ed esigenti, dei loro collegi. La disciplina di partito può anche essere richiesta sul programma di governo concordato con gli indispensabili alleati, in particolare se i gruppi parlamentari sono stati coinvolti, come dovrebbero, nella definizione del programma di governo. Su altre, imprevedibili materie, ad esempio, le emergenze, ovvero problemi che sorgono improvvisamente e che necessitano una soluzione rapida, quella disciplina di partito non può essere richiesta, ma deve essere conquistata con consultazioni e anche con votazioni chiare e trasparenti.
Sulle modifiche costituzionali e sulle votazioni che riguardano persone, i parlamentari hanno la facoltà, se lo desiderano, di richiamarsi all’assenza di vincolo di mandato (art. 67). Tuttavia, il loro voto difforme da quello dei parlamentari del loro partito non può essere giustificato soltanto con il richiamo alla “coscienza”. Troppo facile e, qualche volta, persino assolutamente ipocrita. Soprattutto un voto di coscienza non argomentato non comunica le indispensabili informazioni del parlamentare dissenziente agli altri parlamentari, al suo partito, agli elettori, all’opinione pubblica. Il voto di coscienza deve essere argomentato con riferimento alla “scienza”. In base alle conoscenze loro disponibili, ad esempio, relative al possesso da parte di un leader autoritario di armi di distruzione di massa, tutti i parlamentari sono sicuramente legittimati a negare il loro voto al governo di cui fa parte il loro partito. Quanto alle votazioni che riguardano persone -dall’autorizzazione all’arresto dei colleghi inquisiti all’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali -, nessun parlamentare deve mai essere messo né trovarsi nella condizione di “scambiare” apertamente il suo voto con l’arrestando o con l’eligendo e neppure di temere che il suo voto possa essere ritorto contro di lui, i candidati ad alcune cariche di rilievo essendo notoriamente uomini già abbastanza potenti e, spesso, provatamente vendicativi.
Naturalmente, non è vero che non conosciamo la sera delle elezioni chi ha vinto, Peraltro, dovrebbe interessarci sapere anche chi ha perso, quanto e perché. Lo abbiamo sempre saputo giá con la legge elettorale proporzionale utilizzata nella prima lunga fase della Repubblica italiana. Abbiamo continuato a saperlo con il Mattarellum (1994, 1996, 2001). Non abbiamo avuto dubbi, tranne il maldestro tentativo berlusconiano di riconteggio dei voti nel 2006, con il Porcellum. Con qualsiasi legge elettorale si sa chi ha vinto appena finito di contare i voti. Però, in nessuna democrazia parlamentare è sufficiente sapere chi ha vinto, numeri (di voti e di seggi) alla mano. In tutti i sistemi multipartitici delle democrazie parlamentari è giusto attendere che siano i dirigenti di partito a decidere, magari con riferimento a quanto detto durante la campagna elettorale e agli eventuali precedenti, chi farà parte della coalizione di governo e a chi andranno le cariche ministeriali, compresa anche la più elevata. Per fare un solo esempio, non c’è stata neppure una elezione in Germania (la Gran Bretagna é un caso fin troppo facile) nella quale non si sia saputo la sera della chiusura delle urne chi aveva vinto. Senza nessuno scandalo, per due volte la vincitrice, Angela Merkel, ha saggiamente costruito governi di Grande Coalizione (2005-2009; 2013–). Supponendo che esista un sistema elettorale dal quale esca sempre un velocissimo vincitore, questo non proprio miracoloso fatto cambierebbe la qualità della politica, dei partiti, del governo? Condurrebbe alla tanto agognata, ma mai precisamente specificata, governabilità?
