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La Repubblica siamo noi, noi che ci crediamo @formichenews

Lettera aperta alla Repubblica italiana dal professore di Scienza Politica e accademico dei Lincei Gianfranco Pasquino. “Molti di questi giorni, cara Repubblica, la tua vita è la garanzia della ricerca e della possibilità di una vita migliore per tutti, soprattutto per noi, repubblicani convinti, coerenti e partecipanti”

Alla memoria di Valerio Onida e Carlo Smuraglia
Cara Repubblica,
ti scrivo e, poiché si leva già alto il rumore degli ipocriti, più forte ti scriverò. Celebrano il tuo compleanno coloro che hanno variamente (e vanamente) tentato due operazioni. La prima, plateale, è quella di cambiarti, anche a colpi di referendum, di aggiornarti senza sapere come e senza confrontarti con le altre Repubbliche. So che ne saresti stata lieta poiché il paragone rivela che sei elegante, efficace, estroversa, elastica. Coloro Sono miserevolmente caduti sotto una pesante cappa di ignoranza e di arroganza. Tuttavia, rimangono tanti, si spalleggiano, sono ripetitivi, pericolosi per sé e, mal gliene incolga, per gli altri. La seconda è un’operazione, subdola, condotta più o meno consapevolmente e non sufficientemente contrastata.
La Repubblica, dicono gli ignor/arroganti e gli egoisti, sono gli altri. Un po’ come l’inferno secondo Sartre. Se la Repubblica funziona male, non è colpa dei cittadini, certamente non di loro. Sono i politici; sono i parlamentari; sono, soprattutto, i governanti a essere tremendamente colpevoli. Non sanno il loro mestiere (ma chi li ha votati quelli che “io non ho mai fatto politica”), quando le ottengono stanno appiccicati alle poltrone in attesa della pensione. Non sono mai loro, i cittadini, quelli che partecipano saltuariamente (il voto, art. 48, “è dovere civico”), quelli che tutto è un loro diritto, nulla o quasi un loro dovere, quelli che, se è compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale [che] impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, art. 3, ritengono che debbano essere gli altri a impegnarsi. Non si informano, ma twittano. Non vanno alle urne, ma sono attivissimi sui social. Non sanno di cosa parlano, ma applaudono gli influencer delle loro fazioni e insultano i followers delle altre fazioni.
Hanno quello che si meritano, ma la colpa la danno a te, cara Repubblica. Non riescono a distinguere, già lo imparavano poco, ma sono decenni che nessuno glielo insegna più, fra le regole, le istituzioni, i comportamenti. Sono diventati (quasi) tutti kennediani alla rovescia. Non si chiedono cosa possono e debbono fare per te, cara Res Publica, ma cosa tu dovresti fare per loro, talvolta assenteisti, talvolta evasori, talvolta corrotti e corruttori, talvolta rassegnati (i meno peggio che non vuol dire “buoni”). Domani tutti giornali riporteranno ampi elogi a te, forse chiamandoti Prima Repubblica, implicitamente dandoti per superata e comunque superabile, non avendo colto il fatto importantissimo che, hai attraversato le molte vicende italiane a testa alta solo un po’ scossa dai tanto inadeguati quanto saccenti (e viceversa) riformatori elettorali. Non ti curar di loro, ma guarda e passa. Ho imparato da Piero Calamandrei che sei una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata. Sempre da Calamandrei ho saputo che sei “presbite”. Continua a guardare avanti, tieni lo sguardo sull’Europa.
Molti di questi giorni, cara Repubblica, la tua vita è la garanzia della ricerca e della possibilità di una vita migliore per tutti, soprattutto per noi, repubblicani convinti, coerenti e partecipanti.
Pubblicato il 2 giugno 2022 su Formiche.net
C’è un tempo per la manipolazione, ma c’è anche un tempo per l’informazione?
Ė arrivata l’ora dell’ombudsman. Ripresento la mia candidatura at large, vale a dire per qualsiasi, no, non proprio tutti, quotidiano che mi desideri. Certo, leggerli dalla prima all’ultima pagina è un lavoraccio. Mi attendo, dunque, una proposta adeguata di compenso. Lasciamo che continui il dibattitto sulle fake news e sulle manipolazioni, anche sul ruolo degli influencer. Ma diamo ai quotidiani italiani un sano difensore civico dei lettori. Sono almeno più di vent’anni che tutti i lunedì, la seconda pagina del “New York Times” riporta in bella evidenza, scusandosi, gli errori commessi nel corso della settimana, segnalati loro dai lettori, ma anche scoperti attraverso altre modalità. Qui mi limiterò ad alcuni pochi esempi tratti dal “Corriere della Sera” dell’ultima settimana. Non direi niente su Shönberg senza “c” in bella evidenza nel titolo di un articolo sulla sua musica se non fosse che nel supplemento “7” del 14 maggio c’è un elogio a “Quei correttori umanisti e acuti che hanno salvato tanti di noi”. L’articolo pubblicato il 9 aprile 1990 lo si deve alla penna di Gaetano Afeltra indicato come vice direttore del Corriere fra il 1962 e il 1963, poi collaboratore dal 1983 alla sua morte nel 2005. Viene in questo modo passata sotto silenzio la sua lunga (1972-1980) direzione de “il Giorno” fase da ritenersi assolutamente importante anche perché su quelle pagine avvenne il mio esordio come opinionista da lui invitato nel 1977 (e subito criticato da Emanuele Macaluso, allora direttore de “l’Unità”).
Il “Corriere” ha intrapreso una vasta attività di pubblicazioni in molti settori. Fra le sue “firme di spicco” figurano collaboratori che scrivono molto spesso e di tutto, che amano fregiarsi del titolo di storici. Fra le iniziative recenti c’è una storia della Repubblica italiana a puntate pubblicata nel supplemento del sabato “Io, donna” che i solutori più che abili possono scovare una volta sfogliate le tantissime pagine di pubblicità (sento irrefrenabile il bisogno di aggiungere l’aggettivo “patinata”). Le fotografie dominano sulle parole per raccontare la Repubblica italiana. Nella quarta puntata (8 maggio 2021), dedicata agli anni ’80, a p. 82, sotto il titolo, già discutibile, LA PRIMA REPUBBLICA viene annunciata la foto: Bettino Craxi in Piazza del Duomo, prima del terremoto di Mani Pulite, Milano, 1980.
