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Le inafferrabili condizioni per la fine del conflitto @DomaniGiornale

Ascolto e leggo con perplessità e grande preoccupazione tutto quello che viene detto e scritto in maniera non prevenuta e faziosa su come può/deve finire l’aggressione russa all’Ucraina. Nessuno, neppure Xi Jinping, sembra avere abbastanza potere per influenzare le decisioni di Putin, ma, forse, non abbiamo conoscenze sufficienti per sapere e capire che cosa pensa e dice il suo entourage, chi la pensa come lui chi ha dubbi e preferenze diverse. Anche se è certamente più facile analizzare le informazioni disponibili su quel che pensano e vorrebbero gli Europei e gli USA, ho l’impressione che in molti non sia ancora stata raggiunta la consapevolezza che in Ucraina, sull’Ucraina si sta “giocando” non solo la più che legittima, inviolabile sovranità di una democrazia, ma il futuro dell’ordine mondiale internazionale.

   Sicuramente, all’inizio Putin voleva dare una lezione sulla potenza di fuoco della Russia, sul suo status e per il riconoscimento di un ruolo di assoluto rilievo. Oggi, proprio in seguito alle difficoltà incontrate, si è accorto che una sua eventuale vittoria, i cui criteri sono difficili da definire, potrebbe produrre frutti molto più copiosi. Non si tratta solo di ampliare il Lebensraum russo, esito temutissimo da tutti i paesi confinanti, ma di scardinare l’Unione Europea e, mostrando che gli USA non saprebbero come difenderla, rendere più largo l’Atlantico. A quel punto, indirettamente, Putin darebbe ancor più sostegno (im)morale alle mire cinesi su Taiwan.

   La consapevolezza che, in effetti, gli scopi della guerra di Putin sono diventati più ambiziosi e devastanti sta lentamente diffondendosi nelle elite politiche e militari occidentali, appena ritardata dalle loro preferenze contrarie: vorrebbero che non fosse così. La partenza di qualsiasi negoziato è pertanto diventata ancora più improponibile poiché nessuno all’Ovest può accettare un nuovo ordine mondiale che certificherebbe una sconfitta, ideale prima che militare, e che ne esporrebbe tutta la vulnerabilità a qualsiasi richiesta futura della Russia di Putin. In assenza di canali negoziali, non resta che la via di una esposizione trasparente di quanto l’Occidente è, da un lato, impossibilitato a cedere, ovvero, la vita e la terra degli ucraini, e dall’altro, può garantire a Putin, non scrivo russi poiché delle loro preferenze non ho informazioni. Interpreto benevolmente, forse fin troppo, la richiesta personalistica di Macron di salvare la faccia dell’autocrate del Cremlino, purché quella faccia si mostri disponibile ad una tregua negoziale il prima possibile, nell’anniversario dell’inizio dell’operazione speciale militare. Ho già scritto, senza particolare originalità, che chi perde la guerra deve andarsene, ma, nella limitata misura del possibile, saranno i russi a decidere, meglio dopo una cessazione negoziata e definitiva del conflitto.  

Pubblicato il 22 febbraio 2023 su Domani

Non esistono despoti che fanno anche cose buone @DomaniGiornale

Nell’aprile del 1917 per ottenere l’approvazione del Congresso ad entrare in guerra contro la Germania il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson dichiarò memorabilmente che l’obiettivo era “make the world safe for democracy”. Parecchi anni dopo i Padri Fondatori dell’Unione Europea si posero un obiettivo simile, ma più limitato: rendere il continente europeo un posto sicuro per le democrazie, dove non si facessero più guerre. Dopo il crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica, questo obiettivo, già messo al sicuro dentro il perimetro delle democrazie occidentali, è apparso conseguibile. L’ascesa di Putin e la sua aggressione all’Ucraina ritardano qualsiasi ulteriore sviluppo democratico e rendono necessari opportuni ripensamenti che, però, non possono nemmeno per un momento mettere sullo stesso piano le democrazie occidentali e il regime autoritario russo. In parte comprensibile anche se, forse, non proprio giustificabile, fu la valutazione del ruolo “positivo” svolto dall’URSS sulla scena internazionale come contrappeso degli Stati Uniti. Ma polacchi, ungheresi, cecoslovacchi, i cittadini degli Stati baltici hanno tutto il diritto di pensarla molto diversamente. Invece, non si capisce proprio quale merito possa essere riconosciuto a Putin.