Naturalmente, tutti vogliono la governabilità. Pochi sanno definirla. Pochi conoscono le condizioni alle quali acquisirla, mantenerla, esercitarla. Dal Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, non abbiamo finora avuto indicazioni precise, ma, forse, sì. Sarà la legge elettorale chiamata Italicum che, grazie al suo premio di maggioranza, assicurerà la governabilità. Quindi, la governabilità è la conseguenza oppure il prodotto di una maggioranza assoluta creata artificialmente dalla legge elettorale che, nelle parole del presidente della Repubblica, riportate senza rilievo da alcuni quotidiani, ma mai discusse, contiene clausole che debbono sicuramente essere sottoposte a “verifiche di costituzionalità”. Facendo un opportuno passo indietro, poiché né la voglia di riforme né quella di governabilità sono nate poche mesi fa, tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta vi fu un intenso, importante, persino appassionato dibattito politologico e sociologico sulla governabilità e, soprattutto, sulla sua crisi. Il cuore del problema era: “come debbono comportarsi i governi democratici e le loro istituzioni per fare fronte alle domande, molte e nuove, espresse dalle loro società mobilitate, esigenti, post-materialiste?” Alla crisi di “sovraccarico” si prospettarono due risposte: scoraggiare le domande oppure accrescere la capacità delle istituzioni. Esistono molte modalità di scoraggiamento, a cominciare dall’indifferenza a continuare con il palleggiamento di responsabilità fra le autorità e le istituzioni a finire con lo scarico di responsabilità, ad esempio, sull’Unione europea e sulla Troika. Esistono soluzioni anche al più delicato compito e complesso compito di accrescere la capacità delle istituzioni. A quei tempi, qualcuno rilevò anche che, nei sistemi politici non soltanto europei nei quali un partito di sinistra al governo riusciva a convincere sindacati e organizzazioni imprenditoriali a entrare in rapporti di collaborazione e a concordare le politiche, la crisi di governabilità era di limitato impatto e trovava (trovò) soluzioni praticabili.
Accordi di non breve periodo fra governi, partiti, associazioni sindacali e organizzazioni imprenditoriali, che tecnicamente si chiamano “neo-corporativismo”, vanno contro tutte le indicazioni e i suggerimenti che certi “autorevoli” editorialisti danno da anni a tutti i governanti italiani di turno (un po’ meno a Berlusconi) intesi a porre fine a qualsiasi forma di concertazione e a “spezzare le reni” ai gruppi di interesse dei più vari tipi, senza nessuna distinzione. In seguito, si sostenne che la governabilità dipende dalla stabilità degli esecutivi e che, di conseguenza, le leggi elettorali che insediano maggioranze assolute sono la (semplicistica, illusoria, é sufficiente leggere la storia inglese degli anni sessanta e settanta) soluzione: stabilità governativa eguale governabilità. Qualcuno aggiunse che la stabilità governativa è soltanto una premessa per l’esercizio dell’efficacia decisionale, magari in maniera molto veloce. In attesa di qualche criterio per valutare l’impatto e la qualità delle decisioni, anche in materia costituzionale, ci si può fermare, piuttosto perplessi, qui.
Naturalmente, i referendum costituzionali non li chiedono i governi. Eppure questo è l’annuncio ripetuto, prima e dopo la riformetta del Senato, dal ministro Maria Elena Boschi e dal presidente del Consiglio. Entrambi, davvero generosamente, hanno aggiunto la paradossale concessione che il governo farà deliberatamente mancare nella seconda lettura la maggioranza dei due terzi (maggioranza che, comunque, al Senato, se la sognano) per consentire ovvero, addirittura, per chiedere lui stesso un referendum popolare sulle riforme costituzionali. I referendum chiesti dai governi hanno un nome chiarissimo. Sono plebisciti. Restano tali anche quando i referendum costituzionali li chiese de Gaulle che, da leader carismatico quale sicuramente fu, voleva proprio un plebiscito sulla sua persona. Quando gli fu negato, guarda caso proprio sulla riforma del Senato nel 1969, sdegnosamente, ma in maniera impeccabilmente responsabile, se ne andò a Colombey-les deux églises a completare quell’eccezionale documento letterario che sono le sue memorie. Secondo l’art. 138, i referendum costituzionali possono essere chiesti da un quinto dei parlamentari di una o dell’altra Camera oppure da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori.
Naturalmente, non Renzi, capo del governo, ma Renzi segretario del Partito democratico ha la facoltà di invitare (obbligare, magari, no) i suoi parlamentari, le maggioranze consiliari in cinque regioni, gli iscritti e i simpatizzanti del Partito democratico a chiedere il referendum. Tuttavia, la striscia plebiscitaria si vedrebbe comunque. Purtroppo, il centro-sinistra, popolato da “quelli che… la Costituzione più bella del mondo”, fecero, come ho rilevato sopra, questa superflua e brutta torsione referendaria nel 2001, creando un precedente. Non è, però, il caso di insistere nella proposta di un’operazione che spetta, se lo vorranno, alle minoranze, e che sarebbe costosa in termini di denaro, di tempo e di energie. Anzi, il governo deve essere fortemente scoraggiato a esercitarsi in inutili prove di forza. Impieghi piuttosto le sue e le nostre risorse in modi più produttivi.