Non ho ancora visto la Seconda Repubblica, e non è solo un problema mio. Un noto giornalista si è da tempo messo avanti con il lavoro e pubblica regolarmente i suoi interventi con il titolo Terza Repubblica. Chi mi conosce sa che da tempo ho espresso e motivato la mia preferenza per la Quinta Repubblica, ma il problema è un altro, duplice. La Repubbliche cambiano quando si danno istituzioni diverse e una nuova Costituzione. Nulla di tutto questo è avvenuto in Italia, nonostante tentativi deplorevoli bocciati due volte dall’elettorato, 2006 e 2016. Quindi, in assenza di una Seconda, Terza, Quinta Repubblica, l’Italia ha una sola Repubblica che non è necessario definire Prima. Anzi, è sbagliato farlo. Ma il distico che accompagna la foto di Craxi è sostanzialmente tremendamente manipolatorio, non so se debbo dire anche sottilmente, perché mi pare invece grossolanamente tale. Mani Pulite arrivò dodici anni dopo quella foto. A quei tempi non era prevedibile, ma, soprattutto, non è accettabile suggerire una stretta, tout court, identificazione di Craxi con Mani Pulite.
Poi, certo, lamentiamo pure l’ignoranza degli elettori italiani, non escludendo in nessuno modo i lettori del Corriere ai quali il loro giornalone offre splendidi esempi di refusi, di cancellazioni, di manipolazioni. Faccio persino fatica a dire che ciascun paese ha la stampa che si merita. Ma, forse, il Corriere conferma che “così è, se vi pare”.
Pubblicato il 20 maggio 2021 su PARADOXAforum
La libertà inutile degli italiani La Prima Repubblica non è mai finita @DomaniGiornale
Pubblichiamo un estratto dal nuovo libro di Gianfranco Pasquino,Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021).
Per diversi anni mi sono riproposto un compito estremamente ambizioso: scrivere il seguito del saggio di Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano (Torino, Einaudi, 1986). Il testo scritto da Bobbio arriva fino al Sessantotto, ma, deliberatamente, non se ne occupa. Interrogarsi, riflettere, analizzare i cinquant’anni trascorsi da allora è un’impresa certamente difficile, ma, al tempo stesso, culturalmente e politicamente necessaria. Senza nessuna falsa modestia fin dall’inizio sapevo, e ogniqualvolta rileggevo qualche pagina specifica del Profilo, me ne rendevo conto, che mi sarebbe stato impossibile offrire una visione complessiva dell’Italia repubblicana dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi altrettanto ricca e articolata quanto quella elaborata da Bobbio. Non mi faccio nessuna illusione sulle mie capacità di conseguire risultati minimamente comparabili con quelli del prezioso libro di Bobbio. Al tempo stesso, però, il compito ha continuato non soltanto ad attirarmi come grande sfida intellettuale, ma anche a sembrarmi sempre più necessario in un paese nel quale il dibattito pubblico si è impoverito, ingaglioffito e imbarbarito. Insomma, senza nessuna propensione a farmene vanto (toccherà, comunque, ai lettori decidere se giustificato e quanto), ho sentito il dovere civile di ricorrere a tutte le mie forze e conoscenze per proseguire il lavoro di Bobbio.
Naturalmente, ho cercato nella misura del mio possibile di focalizzarmi sulla stessa impostazione proposta e utilizzata da Bobbio, vale a dire, di centrare l’analisi sulla “storia delle idee o delle ideologie o degli ideali intesa come storia della consapevolezza che gli intellettuali hanno del loro tempo, delle categorie mentali che di volta in volta adoperano per comprenderlo, dei valori che assumono per approvarlo o per condannarlo, dei programmi che formulano per trasformarlo” (Profilo, p. 3). A questa storia ho sentito di dovere aggiungere, quando mi pareva utile, anche il contributo di alcuni politici, della (riflessione) politica. L’elaborazione di idee e, talvolta, operazione molto più difficile, di ideologie è qualcosa che gli intellettuali hanno costantemente, in maniera più o meno consapevole e efficace, fatto, in proprio e/o al servizio di monarchi, capi politici, imprenditori, partiti, associazioni dei più vari generi, ma che, in non poche occasioni, alcuni importanti uomini politici hanno mutuato, accolto, parzialmente attuato, magari anche stravolto. Più o meno influenti, spesso riflettendo lo spirito dei tempi, alcune elaborazioni degli intellettuali (e dei politici) contribuiscono alla comprensione di quei tempi e meritano attenzione e considerazione, elogi e critiche. Effettuare riflessioni e formulare critiche concernenti le idee degli intellettuali valutandone, ogniqualvolta possibile e opportuno, l’impatto, è un esercizio fecondo che difficilmente può rimanere neutrale e imparziale.
…….
Nel 1968 Bobbio non ritenne di scrivere una conclusione al suo Profilo ideologico. Però, aggiunse una post-fazione alla ristampa fatta quasi vent’anni dopo (che, con mio grande piacere, fui invitato a recensire per “l’Unità”). … Tuttora approvo la scelta di Bobbio. Il profilo ideologico dell’Italia repubblicana non era terminato nel 1968. Non lo fu neppure nel 1986. Da allora, però, sicuramente sono scomparse le ideologie nella variante italiana; vi sono state notevoli trasformazioni nelle idee, ma non è emerso nulla di comparabile per profondità al dibattito analizzato da Bobbio. Gli italiani continuano a vivere in quella che viene definita, talvolta criticamente, la Prima Repubblica. È l’unica Repubblica che abbiamo. Il suo assetto istituzionale di democrazia parlamentare ha dimostrato di essere molto flessibile e adattabile, di sapere affrontare le sfide superandole mantenendo intatti i suoi principi ideali e i suoi cardini istituzionali. L’edificio costituzionale repubblicano non è sostanzialmente cambiato nonostante siano drasticamente cambiati, anzi, spariti, i partiti che lo avevano costruito e nonostante che siano subentrati altri protagonisti: partiti, movimenti, dirigenti politici e intellettuali di riferimento ignari del passato, con scarsa e incerta cultura politica, già provatamente incapaci di progettare un futuro. A loro in modo speciale si attaglia l’amara espressione che Bobbio voleva utilizzare come titolo del capitolo conclusivo che rinunciò a scrivere: la libertà inutile (p. 179).