   Come si sia formata e esternata l’amicizia fra il liberale, cristiano, garantista e europeista Berlusconi e lo zar del Cremlino è un mistero non glorioso. Certo l’argent di Putin può essere stato utile a Salvini e alla Lega, ma quale futuro radioso poteva nascere dall’esibizione compiaciuta di una t-shirt con l’effigie di un tiranno? Last but not least, ultimo, ma tutt’altro che irrilevante, l’attuale Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato, meglio tardi che mai, di avere esagerato nel criticare le manovre Nato sul confine russo e di avere sottovalutato le mire espansioniste di Putin. Ben venuto il ravvedimento di Crosetto (quanto a Berlusconi e Salvini sono personalmente incerto, ma anche loro…), rimane, tuttavia, il problema/obiettivo generale evocato dalla frase di Wilson. Se è auspicabile rendere il mondo un posto sicuro per le democrazie, come possono coloro che vivono nei regimi democratici ritenere possibile quell’esito collocandosi dalla parte degli autocrati, dei despoti, dei tiranni? Costoro vogliono ridurre il numero delle democrazie, per esempio, altrove, piegando quel che c’era di democrazia a Hong Kong e apprestandosi a soffocarla a Taiwan. Riscuotono aiuti da altri regimi autoritari, come la teocrazia iraniana e non solo. Si spalleggiano a vicenda.

   Quando leggo libri che raccontano come muoiono le democrazie, mi chiedo se non sia il caso che gli autori esplorino chi uccide le democrazie, cambino il titolo e offrano una spiegazione basata sulle sfide che i non-democratici lanciano dall’interno alle loro democrazie vigenti, magari lodando e esaltando alcuni dei molti modelli antidemocratici esistenti nel mondo e i loro “attraenti” protagonisti. La democrazia bisogna praticarla e insegnarla (anche viceversa). Bisogna anche dire a chiarissime lettere che esiste un linea divisoria netta fra democrazie e non-democrazie. Che soprattutto i liberali dovrebbero essere i primi a respingere l’idea che possano esistere democrazie “illiberali”. Lasciamo che siano gli oppositori degli autoritarismi, quando sperabilmente sono riusciti a sopravvivere, a testimoniare che quei leader autoritari hanno fatto anche qualcosa di buono.  

Pubblicato il 1 febbraio 2023 su Domani

Monchi e orbi #UnioneEuropea

Monchi i commenti su quel che fa l’Unione Europea e orbi i commentatori. La loro “narrazione” è sempre centrata su quel che manca, sui dissidi, sulle lentezze. Non coglie quasi mai con lo stessa intensità quello che, certo a fatica e con lunghi e complessi negoziati, ventisette capi di governo riescono a fare: sei cicli di sanzioni alla Russia dell’aggressore Putin, politiche condivise su petrolio e gas russo, transizione energetica. Due Stati membri, Svezia e Finlandia, che entrano nella Nato. Concessione dello status di paese candidato all’Ucraina con Albania e Macedonia del Nord che avanzano. Eppur, l’UE si muove.

La gradualità delle sanzioni è la strada su cui continuare @DomaniGiornale

Variamente, ma non del tutto, offuscato è in atto sul territorio dell’Ucraina uno scontro di enorme significato fra le democrazie e i regimi non-democratici. Visibilmente, non affatto al di là delle sue intenzioni, Vladimir Putin, capo del regime autoritario russo, vuole provare che le democrazie liberali non sono in grado di difendersi. Sono giunte alla fine della loro traiettoria storica. Xi Jinping, capo del regime totalitario cinese, non sta semplicemente a guardare. Già da qualche tempo progetta la conquista di Taiwan, sistema politico che con la sua esistenza e il suo funzionamento costituisce la prova provata che i cinesi sono tutt’altro che refrattari a istituzioni e pratiche democratiche. Se Putin vince, non mi pare utile cullarsi nell’illusione che una sua vittoria sia assolutamente da escludere, Xi Jinping e con lui tutto il gruppo dirigente della Cina ne trarranno la conclusione che è possibile sfidare con successo le democrazie, con gli USA già alcuni decenni fa memorabilmente definiti una tigre di carta.