Naturalmente, chi conosce le Costituzioni sa che sono state costruite in maniera sistemica, vale a dire che, soprattutto le migliori, hanno tenuto conto dei rapporti e delle interazioni che si stabiliscono fra le istituzioni e che conducono a una varietà di esiti. In un certo senso, i limiti al potere di una istituzione sono posti dal potere di un’altra istituzione. Tecnicamente, spesso se ne parla come di checks and balances, freni e contrappesi. Se ad un’istituzione si danno poteri significativi strappandoli ad un’altra istituzione allora bisognerà trovare contrappesi altrove. Talvolta ci si trova anche in situazioni di inter-institutional accountability, vale a dire che ciascuna istituzione ha responsabilità che deve osservare nei confronti delle altre, e viceversa. La prendo alla larga per farla facile. Se il rapporto “governo-parlamento” viene squilibrato togliendo molto, quasi tutto il potere che il Senato ha nei confronti del governo e abolendo la responsabilizzazione del governo nei confronti del Senato, allora nella rimanente Camera dei deputati sarà opportuno che l’opposizione parlamentare acquisisca maggiori poteri di ispezione e di controllo sul governo. Tuttavia, non si tratta soltanto di questo come rivela una valutazione congiunta, seria e comprensiva del progetto di riforma elettorale. Tralascio le giravolte compiute dal premier a partire dalla presentazione in gennaio di addirittura tre progetti diversi di legge elettorale per approdare ad un testo che non rifletteva nessuno dei tre (e che, in seguito, è variamente cambiato). Tralascio anche il frequente e ripetuto riferimento alla formula sindaco d’Italia, ma almeno un commento deve essere fatto. In qualsiasi salsa, “sindaco d’Italia” significa mutamento della forma di governo dell’Italia: da democrazia parlamentare a democrazia presidenziale, per di piú priva dei freni e contrappesi dei presidenzialismi migliori e irrigidita nei rapporti fra il sindaco/capo di governo e il Consiglio-Camera dei deputati. A prescindere che non esiste nulla di simile altrove, non c’é nessuna garanzia che quanto funziona a livello locale riesca automaticamente funzionare a livello nazionale. Al contrario.
Per quel che riguarda l’Italicum nella sua versione approvata alla Camera dei deputati, mi limito, per il momento, alle osservazioni che, proprio perché sono le piú semplici, dovrebbero fare ripensare tutta la legge. Primo, se la Corte costituzionale “condanna” le liste bloccate perché impediscono all’elettore di esercitare il suo diritto di scelta fra i candidati al parlamento perché mai liste corte, ma ugualmente bloccate, sarebbero accettabili? Criticamente, rilevo che la Corte si fa davvero delle illusioni se ritiene accettabili liste “nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”. Attendiamo, comunque, di sapere quanto esiguo debba essere quel numero. Non dobbiamo attendere per sapere che sicuramente ci saranno in quelle liste “corte” numerosi imboscati.