Nei miei ricorrenti incontri con Bobbio e con il suo pessimismo, nelle nostre conversazioni, eravamo consapevoli che a me spettava il compito di trovare gli elementi positivi che lui accoglieva con un sorriso scettico. Ricordo di avergli fatto rilevare, sfondando una porta aperta, che fra i suoi molti insegnamenti c’era anche quello che la libertà non è mai inutile. Sottolineando l’inutilità della libertà goduta dagli italiani nel dopoguerra, Bobbio voleva dire che quella libertà, di espressione, di pensiero, di ricerca, di voto non aveva apportato significativi e indispensabili miglioramenti nella cultura politica e nell’etica civile, tema che gli era caro, ma che trattava molto parsimoniosamente salvo celebrarla nei ritratti di coloro che la avevano praticata in maniera intransigente (Bobbio 1984 e 1986). Da questo punto di vista, che largamente condivido, neppure i cinquant’anni successivi alla riflessione di Bobbio si sono rivelati “utili”. Anzi. L’approdo della mia ricognizione, a fronte di problemi che non passano, di memorie non condivise, di sfide, vecchie e nuove, da ultimo, drammatica, socialmente e economicamente, la pandemia, di incapacità di comprendere e di progettare, è che quello che è davvero passato, per sempre, sono le culture politiche che avevano costruito con maggiore o minore convinzione la Repubblica e l’avevano fatta funzionare non del tutto inutilmente.
Non sono comparse nuove culture politiche alternative con fondamenta simili a quelle dei primi cinquant’anni della Repubblica. Con il declino dei partiti è scomparso uno dei luoghi di elaborazione quantomeno di idee politiche e di confronto e conflitto di posizioni e riflessioni diverse. Persino, nella società, alla quale non possiamo meccanicamente attribuire l’aggettivo, non poche volte immeritato, ”civile”, non sembra riescano ad emergere nuove trascinanti idee. “Liquida”, come sosterrebbe il sociologo polacco Zygmunt Bauman (2011), oppure, più semplicemente, frammentata e ripiegata a difesa di prassi esistenti che non vengono messe in discussione, la società si rappresenta, in Italia, probabilmente più che altrove, nei talk show e nelle forme telematiche di comunicazione. Sia Bobbio sia Sartori (1997), unitamente a Karl Popper, da entrambi molto apprezzato, sono stati tempestivamente critici di questi sviluppi. Per quel che conta, è evidente che non saranno i cosiddetti “social” le nuove fonti di produzione e di confronti e scontri fra idee e di (ri)nascita di culture politiche. Anzi, è chiaro che il linguaggio usato in quei contesti è un fattore aggiuntivo di indebolimento, di compressione, di confusione del profilo ideologico di qualsiasi società/sistema politico, a cominciare dall’Italia.
Guardando fuori dei confini italiani potremmo notare che tutte le culture politiche tradizionali si sono indebolite, anche se non sono completamente scomparse, e che nuove “culture” stanno facendo molta fatica ad affermarsi e non è affatto detto che ci riusciranno. Tenendo in grande considerazione quello che si muove, in politica, in economia, nella società, specialmente quella europea, è plausibile sostenere che la linea lungo la quale si manifesteranno e potranno affermarsi le nuove culture politiche è quella che separa con una certa nettezza, come ho scritto nell’ultimo capitolo, coloro che sono contro il processo di unificazione politica dell’Europa e coloro che mirano a completarne l’unificazione, coloro che desiderano un federalismo democratico e agiscono per conseguirlo e coloro che operano per un ritorno, non soltanto fisico, dei confini nazionali. Per gli oppositori deI federalismo politico europeo è stata di recente coniata la definizione di sovranismo da loro apparentemente gradita. Però, il sovranismo non poggia su una cultura politica dotata di un elevato livello di elaborazione. Deve fare leva su un nazionalismo spesso screditato, da ricostituire. Dal canto suo, il pensiero federalista ha un retroterra e una storia decisamente molto più lunga e più complessa. Nella fase attuale, però, neppure il federalismo può vantare un ventaglio di pensatori innovativi sui quali fare affidamento. Le prassi sembrano precedere le elaborazioni culturali (e politiche) senza le quali, tuttavia, il loro respiro è inevitabilmente molto corto.
Un enormemente difficile profilo ideologico dell’Europa contemporanea, che nessuno ha finora tentato, darebbe maggiore sostanza alla mia affermazione sia sul grado di declino delle culture politiche classiche sia sulla necessità di nuove originali elaborazioni all’altezza di quelle del passato. In Italia sappiamo dove siamo dolorosamente approdati. In Europa il viaggio delle culture politiche è, fra opportunità e rischi, tuttora in corso. Non si concluderà presto offrendo la possibilità/necessità di tutti i pur molto difficili approfondimenti culturali essenziali per l’ambizioso progetto di unificazione politica democratica del continente che un giorno, mi auguro non troppo lontano, sarà appropriatamente descritto e analizzato in un Profilo ideologico dell’Europa.
Pubblicato il 26 febbraio 2021 su Domani
I Cinque Stelle non sono spacciati @domanigiornale
Gli iscritti del Movimento hanno approvato alleanze già in essere da tempo. Addio anche al limite dei due mandati. I Cinque Stelle diventano più simili agli altri partiti, ma restano i meglio attrezzati a intercettare un malcontento ancora diffuso nel paese e che continua a portare voti.
- Nella sua critica alla Prima Repubblica (l’unica che abbiamo avuto), il Movimento 5 Stelle ha spesso sbagliato bersaglio. Non ne ha capito i pregi: adattabilità e possibilità di cambiare governi e governanti senza produrre destabilizzazioni, obbligando i nuovi protagonisti a rispettare le regole.
- La democrazia parlamentare non è una forma di governo debole. Ha regole, procedure, istituzioni che danno rappresentanza politica e consentono decisioni. Funziona grazie ai partiti. Dalla qualità dei partiti dipende la sua stessa qualità.
- Tutti i movimenti collettivi si trovano prima o poi ad un bivio: istituzionalizzarsi oppure deperire e sparire. Sull’orlo del deperimento, i Cinque Stelle sembra abbiano scelto la via, per loro alquanto impervia, dell’istituzionalizzazione.
Nato sull’onda alta della critica alla politica esistente il Movimento 5 Stelle ha dovuto fare di volta in volta i conti con quella politica, finendo regolarmente per adattarsi, più o meno convintamente e dolorosamente, alle sue prassi.
La politica esistente in Italia si svolge nel quadro, molto più costrittivo di quel che si pensa abitualmente, di una democrazia parlamentare ed è praticata da organizzazioni che, in un modo o in un altro, deboli o meno deboli, sono partiti. Dunque, la critica alla politica non poteva non essere anche, soprattutto, critica del Parlamento, scatoletta di tonno da aprire, e critica dei parlamentari, del loro essersi trasformati in una “classe”, del loro numero, dei loro privilegi a cominciare dalle indennità e dai vitalizi.