   Le democrazie dentro e fuori l’Unione Europea sanno che le loro opinioni pubbliche non sono inclini a pensare che la risposta a Putin debba consistere in azioni di guerra. Dunque, comprensibilmente si sono affidati a una vasta gamma a di attività che colpiscano Putin, gli oligarchi, i suoi sostenitori, compreso l’arcivescovo Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie e chierichetto (copyright Papa Bergoglio) al servizio di Putin, tanto improvvidamente quanto deliberatamente “salvato” da Orbán. Tutti coloro che hanno letto anche un solo libro sulla guerra sanno che per lo più i contendenti mirano alla proporzionalità delle risposte per evitare qualsiasi pericolosa escalation. La gradualità con la quale l’Unione Europea ha finora provveduto a comminare sanzioni a persone e a cose risponde concretamente al principio della proporzionalità.

   Quanto più il conflitto si allarga, con i russi che continuano le loro attività belliche e le estendono, tanto più diventa necessario e ineludibile individuare e colpire le fonti di quelle attività e le risorse che le rendono possibili. Non può sorprendere che ogni Stato-membro dell’Unione valuti le conseguenze delle sanzioni anche con riferimento all’impatto sulla propria economia e sulla capacità di sopportazione della sua società. Poiché non esiste nessuna bacchetta magica che colpisca l’intero apparato produttivo e tutto il sistema economico russo, la gradualità è la strada, già intrapresa, lungo la quale continuare. Al contempo, ma i primi segnali sono visibili, appare indispensabile che a livello di UE si trovino le modalità più eque per la ripartizione dei costi delle sanzioni e ci si impegni a individuare le trasformazioni strutturali che rendano l’Unione tutta e gli Stati-membri meno vulnerabili. Questa è la strada per la cessazione del conflitto. Il resto verrà.

Pubblicato il 4 giugno 2022 su Domani

Interesse nazionale: nella Nato, nella UE, mai con i nemici della democrazia @formichenews

Solo i sovranisti disinvolti e superficiali possono credere, illudendosi, che, andando da soli, meglio e più proteggerebbero l’interesse nazionale, della patria. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica

Un grande (sic) paese ha, comunque, in maniera lungimirante una sola politica estera condivisa fra governo e opposizione e, naturalmente, soprattutto all’interno del governo. Le più o meno acrobatiche prese di distanza diversamente effettuate da Conte e da Salvini sono deplorevoli. Altrettanto deplorevoli sono le dichiarazioni intrinsecamente pro Putin di Silvio Berlusconi: dal sen sfuggite poi capovolte e, poiché personalmente sono un commentatore sobrio e austero, non mi chiederò cos’altro sta nel sen di Berlusconi. La politica estera di un paese, più o meno grande, deve, come scrisse e argomentò il tedesco Hans Morgenthau (1904-1980, esule negli USA, uno dei maggiori studiosi di sempre di Relazioni internazionali, costantemente ispirarsi all’interesse nazionale. Naturalmente, quell’interesse deve essere definito chiaramente, condiviso politicamente e interpretato ogni volta che entra in contatto con la realtà effettuale (l’aggettivo è di Machiavelli, maestro del realismo in politica).

   Quell’interesse può essere proposto, protetto e promosso attraverso alleanze, come la Nato, e organizzazioni, come l’Unione Europea. Solo i sovranisti disinvolti e superficiali possono credere, illudendosi, che, andando da soli, meglio e più proteggerebbero l’interesse nazionale, della patria. Comprensibilmente, ogniqualvolta scatta la necessità di proteggere l’interesse nazionale all’interno di organizzazioni sovranazionali è possibile che ciascuna delle nazioni che ne fanno parte esprima preferenze relativamente diverse, mai divergenti. Organizzazioni democratiche al loro interno hanno le capacità e sanno come ricomporre una pluralità di interessi a cominciare da quello, nettamente prioritario e sovrastante, della difesa, della sopravvivenza.