Nel giugno 1991, gli elettori approvarono contro l’esplicita opposizione di quasi tutti i dirigenti di partito il quesito sulla preferenza unica. Naturalmente, è possibile sostenere che quegli elettori volevano molto di più. Il minimo comun denominatore era allora e rimane oggi non nessuna preferenza, ma una sola. Un solo voto di preferenza non può essere scambiato (e moltiplicato) da cordate di candidati che si strutturano in correnti o che trattano con gruppi esterni. Una sola preferenza significa che gli elettori hanno un po’ di potere che, per quanto poco, è meglio di niente. Chi risponde a queste obiezioni che personalmente preferisce i collegi uninominali al voto di preferenza può, naturalmente, attivarsi per cambiare tutto l’impianto della legge. Altrimenti, voti per la “concessione” di una preferenza che toglie dalle mani dei dirigenti la nomina dei parlamentari. Con quella preferenza l’Italia entrerà nel club delle democrazie parlamentari europee, ventitré delle quali (su ventotto) hanno qualche modalità di voto di preferenza. Seconda osservazione, se la Corte dice che il premio di maggioranza va attribuito stabilendo in anticipo una soglia minima, quella soglia va determinata percentualmente e la sua entità argomentata in maniera convincente affinché, torno al cuore dei sistemi elettorali, conferisca effettivo potere al voto degli elettori. Esiste un solo modo per accrescere il potere degli elettori: stabilire che, a prescindere dalle percentuali ottenute, si procederà comunque al ballottaggio fra i due partiti e le due coalizioni più votate consentendo, come già si fa nel caso di ballottaggio fra candidati sindaco, l’apparentamento fra liste. Rimarrebbe, lo so benissimo, il rischio che il premio (se fisso) attribuito a un partito da solo non sia sufficiente affinché quel partito o coalizione riesca a raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera. Tant pis o tanto meglio se questo è deciso dall’elettorato. Fra le clausole, si potrebbe anche aggiungere che, in caso di suo dissolvimento, la coalizione premiata perderà i seggi aggiuntivi che saranno redistribuiti proporzionalmente.
Mi rendo conto che sto entrando in dettagli tecnici, quelli dove si annida, soddisfatto, compiaciuto e competente il diavolo e, temporaneamente, mi fermo. Il punto vero, comparso improvvisamente alle non sistemiche menti dei riformatori elettorali, é che il premio in seggi avrà effetti anche sull’elezione ad opera del parlamento di molte cariche, a partire dai giudici costituzionali (con il rischio di dare vita ad una Corte palesemente di parte), ma soprattutto sull’elezione del presidente della Repubblica. Non mi arrampicherò sugli specchi dove i riformatori stanno cercando di trovare altri Grandi Elettori che evitino alla “premiata” maggioranza elettorale di diventare allegramente maggioranza presidenziale (spero, con la salvaguardia del voto segreto…). Credo che la soluzione possibile sia quella ventilata da coloro che pongono il quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, andate a vuoto le quali si passerebbe ad un ballottaggio fra i due candidati piú votati affidato a tutto l’elettorato italiano. Poiché credo nella capacità degli uomini e delle donne di apprendere e di tenere conto dei requisiti della carica che occupano, con questa modalità ci sarebbero molte buone probabilità che l’eletto/a si comporterebbe da rappresentante “dell’unità nazionale”. A prescindere dalla soluzione,quello che appare chiaramente é come sia imperativo tenere conto degli effetti sistemici di qualsiasi riforma, mentre nella loro sregolatezza senza genio i riformatori non hanno inizialmente avuto neppure la minima consapevolezza del problema complessivo.
Al supermercato delle istituzioni, delle regole, dei meccanismi è disponibile un po’ di tutto, ma chi vuole riformare una Costituzione, deve sapere che non è dal supermercato che otterrà quello di cui ha bisogno, ma dalla elaborazione di un progetto sistemico. Oserei dire dai progetti sistemici formulati da architetti o ingegneri costituzionali e non solo. Opportunamente consultato, qualche politologo (purtroppo, non tutti) consiglierebbe di guardare in chiave comparata appunto ai sistemi politici, che non sono soltanto Costituzioni, che hanno dimostrato di funzionare in maniera (più che) soddisfacente. Guardare al mondo animale: ai porcelli, ai canguri, ai gufi, pur tenendo conto delle differenze, non conduce all’altezza della sfida.
Alla fine di questa, pur sintetica, panoramica in quanto ognuno dei punti che ho sollevato ha dietro di sé un’ampia letteratura scientifica nonché numerosi casi di pratiche concrete, mi permetto di concludere con due considerazioni generali. La prima é che la cultura costituzionale del paese, in special modo dei politici, degli operatori dei media e dell’opinione pubblica appare tuttora tristemente non aggiornata. Sconta anche un incredibilmente elevato livello di servilismo e di conformismo che la rendono palesemente inadeguata a contrastare sia le sparate sia gli invasivi tweet della propaganda del governo e dei suoi quartieri. Seconda considerazione, senza procedere a opportune analisi comparate, che sono lo strumento per controllare ipotesi, generalizzazioni e aspettative, qualsiasi riforma rischia di non conseguire gli esiti promessi e sperati. Rimane molto spazio per miglioramenti, ma, naturalmente, anche per peggioramenti.