Rispetto ai partiti, organizzazioni ritenute non democratiche in mano a oligarchie interessate a perpetuarsi e in grado di farlo, il Movimento ha inteso fare valere modalità di democrazia più o meno diretta, partecipata (peraltro da non più di 60 mila aderenti su almeno il doppio di aventi diritto), costruita all’insegna dello slogan “uno vale uno”, praticata con moderne forme tecnologiche attraverso una piattaforma di proprietà di un privato. Inevitabilmente, ne conseguono lamentele e critiche alla probabilità di manipolazione di procedure tutt’altro che trasparenti e verificabili.
Al suo esordio in una competizione nazionale, nessun partito, tranne Forza Italia, ha ottenuto un numero di voti superiore a quello dei Cinque Stelle nel 2013. Alla base di questo grande successo elettorale, sta proprio la critica, pure, spesso sommaria e superficiale, espressa con toni esagitati, della politica.
Superficialità e esagitazione sono servite a raggiungere, incanalare, dare espressione e rappresentanza alla diffusa, profonda e persistente insoddisfazione degli italiani con la loro politica.
Essendo questo un dato strutturale è possibile affermare che non mancheranno mai le ragioni per le quali una parte di elettorato si indirizzerà a favore del Movimento e dei suoi candidati. Fisiologicamente, però, una parte di elettorato non poteva non diventare insoddisfatta dalle prestazioni dei Cinque Stelle nella loro azione di governo.
Troppo facile, ma vero, dunque necessario, è affermare che il passaggio non soltanto dalla protesta alla proposta, ma dalla proposta alla pratica si è scontrato con ostacoli imprevisti dai Cinque Stelle, ma non imprevedibili. Nelle democrazie parlamentari rarissimamente il governo è composto da un solo protagonista. Per dare vita ad un governo è imperativo trovare alleati e formare coalizioni. Dopodiché il programma del governo non può essere integralmente quello di ciascuno dei singoli contraenti, ma è un compromesso che deve tenere conto delle diverse preferenze.
Che soltanto alcuni giorni fa gli iscritti al Movimento abbiano dato ufficialmente la loro approvazione alla ricerca di alleanze può stupire soltanto perché l’approvazione viene dopo una pratica già in atto. Questa decisione sarebbe la prova provata della trasformazione del Movimento in partito politico. In verità, la trasformazione era già avvenuta nel momento stesso in cui il Movimento aveva presentato candidature alle elezioni nazionali, ottenuto voti e conquistato cariche.
Da Max Weber, che di movimenti collettivi ha scritto in maniera tuttora imprescindibile, dovremmo piuttosto sapere trarre le indicazioni cruciali per capire se le Cinque Stelle approderanno alla istituzionalizzazione, vale a dire a darsi una struttura, regole, modalità di selezione e ricambio della leadership che ne consentano una lunga durata.
Avere originariamente stabilito un massimo di due mandati elettivi andava contro non solo l’istituzionalizzazione, ma lo stesso buon funzionamento del Movimento nelle assemblee elettive, in particolare, nel parlamento.
Da un lato, coerentemente con il principio “uno vale uno”, il Movimento nega(va) l’importanza dell’esperienza politica e delle competenze; dall’altro, rende(va) impossibile l’applicazione di un criterio fondamentale della democrazia rappresentativa, quello della responsabilizzazione, dell’accountability. Il rappresentante se ne dovrebbe andare per una regolamentazione burocratica, due mandati svolti, non per inadeguatezza politica, vale a dire non essere riuscito a farsi rieleggere sulla base di quanto da lui/lei fatto.
Peggio, poi, se, come ribadito da troppi esponenti del Movimento, dovesse venire imposto un, peraltro impossibile (e che richiederebbe una revisione costituzionale) vincolo di mandato ai rappresentanti. Non è chiaro in che modo potrebbe essere imposto, tradotto in pratica e sottoposto a valutazione, ma è sicuro che distruggerebbe il principio stesso della rappresentanza politica con conseguenze di irrigidimento della dialettica parlamentare fondata proprio sulla reciproca persuasione e sulla conciliazione degli interessi e delle preferenze.
Nel frattempo, in parte tenendo conto delle esperienze acquisite in parte per valorizzare quanto fatto ricoprendo la carica, i militanti del Movimento hanno acconsentito ad un sotterfugio: il mandato zero (ovvero, la previa elezione nei consigli comunali e provinciali) che si configura come deroga permanente alla regola dei due mandati.
Questo vale per la sindaca di Roma Virginia Raggi. Varrà per quella di Torino Chiara Appendino e, naturalmente, per tutti i non pochi parlamentari che stanno completando il secondo mandato. Molti di costoro, però, finiranno comunque esclusi, se l’elettorato confermerà per referendum la riduzione del numero dei parlamentari, altra riforma chiave di un Movimento nel quale alcuni ritengono che il parlamento come lo abbiamo conosciuto stia diventando inutile, retaggio di un passato novecentesco, superabile.
La fase di effervescenza collettiva e di entusiasmo che aveva lanciato il Movimento è venuta inevitabilmente meno. Il suo fondatore, Beppe Grillo, si è trasformato in garante anche se, ed è per lo più un bene, interviene in maniera decisa e decisiva nei momenti più delicati.
Per quanto faticosa e difficile da guidare senza una bussola, l’istituzionalizzazione del Movimento ha fatto qualche passo aventi.
In mancanza di una cultura politica condivisa che non sia esclusivamente di critica alla democrazia parlamentare (e, molto contraddittoriamente, alle modalità di funzionamento dell’Unione europea), aderenti e elettori del Movimento Cinque Stelle appaiono perplessi e divisi. Però, potrebbero rivendicare di essere nella loro composizione e nelle loro contraddizioni, dai vaccini alle grandi opere, il partito (pigliatutti) degli italiani.
Comunque, continuano ad avere dalla loro parte l’insoddisfazione e lo scontento politico, pulsioni e emozioni che sembrano di entità tale da riprodurre una riserva di voti alla quale il Movimento è tuttora in condizioni di attingere meglio e più di altri.