   Che questo interesse sia essenziale nell’attuale fase di aggressione russa all’Ucraina è stato prontamente compreso da Finlandia e Svezia che lo hanno tradotto nella richiesta di adesione alla Nato. Pur esercitandosi in qualche, piccolo e sgraziato, ma, presumibilmente, solo estemporaneo, giretto di valzer, anche i Cinque Stelle e la Lega, capiscono che la Nato è l’organizzazione che garantisce la miglior protezione dell’interesse nazionale. Le loro accennate differenze di opinione con il governo “Draghi-Di Maio” sono, però, fastidiose punture di spillo non giustificabili neppure con riferimento a incomprimibili (per Salvini permanenti) pulsioni elettoralistiche.

   In definitiva, credo che tutti coloro che auspicano la fine dell’aggressione russa all’Ucraina e l’autodeterminazione dei popoli, stiano acquisendo due consapevolezze. La prima è che qualsiasi cedimento a Putin non lo incoraggerà ad accettare le trattative. La seconda, ancora più importante, a mio papere decisiva, è che è nell’interesse nazionale dei paesi democratici promuovere, non sulla punta delle baionette e sulle rampe di lancio dei missili (in che modo lo scriverò un’altra volta), la democrazia. Da Immanuel Kant sappiamo che sono le federazioni fra le repubbliche (per Kant il termine che identifica i sistemi politici che operano a favore della res publica, il benessere collettivo) a porre fine ai conflitti, non i regimi autoritari e i loro leader con i quali i democratici possono, perseguendo l’interesse nazionale, trattare, ma per i quali non possono mai sentire “amicizia”.

Pubblicato il 22 maggio 2022 su Formiche.net

Lo zar piace a una destra che non capisce la democrazia @DomaniGiornale

La triste delusione nei confronti di Putin dei due principali esponenti del centro-destra italiano è facilmente spiegabile. Pur continuando a controllare e punire la stampa e le giornaliste, avendo chiaramente ottenuto la sottomissione della magistratura che ha regolarmente fatto il suo “dovere” (sic), di recente condannando Alexei Navalny, l’aggressione del leader russo all’Ucraina non è riuscito a fornire la prova cruciale che il suo è un governo/regime di successo. Adesso Salvini spera di evitare ulteriori delusioni chiedendo la fine dell’invio di armi agli ucraini che si difendono. Invece, Berlusconi non riesce a nascondere la sua amarezza. L’amico Putin gli era apparso “un uomo di grande buonsenso, di democrazia, di pace. Forse, ma questa è una mia aggiunta personale che, però, spero condivisa, Putin non ha mai neppure voluto, come Berlusconi, lanciare una grande rivoluzione liberale. Che errore!

   L’incantamento per Putin dei due alleati del centro-destra italiano si accompagna alle critiche agli USA, alla Nato, all’Unione Europea, che provengono da alcuni, minori, ma non troppo, settori della sinistra. Queste critiche sono facilmente spiegabili: un irreprimibile anti-americanismo che sta nelle loro viscere profonde e al quale non riescono ad opporre nessun ragionamento e, magari, lo dirò da professore, nessuna lettura di storia, di relazioni internazionali, di scienza politica. Senza esagerare con la retorica, quello che manca ai Berlusconi e ai Salvini, ma anche ad alcuni esponenti di sinistra e delle Cinque Stelle, è una concezione decente della democrazia. Qui sta la radice dell’illusione berlusconiana (e salviniana) con Putin.

   Nessun “sincero” democratico avrebbe mai espresso apprezzamento e addirittura amicizia per un capo di Stato e di governo autoritario, repressivo, persecutore del dissenso, silenziatore dell’opposizione. Su questo terreno, più precisamente, il funzionamento di un sistema politico e lo spazio della società civile, Berlusconi (con Salvini) dovrebbero interrogarsi. Non basterà loro chiamare come testimoni a discarico quei filosofi e storici di sinistra per i quali le democrazie hanno fallito. Alcuni di costoro riescono addirittura a esercitarsi con concetti screditati da molti decenni, come democrazia autoritaria, e fatti rivivere da dirigenti politici di dubbia democraticità nell’esercizio del potere con modalità e strumenti di natura illiberale.

   Magari un giorno ascolteremo gli amici del capo del Cremlino sostenere che Putin ha fatto anche qualcosa di buono. Vorrà soltanto dire che troppi non avranno ancora capito quale grande conquista è la democrazia anche con le sue inevitabili, ma superabili, inadeguatezze. In nessun modo significherà che è accettabile essere amici e estimatori di coloro che la democrazia la ignorano e mirano a calpestarla.