Pubblicato in il Mulino, 5/2014, pp. 738/748, ora in Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea-Unibocconi, 2015 pp. 137/151
Dietro i partiti niente
Le pungenti interviste del vignaiolo D’Alema, le “ruspanti” dichiarazioni dell’europarlamentare (sic) Salvini, gli accorati richiami dello statista in disarmo Berlusconi, le introspezioni elettroniche del guru Casaleggio, le promesse roboanti del fiorentino Renzi che sfida l’Europa fanno tutte, giustamente, discutere. Invitano anche a cercare di capire che cosa succede nel sistema dei partiti italiani. In verità di partiti definibili come tali in Italia ne esiste soltanto uno, il Partito Democratico, fatto da una maggioranza, in Parlamento artificialmente creata da un abnorme premo di seggi e nelle realtà locali gonfiata da più che una modica dose di conversioni. Le minoranze democratiche criticano, concionano, qualche rara volta strepitano, ma, in definitiva, non sanno che cosa fare né dove andare. Tutti gli altri non-partiti, tranne il Movimento 5 Stelle e, in parte, la Lega, sono alla costante ricerca di posizionamenti che consentano loro di sopravvivere fino a quando dovranno presumibilmente trattare con il PD per avere una manciata di seggi nel prossimo Parlamento. Nessuno di loro sta cercando di ricostruire una presenza, non nel cuore degli italiani, ma, quantomeno, nella loro considerazione per le politiche proposte e le candidature selezionate. Al contrario, nella grande maggioranza delle esperienze locali, con poche eccezioni, i candidati prescelti vengono, si dice e si vanta, dalla società civile. Poi, spesso si scopre che quella società civile è alquanto permeabile ai fenomeni della corruzione e dell’illegalità. Di tanto in tanto ci s’accorge anche che venire dalla società civile, lo hanno imparato persino gli esponenti delle Cinque Stelle, non è un titolo di merito né una qualifica utile a svolgere efficacemente i compiti parlamentari né, tantomeno, a governare le città, piccole, medie e, chi sa, prossimamente anche grandi.
In maniera difensiva, troppi politici e, ahiloro, molti commentatori pensano di cavarsela sostenendo che i partiti sono in crisi un po’ dappertutto. E’ un’affermazione sostanzialmente scorretta che dovrebbe essere “spacchettata”. Ci sono sistemi politici, come la Spagna, nei quali è in atto una dolorosa ridefinizione dello schieramento e della natura dei partiti. Però, quasi dappertutto nelle democrazie europee i partiti hanno finora retto alla sfida dei populismi, di destra, di sinistra e di centro; hanno governato, persino con qualche successo; si sono alternati alla guida del paese. Nessun governo non partitico, guidato e composto da “tecnici”, ha fatto la sua comparsa. Non circola nessuna apoteosi della società civile. Non compare nessuno sfrangiamento del sistema dei partiti. Invece, in Italia, dietro tutte le diatribe, spesso di cortile, dietro un chiacchiericcio per lo più inconcludente, come quello sull’Europa, che dovrebbe essere sul “come stare in Europa”, e sulla Libia che, a sua volta, dovrebbe essere, sul “come costruire un governo rappresentativo e stabile” in quel paese, sta un fatto durissimo: il sistema dei partiti italiani è fondamentalmente destrutturato.
La destra, il cui elettorato è reale e diffuso, anche potenzialmente molto ampio, non è capace di costruire organizzazioni stabili né, curiosamente, ricorda la sua parola d’ordine: presidenzialismo. La sinistra appare più fedele alle sue peggiori tradizioni: sottili critiche e graduali processi di frammentazione. Per quanto vero, conta poco che il segretario del Partito Democratico- Presidente del Consiglio non abbia manifestato nessuna intenzione né di tenere unito il partito né di riaggregare la sinistra preferendo il sostegno facilmente acquisibile di Alfano e le manovre più o meno concordate con Verdini. E’ l’esito che conta. Le maggioranze variabili non sono che palliativi, tamponi, sotterfugi temporanei. La realtà è che se il PD si sfalda. Il sistema dei partiti italiani si mostrerà in tutta la sua nudità e bruttezza. E non verrà decentemente rivestito da un Italicum che deve ancora passare al vaglio della Corte Costituzionale e da riforme costituzionali parecchio confuse.