Pubblicato il 19 agosto 2020 su editorialedomani.it
Unità nazionale? Impossibile con questi politici senza storia #Intervista @ildubbionews
Una volta c’era Pertini. Oggi gli italiani non considerano migliori di loro le persone che li governano
Intervista raccolta da Giulia Merlo
“Gli italiani non sono popolo da sentimento d’unità nazionale”, taglia corto il politologo Gianfranco Pasquino. Professore ed editorialista, ha appena pubblicato per Utet “Minima politica. Sei lezioni di democrazia” in cui ripercorre la storia politica italiana e analizza il ruolo delle istituzioni.
Siamo uniti solo durante le partite della nazionale di calcio, quindi?
E quando vinceva la Ferrari, ma ormai è passato qualche anno. Battute a parte, gli italiani hanno sempre avuto scarsa percezione dell’unità nazionale, se questa viene intesa come uno stare tutti sulla stessa barca remando insieme con qualcuno che tiene il timone. Tra i politici, in particolare, vedo la tendenza a non volersi assumere tutti le stesse responsabilità. E allora il messaggio ai cittadini è quello di un “vorrei ma non posso” perché c’è sempre qualche buona ragione per dissentire.
Sarebbe auspicabile, invece, una sorta di governo di unità nazionale per far fronte all’emergenza di questi giorni?
Forse la sorprendo, ma le rispondo di no. Io credo che nel Paese debba esserci una condivisione nelle scelte, ma esiste un governo e anche una maggioranza. A partire dal premier Conte, è l’esecutivo che deve assumersi la responsabilità delle decisioni. Con l’opposizione si può discutere, ma bisogna che sia chiaro che, alla fine, deve essere il governo a decidere. E’ importante che si mantenga sempre la chiarezza dei ruoli.
Nella storia politica italiana, ci sono però stati politici capaci di instillare questo senso di unità. Prenda il presidente della Repubblica, Sandro Pertini…
Le caratteristiche di un leader emergono dalla sua storia, professionale ma soprattutto politica. Pertini è stato un grande politico, con una storia personale che è stata fondamentale per cementare il suo rapporto di fiducia con gli italiani. In questo senso parlo di superiorità della classe politica italiana della prima repubblica: quegli uomini e quelle donne avevano alle spalle una storia di resistenza e antifascismo, alcuni di loro erano stati eletti alla Costituente. I politici di oggi, invece, non hanno alcuna storia professionale o politica di rilevo, per questo gli italiani non li percepiscono come migliori di loro. Alcuni, c’è da dirlo, si mettono volontariamente sullo stesso piano della parte peggiore del Paese.
In questi giorni di emergenza, le voci più ascoltate sul fronte politico sembrano essere quelle dei sindaci. Perché?
Perché il politico più noto ai cittadini è regolarmente il loro sindaco, che conoscono di persona e hanno eletto con un sistema elettorale che personalizza la competizione. Inoltre, in Italia ci sono moltissimi sindaci capaci, che tengono un rapporto molto stretto coi loro cittadini, con le parti sociali ed economiche. Non mi stupisce che in questa fase di crisi emergano come punto di riferimento, anzi sono lieto per loro. Lo stesso fenomeno mi sembra emerga anche per il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che viene da una vittoria epocale ed è percepito come riferimento della maggioranza emiliana.
Il Parlamento e i suoi componenti, invece, sembrano non fare lo stesso…
I rappresentanti parlamentari sono completamente scomparsi e questo è deprecabile. Ma la ragione è semplice: molti di loro sono stati paracadutati nei territori di candidatura, quindi non sono un punto di riferimento e non hanno alcun rapporto con chi li ha eletti.
Il governo, invece, riesce a essere più efficace?
Mi sembra che il premier Conte abbia capito di doversi assumere maggiori responsabilità. Del resto, è evidente che a lui piaccia moltissimo farsi ascoltare, argomentare le sue scelte e adora ripetere che è lui a possedere tutte le riflessioni adeguate per gestire la crisi.
Questa crisi insegnerà qualcosa agli italiani, dal punto di vista politico?
L’impressione è che i cittadini ora ascoltino con enorme attenzione i tecnici: il direttore della protezione civile, i medici dell’ospedale Sacco o dello Spallanzani per esempio. Mi sembra che si stia rafforzando l’idea che esistano tematiche importanti per la vita delle persone e che a gestirle debbano essere persone con competenze specifiche. Finita questa emergenza, il Paese si orienterà su donne e uomini che governino sulla base delle loro convinzioni ma soprattutto delle loro competenze. E questo è un dato positivo.
Nessuna tendenza verso il cosiddetto “uomo forte”?
Direi di no. Anzi, credo che dopo questa crisi passerà del tempo prima che la politica riacquisisca un ruolo rilevante. Se si potrà trarre una lezione da questa emergenza sanitaria, sarà che nessuno risolve i problemi da solo ma servono la responsabilità dei politici e la competenza dei tecnici.
Se l’unità nazionale esiste poco, anche quella europea sembra inesistente. E’ anche questa una lezione da imparare?
L’idea che l’Unione Europea sia responsabile di tutto ciò che va male è assurda. L’Ue siamo noi e i nostri governi e l’istituzione fa quello che può, ma sono i singoli stati ad essere riluttanti all’idea di condividere le decisioni. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha il difficile compito di fare sintesi tra esecutivi con posizioni estremamente diverse, molti dei quali sono europeisti a Bruxelles ma nel loro paese scaricano le colpe sull’Unione.
Insomma, l’Ue non poteva comportarsi in modo diverso, in questa crisi?
L’Ue ha reagito con una certa circospezione. Poteva essere più incisiva ma le serviva che gli Stati condividessero la responsabilità, invece tutti sono rimasti alla finestra in attesa. Anche l’Italia si è comportata in modo attendista, sperando che l’emergenza coronavirus non fosse così grave. Ora l’Ue sta facendo il possibile, ma sono i capi dei governi a doversi mettere a disposizione in modo totale.