Pubblicato il 18 maggio 2022 su Domani

Europeismo, atlantismo e le dure elezioni per i due leader @formichenews

La strada per la pace con giustizia sociale in Europa passa sicuramente per, se non la sconfitta di Putin, il ritiro delle sue truppe. La strada per la riduzione dei pericoli di altre guerre nell’Europa (sic) orientale richiede proprio un regime change, cioè che Putin venga “convinto” a lasciare il potere. Anche di questo si deve parlare senza ipocrisia e senza buonismi. Il corsivo di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Preferisco sentirlo dire da Draghi che cosa ha fatto a Washington, che cosa si sono detti con il Presidente Biden, che cosa pensano di potere realizzare operando più strettamente. Evitata la bizzarria di comunicazioni prima del viaggio, come chiedevano i soliti noti, Draghi riferirà in Parlamento sul fatto e sul non fatto. Credo che il punto di partenza debba essere strutturale. Nelle parole di Stefano Feltri, Direttore di “Domani”, Draghi è “il più europeista degli atlantisti e il più atlantista degli europeisti”. Non mi esercito sui meno europeisti degli atlantisti italiani (quasi sicuramente Giorgia Meloni) e sui meno atlantisti degli europeisti (non pochi loquaci esponenti dei gruppuscoli di sinistra), ma mi chiedo e mi auguro che qualcuno lo chieda a Draghi nel dibattito parlamentare, dove si colloca il punto di equilibrio di politiche che è indispensabile siano coerentemente atlantiste e di politiche che siano effettivamente europeiste.

   Un atlantismo più forte richiede che gli USA riconoscano i problemi che l’Unione Europea deve affrontare e risolvere, mentre un europeismo più efficace si fonda sulla capacità di fare avanzare l’Europa e i suoi confini nei ritmi e nei modi che gli europei stessi scandiscono e scelgono. Hanno parlato anche di questo Biden e Draghi? Non voglio esercitarmi nell’interrogativo, pure importante, se la priorità di giungere a porre termine all’aggressione russa all’Ucraina ha finito per impedire qualsiasi riflessione di più lungo periodo, l’inizio di una visione, di una preparazione del futuro possibile. La strada per la pace con giustizia sociale in Europa passa sicuramente per, se non la sconfitta di Putin, il ritiro delle sue truppe. La strada per la riduzione dei pericoli di altre guerre nell’Europa (sic) orientale richiede proprio un regime change, cioè che Putin venga “convinto” a lasciare il potere. Anche di questo si deve parlare senza ipocrisia e senza buonismi.

   Chiaro che con la sua autorevolezza Draghi ha comunicato al Presidente Biden che il più preoccupante e il più incombente dei problemi di gran parte dell’Europa e soprattutto dell’Italia riguarda l’accesso a fonti di energia alternative a quelle russe. Bisogna costruire una differente politica energetica, che implica anche trovare le modalità migliori per effettuare una transizione energetica che dia un aiutino immediato e significativo al salvataggio di quel che resta del pianeta.

Per quanto, personalmente, la mia inclinazione consiste sempre nel cercare i fattori strutturali e nel farvi riferimento costante per la comprensione dei fenomeni politici, non posso non concludere con un timore e una considerazione preoccupata. Il timore è che, per quanto necessario e rispettoso delle prerogative istituzionali, il dibattito parlamentare con le varie anticipazioni nei talkshow rischi di essere un torneo oratorio con i soliti verbosi retori. La considerazione preoccupata riguarda il futuro di Biden e Draghi. Il Presidente USA sta andando incontro ad una sconfitta di proporzioni significative nelle elezioni di metà mandato che potrebbero renderlo un’anatra zoppa. D’altro canto, è già possibile con molti mesi d’anticipo affermare che il successore di Draghi alla Presidenza del Consiglio dopo le elezioni del marzo 2023 non avrà certamente la sua autorevolezza e le sue posizioni euro-atlantiste. Whatever will be will be (frase non di Draghi).