Pubblicato AGL 14 marzo 2014
Italicum, timido passo in avanti
Intervista raccolta da Aldo Novellini per Il nostro tempo di Torino pubblicata il 17 Maggio 2015
Chiusa la stagione del Porcellum si apre quella dell’Italicum, la nuova legge elettorale approvata tra le polemiche, che hanno surriscaldato i rapporti tra la maggioranza e le opposizioni e hanno particolarmente scosso il Pd. Per mettere a fuoco le nuove regole elettorali ci siamo rivolti al costituzionalista Gianfranco Pasquino, autore di un recente libro, “Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate ” (edizioni Egea), che si occupa proprio di questi temi.
Come giudica l’Italicum?
Non mi pare una buona legge elettorale. Credo che nel complesso sia una sorta di Porcellum cui sono stati attenuati i difetti più grossolani. Il premio di maggioranza, che era slegato dall’ottenimento di una minima soglia di voti, ora è correlato al conseguimento di almeno il 40 per cento dei suffragi. Vi è poi la novità del ballottaggio tra le due liste più votate qualora nessuno raggiunga la soglia, e direi che questo secondo turno è forse il solo aspetto veramente innovativo della legge. Trovo però insensato che il premio sia concesso alle singole liste e non alle coalizioni, ponendo addirittura il divieto di qualsiasi apparentamento tra primo e secondo turno. Si può capire il timore di veder nascere alleanze troppo eterogenee, ma almeno gli apparentamenti dovevano essere permessi, anche perché le intese tra formazioni diverse per un programma condiviso sono un po’ il succo stesso della politica. Si tenga presente che quasi ovunque in Europa ci sono governi di coalizione che ben riflettono il pluralismo di idee presente nella società. Il difetto più grosso mi pare poi la pervicace insistenza sulle liste bloccate: i capilista delle cento circoscrizioni risultano eletti con questa modalità e, tenendo conto dei molteplici partiti in lizza, a giochi fatti i nominati saranno almeno il 60 per cento dei parlamentari. Sicuramente un passo avanti rispetto al Porcellum, in cui tutti erano nominati, ma pur sempre una quota insostenibile, poiché i cittadini chiedono di poter scegliere i propri rappresentanti e invece, ancora una volta, la politica si arrocca su se stessa. C’è poi una norma semplicemente assurda…
Quale?
Quella per cui un candidato, in genere il leader del partito, può presentarsi in più collegi fino ad un massimo di dieci. In pratica questi deciderà di lasciare il posto ai secondi in lista in base al semplice requisito della fedeltà alla sua persona. Sarebbe invece stato utile inserire il requisito della residenza nella circoscrizione, prevedendo la candidatura del capolista solo in quel collegio.
I rilievi della Corte costituzionale sono stati accolti?
La Corte aveva bocciato i capilista bloccati, che vengono ridotti, e il premio di maggioranza a prescindere dai voti ricevuti, che adesso viene concesso solo con il 40 per cento dei consensi. Si può dunque dire che l’Italicum viene incontro alle osservazioni dei giudici, ma resta il fatto che il Mattarellum era un sistema elettorale decisamente migliore.
Una legge elettorale approvata con la fiducia e senza le opposizioni. Cosa ne pensa?
Renzi era partito facendo un patto con Berlusconi perché voleva fare le riforme a larga maggioranza coinvolgendo l’opposizione, ma alla fine gli è mancato persino il pieno appoggio del suo partito. Un bel cammino a ritroso. In ogni caso alla fine l’ha spuntata, anche se l’obiettivo di conseguire ad ogni costo un risultato ha prevalso in maniera eccessiva sul metodo che invece nella definizione delle regole, e la legge elettorale è tra queste, resta un aspetto decisivo per dare legittimità alle scelte compiute. Approvare una legge elettorale con una maggioranza ristretta può andare bene solo se, a monte dell’intero percorso, vi è un preciso mandato degli elettori su quello specifico tema e su quel particolare modello. Una situazione ben diversa dall’iter dell’Italicum.