Pubblicato il 12 marzo 2020 su Il Dubbio
Caro Conte, le sue dimissioni non siano irrevocabili @formichenews
L’anno non è stato “bellissimo”, ma la sua esperienza è stata istruttiva, gratificante, degna di essere vissuta. E adesso prenda l’iniziativa. L’epistola di Gianfranco Pasquino al presidente del Consiglio
Bologna, 9 agosto 2019
Caro Presidente del Consiglio,
le scrivo poiché so che si trova in una situazione difficile, e ancora più forte le scriverò poiché immagino il frastuono intorno a lei. Non ho mai apprezzato la sua interpretazione del ruolo “avvocato del popolo”. Ho sempre pensato che i capi di governo non debbano “difendere” il popolo, ma rappresentarlo e guidarlo. Adesso, però, dopo mesi di penose inadeguatezze di Di Maio e di intollerabili forzature di Salvini, ci vedo meglio. Sì, il popolo deve essere difeso anche dai suoi errori di voto e, aggiungo subito,come consiglio interessato al popolo, deve sapere che perseverare diabolicum est. Lei ha fatto molto bene a rivendicare la sua autonomia, quantomeno istituzionale, e adesso spero che intenda e riesca a sfruttarne tutti i margini. È giusto chiedere che la crisi di governo sia totalmente “parlamentarizzata”. Le crisi extraparlamentari sono state il lato peggiore della Prima Repubblica. Erano disprezzo per il Parlamento, schiaffo al Presidente della Repubblica, cattivo servizio all’opinione pubblica alla quale si negavano informazioni politiche rilevanti, massimo segno di arroganza dei dirigenti di partito. L’hanno pagata, ma troppo tardi e, in sostanza, troppo poco. La mozione di sfiducia dei leghisti e del loro abbronzato “capitano” servirà a narrare che cosa è cambiato, spero non solo i sondaggi, e che cosa vorrebbero fare dopo le elezioni, spero non more of the same, che, adesso non sarebbe loro possibile a causa di (quali?) ostacoli insuperabili. Ci garantiscano anche che hanno già preso tutte le misure necessarie a impedire l’interferenza della Russia nella campagna elettorale prossima ventura.
Credo che lei abbia il potere di chiedere ai due Presidenti delle Camere la loro convocazione relativamente ravvicinata. Vorrei anche che, a dimostrazione che è tuttora capo di questo governo, lei decida rapidamente di procedere alla nomina del Commissario europeo che spetta all’Italia, non alla Lega, non al Movimento 5 Stelle, ma proprio al governo. Faccia il nome. Non vorrei bruciare nessuno, ma l’identikit di un candidato di peso, con competenze economiche, noto a livello internazionale si attaglia perfettamente a Carlo Cottarelli.
I passi successivi dipenderanno dallo svolgimento e dai contenuti del dibattito parlamentare. Le suggerirei di ripetere il suo secco e sobrio discorso di giovedì 9 sera, rimpolpandolo con le cose fatte, le cose da completare, le cose da fare e, naturalmente, mettendo in evidenza soprattutto le convergenze, –le divergenze le urlerà il VicePresidente Salvini, certamente affermando (sic) di averle più volte espresse nel Consiglio dei ministri. O sbaglio? Comunque, tiri un bilancio complessivo in tutto candore. Le suggerirei di dire che, no, l’anno non è stato “bellissimo”, ma la sua esperienza è stata istruttiva, gratificante, degna di essere vissuta: “bellissima” (il professore di Scienza politica che è in me aggiunge subito: “invidiabile”).
Dopo il voto di Camera e Senato scriverò anche al Presidente della Repubblica Mattarella. Avevo più familiarità con Napolitano, ma, insomma sono stato sui banchi del Parlamento anche con Mattarella, per dire come penso debba essere “governata” la crisi. Lei, caro Presidente del Consiglio, dia le sue dimissioni senza aggiungere irrevocabili, e comunichi al Presidente la sua disponibilità a formare un nuovo governo che conduca alle elezioni e le sovrintenda. Non possono essere né i Ministri delle Cinque Stelle né, meno che mai, l’attuale Ministro degli Interni coloro che credibilmente garantiranno un’equa competizione elettorale. Mi rifiuto di pensare che nel paese non esistano venti persone, uomini e donne, dotati di una biografia personale e politica al disopra di ogni sospetto, competenti, equilibrati/e, disposti a dare due mesi della loro attività a un procedimento elettorale limpido. Anche in questo caso, mi sento di fare almeno due nomi: Raffaele Cantone agli Interni e Emma Bonino agli Esteri. Gli economisti sono più controversi, ma il Presidente Emerito dell’Accademia dei Lincei, Alberto Quadrio Curzio ha un curriculum di tutto rispetto. Naturalmente, sarà lei a guidare il governo elettorale.
Non vado oltre, ma mi raccomando, caro Prof Conte: sia assertivo, prenda l’iniziativa, parli alto e forte. Ha dimostrato di saperlo fare. Insista e persista. La Repubblica (no, non il quotidiano) le sarà grata.
Pubblicata il 9 agosto 2019 su formiche.net
Elogio del rimpasto. Dà flessibilità ai governi #vivalaLettura
Nella letteratura politologica sulle coalizioni di governo non si parla di “tagliandi”, come quello ritenuto plausibile dal Presidente del Consiglio Conte nella sua conferenza stampa di fine anno, all’attività di governo Forse, il giurista Conte ha voluto evitare il più noto termine “verifica” che è quanto si è fatto regolarmente nei governi di coalizione italiani del secondo dopoguerra. Peraltro, le verifiche spesso portavano ai rimpasti, vale a dire al cambiamento concordato di alcuni ministri, fuoruscite e nuovi ingressi. Il tutto serviva, da un lato, a registrare i nuovi rapporti di forza fra i partiti della coalizione al governo (e spesso delle vivaci correnti della DC), e, dall’altro, a rilanciare l’azione del governo. Avendo solennemente annunciato l’ingresso dell’Italia nella Terza Repubblica, il noto storico delle istituzioni e costituzionalista Luigi Di Maio non vuole tornare a pratiche della Prima Repubblica (che conosce poco e che, incidentalmente, è l’unica Repubblica che abbiamo): “nessuna ipotesi di rimpasto e, se dovessi fare il governo domani, ripresenterei gli stessi nomi come ministri, ripresenterei la stessa squadra” (dichiarazione del 30 dicembre 2018).
Nelle democrazie parlamentari, quale più quale meno, il rimpasto è fin dall’inizio sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando alcuni ministri sono neofiti, privi di esperienze di governo e persino, capita spesso, ma non dappertutto con la stessa frequenza, di conoscenze specifiche per il Ministero al quale approdano, è possibile/probabile che le loro prove siano non solo inferiori alle aspettative, ma anche al di sotto di quanto è indispensabile per attuare in maniera soddisfacente le politiche del governo. Questo avviene, in particolare, quando il governo è un “Governo per il Cambiamento” che mira a innovare. Poiché in tutte le democrazie parlamentari al governo ci vanno i capi dei partiti che si coalizzano (è appena successo in Svezia dove ha visto la luce un governo socialdemocratico di minoranza con l’appoggio esterno di più partiti, non una novità nella storia politica del paese), sono spesso proprio i capi dei partiti a incoraggiare alcuni ministri “deboli” a lasciare il posto a chi, in Parlamento, ha mostrato di avere maggiori qualità. Talvolta, questa modalità di rimpasto implica un qualche scambio che vede anche ministri degli altri partiti cedere il passo nell’intento duplice di ridare slancio all’azione di governo e di soddisfare le ambizioni di parlamentari dimostratisi capaci, ad esempio, nell’attività delle commissioni.
Esistono poi fattispecie più politiche. Nel caso della Gran Bretagna, alla quale è sempre utile fare riferimento, in quanto madre di tutte le democrazie parlamentari, praticamente tutti i governi conservatori e laburisti hanno proceduto a rimpasti nel corso del loro mandato. Il Primo ministro gode del vantaggio di essere anche il capo del suo partito (rimanendo Primo ministro soltanto se non perde la carica di capopartito) e, dunque, di avere la facoltà di “licenziare” (i termini inglesi sono abitualmente più drastici: sack, fire) i suoi ministri in caso, ad esempio, di dissenso sulle politiche. Talvolta, sono gli stessi ministri dissenzienti ad andarsene nobilmente aprendo la strada al rimpasto. Molto di recente, non condividendo il tipo di accordo (deal) raggiunto dal Primo Ministro May, quattro ministri sono usciti dal governo subito rimpiazzati (rimpastati!). Qualche volta sono dichiarazioni fuori luogo (sessiste e xenofobe) e comportamenti inappropriati (ad esempio, in Germania, il plagio di una tesi di dottorato) che impongono le dimissioni di un ministro. Talvolta ancora l’elemento scatenante è dato dalla scoperta di una qualche forma di conflitto d’interessi, fattispecie non rara neppure nei governi delle democrazie parlamentari europee e no, ma che vengono immediate sanzionate.
Ovviamente, la motivazione più frequente, anche se non sempre resa pubblica, per non indebolire né il governo né il partito del ministro dimissionato, attiene alla capacità, alla competenza, all’operato del ministro stesso. La difesa ad oltranza di un ministro responsabile di errori e di violazioni (anche “a sua insaputa”) non è un segnale di forza del suo partito né del governo del quale fa parte, ma di debolezza. La sorte di nessun governo parlamentare può mai dipendere da quella di un uomo o di una donna che ne faccia parte. La pratica del rimpasto correttamente interpretata e posta in essere è molto concretamente una delle modalità che danno sostanza alla flessibilità e all’adattabilità dei governi parlamentari. Nuove e inusitate sfide, problemi improvvisi e emergenze, inadeguatezza delle personalità che esercitano cariche di governo possono essere affrontati e risolte attraverso un rimpasto rapido e mirato. Lungi dall’essere criticabile, la possibilità di ricorrere al rimpasto della compagine governativa è uno dei maggiori pregi delle democrazie parlamentari. Da custodire, applicare, elogiare.
Pubblicato il 27 gennaio 2019
Di Maio, la Storia, la Costituzione e la Terza Repubblica che non c’è…
Sostiene Di Maio che sta scrivendo la Storia, che sta anche costruendo la Terza Repubblica. Purtroppo, per lui, ma è, ahivoi, in non buona, ma ampia compagnia, non ha finora avuto il tempo di studiarla, la storia, altrimenti saprebbe che la Seconda Repubblica non è mai arrivata in Italia e che la Prima con la sua Costituzione detta le regole e le procedure per la formazione del governo. Se Di Maio non le impara non riuscirà a costruire un bel niente.
Un politico che rinunci ai suoi poteri
Le idee camminano sulle gambe degli uomini” sosteneva memorabilmente quel gran maschilista di Mao Tse-tung. A giudicare dalla loro spasmodica attesa del nome del capo del prossimo governo, i notisti politici italiani a distanza di decenni gli stanno credendo quasi fino in fondo. Invece, no, replicano, qualche volta in maniera contraddittoria, alcuni pochi commentatori. Chiunque verrà scelto da Di Maio e Salvini come Presidente del Consiglio non sarà in grado di fare camminare le sue idee, ma dovrà veicolare le idee dei due capi politici tradotte nel Contratto di Governo. In verità, non è interamente così. Lo è, nel migliore dei casi, solo parzialmente. Primo, forse non saranno Di Maio e Salvini a scegliere il capo del loro governo. Che abbiano già ricevuto qualche monito dal Presidente della Repubblica, ad esempio, sull’inaccettabilità di alcune candidature, è possibile, persino probabile. Che qualcuno abbia ricordato loro che, secondo la Costituzione italiana, è il Presidente della Repubblica che nomina il Presidente del Consiglio, è auspicabile. Che farebbero meglio a sottoporre una rosa di nomi sarebbe opportuno. Qualche pratica della cosiddetta Prima Repubblica, che non soltanto i democristiani seguivano con perizia, risulterebbe piuttosto utile ai neofiti di quella che, molto impropriamente, Di Maio, per attribuirsi il merito di esserne il fondatore, continua a definire Terza Repubblica. Incidentalmente, di Terza Repubblica (1871-1940) ne abbiamo vista una, quella francese, caratterizzata da non poco trasformismo gallico, che giunse del tutto impreparata alla Seconda Guerra Mondiale.
Vicendevolmente bloccatisi dalla corsetta a Palazzo Chigi, avrebbero messo fin da subito a repentaglio la formazione del “loro” governo, Di Maio e Salvini non hanno proposto e formulato nessun criterio per individuare il Presidente del Consiglio. Su un punto, però, sembrano, un giorno sì l’altro no, essere d’accordo: non potrà essere un tecnico (brutta espressione che non dice granché). Dovrà essere un politico. Di tipi “politici”, però, ce ne sono molti: qualcuno che ha già fatto politica? un ex-parlamentare? oppure un parlamentare attualmente in carica? Un rappresentante del Movimento 5 Stelle oppure della Lega? Qualcuno proveniente da uno schieramento terzo, meglio se non più esistente? Un politico senza potere personale, ma con un passato più o meno glorioso o sfumato? Qui fa inevitabilmente comparsa il quesito se il Presidente del Consiglio “giallo-verde” finirà per essere un mero esecutore del Contratto di Governo oppure se avrà/potrà svolgere un ruolo attivo.