Non vi è rischio di incostituzionalità per i capilista bloccati dei piccoli partiti?
Ecco, questo potrebbe essere un interessante quesito di costituzionalità sulla base della disuguaglianza che si crea tra gli elettori. Infatti a chi vota per i partiti più piccoli, nei quali risultano eletti sono solo i capilista, è impedito sin dall’inizio l’elezione di deputati con il voto di preferenza. Una differenza ingiustificata rispetto ad un partito più grande che in ogni circoscrizione, oltre al capolista, elegge altri deputati e dunque la facoltà di scelta può esplicarsi compiutamente.
Una Camera con tanti nominati e un Senato non più elettivo. Che tipo di democrazia si prefigura?
Alla Camera ci sarà almeno il 60 per cento di nominati e questo comporta l’egemonia dei capipartito sui singoli deputati, i quali saranno indotti ad accondiscendere alle richieste di chi gli ha messi in lista. Un fenomeno deteriore che le preferenze avrebbero evitato alla radice. Il Senato sarà un coacervo di persone designate dai Consigli regionali e comunali. Democrazia significa potere del popolo, ed è allora più che evidente che tra i nominati della Camera e un Senato non eletto dai cittadini si restringono gli spazi di una vera partecipazione popolare.
Una certezza è che con l’Italicum non vi saranno mai più larghe intese…
Sì, il premio di maggioranza, con un vincitore che potrà governare da solo, esclude in partenza i governi di larghe intese. Non è però detto che ciò sia sempre un bene.
Perchè?
Le coalizioni allargate, tra maggioranza ed opposizione, possono rivelarsi necessarie e utili per superare particolari frangenti politici. Penso alla Germania, ove in tre occasioni cruciali vi sono stati dei governi Cdu-Spd: nel 1966-’69, per preparare l’apertura verso l’Est; nel 2005-2009 per fare le grandi riforme economiche e oggi, per meglio affrontare la grave crisi europea. Impedire in partenza queste formule di emergenza, a volte frutto della volontà degli elettori che non scelgono in modo univoco una precisa maggioranza, mi pare voler ingabbiare oltre misura il corso della vita politica.
Siamo di fronte ad un presidenzialismo strisciante?
No, perché rimane comunque intatto il rapporto di fiducia tra il governo e la maggioranza parlamentare. E’ chiaro però che il premier vede accresciuto il suo ruolo anche sullo scioglimento anticipato della Camera. Di certo diverrà impossibile sostituire il presidente del Consiglio in corso di legislatura: con l’Italicum non ci sarebbe stato il cambio Letta-Renzi Il sistema diventerà quindi più rigido perdendo quella flessibilità insita nel classico modello parlamentare.
Renzi, quando parla di riforme, afferma che dopo troppi anni di immobilismo bisognava fare comunque qualcosa…
Francamente non vedo tutto questo immobilismo. Nel 1991 vi fu il referendum sulla preferenza unica; nel 1993 i cittadini furono chiamati ad esprimersi sul sistema elettorale e prevalse il maggioritario da cui derivò poi il Mattarellum. Il centro-sinistra poi modificò il Titolo V e la destra avviò una grande riforma costituzionale bocciata nel referendum del 2006. Con Berlusconi fu infine votato il Porcellum. L’affermazione di Renzi è dunque inesatta. In ogni caso poi non basta fare le cose, bisogna anche farle bene.
In definitiva, cosa si doveva fare?
Occorreva prendere a modello i sistemi che funzionano, in particolare quello tedesco e quello francese. In Germania il premier è eletto dal Bundestag e c’è la sfiducia costruttiva che permette di cambiare in corsa ma solo se c’è un preciso sostituto. Nessuna crisi al buio. Il sistema elettorale è un misto tra proporzionale e maggioritario, non dissimile dal Mattarellum. La Francia ha un presidente eletto dal popolo e istituzioni molto stabili, mantenendo il raccordo fiduciario tra governo e Parlamento. E’ meglio imitare ciò che già funziona anziché avventurarsi in sentieri poco battuti, a rischio di realizzare un patchwork. Segnalo che l’unico sistema elettorale in Europa che prevede il premio di maggioranza è quello della Grecia. Un Paese che sarebbe meglio non imitare.