Il paragone con i Presidenti del Consiglio della cosiddetta Prima Repubblica è alquanto fuorviante. Molti di quei capi di governo eseguivano le politiche formulate e decise dai dirigenti dei partiti che facevano parte della coalizione governante. Pochissimi avevano attivamente partecipato ai negoziati sulle politiche. In molti casi, la loro reale capacità consisteva nel tenere insieme il più a lungo possibile coalizioni litigiose e dirigenti/sfidanti ambiziosi nella consapevolezza che una loro caduta, molto probabile, non precludeva un re-incarico né un ritorno al governo in altra carica ministeriale. Nell’attuale congiuntura le incognite si sono moltiplicate. Certo, se il prossimo Presidente del Consiglio sarà un esecutore oppure riuscirà a essere/diventare un protagonista dipenderà moltissimo dalla sua biografia politica e dalle sue capacità da dimostrarsi in corso d’opera. Probabilmente, la sua statura si misurerà su una qualità che anche nella Prima Repubblica fu molto apprezzata: sapere stemperare i probabili conflitti, disinnescare le tensioni, garantire ascolto alle preferenze dei due leader e dei loro ministri, mediare senza eccedere, soprattutto senza acquisire una popolarità che vada a scapito dei due contraenti. Sarebbe la rivincita dello stile di leadership della Prima Repubblica, ma anche, tutto sommato, fatta salva la qualità, per ora non valutabile, delle politiche condivise, un buon viatico per il governo. Per adesso, Di Maio e Salvini sono ancora senza nome. Domani sarà un altro giorno?
Pubblicato AGL 15 maggio 2018
Il governo è più vicino di quanto si pensi
La maggioranza dei pur maldestri commentatori politici italiani si sono già esibiti sulla difficoltà di creare un governo in una situazione di “tripolarismo”. In verità, il problema nelle democrazie parlamentari non è l’esistenza di una pluralità di poli, ma la distanza ideologica e/o programmatica fra quei poli. In subordine, è anche la differente consistenza in termini di voti e seggi. In più ci sono aspettative e ambizioni personali collegate alla manipolazione, mai sufficientemente criticata, delle modalità con le quali si diventa Presidente del Consiglio in Italia. Anche se qualcuno pervicacemente continua a sostenere che bisogna superare la fase di governi non eletti dagli italiani, nessun governo è mai stato eletto da questi italiani. Nelle democrazie parlamentari non esiste nessuna legge elettorale che dà vita a governi, neppure il sistema maggioritario inglese. Il governo nasce sui numeri dei seggi e il suo capo è colui (colei?, jawohl, Angela) che riesce a mettere insieme una coalizione, a renderla operativa, a farla durare nel tempo. Dai tedeschi, di recente, per tutti coloro che non lo sapevano, abbiamo imparato che ci vuole tempo per costruire la coalizione di governo. Dagli spagnoli, per coloro che non si fossero mai curati dei governi socialdemocratici svedesi e laburisti norvegesi, potremmo persino avere imparato che, nelle democrazie parlamentari, nascono anche governi di minoranza sostenuti dall’esterno.
Sono fiducioso che tutti quelli che straparlano di una Prima Repubblica che, per ragioni anagrafiche non hanno conosciuto e che, per manifesta ignoranza, non hanno studiato, riusciranno per vie traverse a imparare che qualche volta i democristiani delegavano al Presidente della Repubblica di offrire agli altri partiti invitati a fare parte della coalizione di governo una rosa di nomi DC fra i quali scegliere il Presidente del Consiglio. È comprensibile il punto di partenza negoziale di Di Maio e delle 5S: lui è il nome che intendono sostenere per guidare il governo. Più duttile, Salvini ha capito che non sarà lui il capo del governo, ma giustamente rinuncerà solo se, in un’alleanza con le 5S, emergerà un nome diverso da quello di Di Maio. È probabile che questi apprendimenti siano, da un lato, la conseguenza degli scambi più o meno polemici sui giornali e nei talk show. Dall’altro, però, deve essersi già manifestata la forza tranquilla del Presidente Mattarella che qualcosa ha sicuramente detto nel primo giro di consultazioni e qualcosa si appresta ad aggiungere nel secondo giro, mentre tende l’orecchio a novità che gli siano formalmente comunicate.
Non è una novità il Contratto che le 5S spacciano come un’invenzione tedesca, mentre la sua origine è il Berlusconi istrione della politica ospitato da Bruno Vespa. Quanto è avvenuto in Germania nel corso di incontri ravvicinati non è un contratto di Democristiani e Socialdemocratici con i tedeschi. È stato, invece, il tentativo di combinare in un testo accettabile da entrambi i punti fondamentali dei rispettivi programmi elettorali per giungere a un programma di governo condiviso. Quel programma, poi, è stato portato, atto senza precedenti, per la sua approvazione/ricusazione agli iscritti alla SPD. Prima delle consultazioni, ma anche durante, il Presidente Mattarella ha fatto conoscere un suo punto programmatico irrinunciabile: “stare in Europa” che, naturalmente, non preclude affatto il farsi valere per cambiare le politiche e le istituzioni dell’UE, ma certo relega molto sullo sfondo qualsiasi tentazione-scivolamento di tipo sovranista.
Dal calendario e dai tempi delle consultazioni possiamo trarre un altro insegnamento. Il Presidente assiste al travaglio interno al Partito Democratico. Non intende sottovalutarlo e non vuole accelerarlo. Come si conviene alla sua origine politica, al suo percorso e alla sua visione complessiva, Mattarella ha in almeno un paio di occasioni sottolineato che è necessario grande senso di responsabilità che non può limitarsi ad attribuire agli elettori posizioni inconoscibili. Non conosco elettori del PD che votando il loro partito intendessero mandarlo all’opposizione. Ho anche molti sospetti sull’esistenza di elettori della Lega che l’abbiano votata per farle fare il socio di minoranza in un governo presieduto da Di Maio e su elettori delle Cinque Stelle che siano indisponibili ad un governo con il Partito Democratico. Non siamo neanche ancora arrivati al confronto sui contenuti effettivi dei programmi elettorali che già un po’ tutti, meno il PD che non sa che cosa vuole, stanno dicendo e, probabilmente, l’hanno anche fatto sapere a Mattarella, a cosa sono disposti a rinunciare. Recede la malsana idea che si torni presto alle urne per trovarsi con una situazione simile all’attuale, con tutti, anche chi crescerà di un punto percentuale o due, più malconci. Il governo non è dietro l’angolo, ma l’angolo è meno lontano di quel che si pensi.
Pubblicato il 12 aprile 2018