Pubblicato il 11 maggio 2022 su Formiche.net

Il M5S resterà al governo, non ha niente di meglio Ma è come se non ci fosse #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, spiega che «Letta ha avuto bisogno dei Cinque Stelle ma loro potrebbero anche scegliere di tornare con Salvini» ma tutto dipenderà dalla legge elettorale. «Se ci fosse una legge elettorale proporzionale ciascuno correrà da solo e le alleanze si faranno dopo», commenta. Sulla guerra è netto: «Sono contento che Papa Francesco cerchi di diventare un mediatore, ma è difficile esserlo quando dall’altra parte c’è una chiesa comandata da un chierichetto del regime».

Professor Pasquino, crede che i malumori nel Movimento 5 Stelle porteranno a una crisi di governo nelle prossime settimane?

I Cinque Stelle rimarranno al governo perché non hanno niente di meglio. Ma è come se non fossero già più al governo. Hanno dimostrato di non sapere governare e che il loro programma conteneva un sacco di contraddizioni. Conte guida queste contraddizioni e sta cercando di recuperare qualcuno che se ne è andato. Quindi deve essere un po’ più di lotta e meno di governo ma nessuno può pensare di fare una crisi in questo momento.

Queste contraddizioni potrebbero mettere a repentaglio l’alleanza con il Pd?

L’alleanza è sempre stata molto problematica. Letta ha avuto bisogno dei Cinque Stelle ma loro potrebbero anche scegliere di tornare con Salvini, che però in questo momento è in declino. Ma di tutto questo non parlerei finché non si avrà un orizzonte più chiaro sulla legge elettorale.

Pensa a un ritorno al proporzionale?

Se ci sarà una legge elettorale proporzionale ciascuno correrà da solo e le alleanze si faranno dopo. Bisogna però aspettare di vedere cosa faranno. Mi auguro si arrivi a un proporzionale senza pasticci e stupide clausolette. Poi si conteranno voti e seggi.

È proprio convinto che questa legge elettorale verrà cambiata?

Può darsi anche che non riescano a cambiarla ma qualcosa hanno già fatto. Cioè hanno trovato il modo di usare la stessa legge cambiando i collegi, visto che sono stati ridotti i parlamentari. Non so se questo basterà a incoraggiare l’alleanza tra Cinque stelle e Pd ma c’è un 30 per cento di possibilità che la legge rimanga la stessa.

Crede che dalla legge elettorale passerà anche il futuro della coalizione di centrodestra?

Solo in parte, perché quel che è certo è che c’è una frattura chiara tra Meloni, Salvini e Berlusconi. Sto parlando delle questioni europee e internazionali. Per molte ragioni, alcune buone altre meno, Berlusconi e Tajani sono costretti a essere europeisti. Per altrettante ragioni, meno buone, Salvini e Meloni sono apertamente sovranisti. Soltanto che Salvini deve barcamenarsi tra due fuochi, visto che è al governo, mentre Meloni ha mani libere. Per questo dico che potranno anche trovare un accordo ma non troveranno la compattezza che chiedono gli elettori di centrodestra.

Una delle differenze più evidenti è il dichiarato atlantismo di Meloni e Berlusconi e l’ambiguità di Salvini. Sarà questo a fare la differenza?

Certamente il filoatlantismo è uno dei punti di forza della Meloni. È riuscita a dichiararsi tale senza diventare troppo europeista e nel centrodestra questa è la posizione migliore. Perché non deve far dimenticare nessuna sua dichiarazione avventata nei confronti di Putin, come nel caso di Salvini e Berlusconi, e quindi viaggia in un binario di sufficiente coerenza. Gli altri hanno tutti qualcosa da farsi perdonare.

Anche nel centrosinistra c’è molta dialettica, con Conte che sembra voler strappare a Letta temi storicamente di sinistra, come il pacifismo. Ci riuscirà?

Vedo che nei sondaggi Letta tiene. È quello che ha la posizione più coerente. È la stessa posizione dell’Europa e quindi non ha bisogno di nessuna giustificazione. Sono gli altri che devono fare i conti con la situazione internazionale. Conte è ambiguo, così come lo è una parte della sinistra che è pacifista per ragioni sbagliate e non sa neanche declinare il pacifismo, finendo per sembrare pro Russia e pro Putin. L’unico che mantiene una posizione decente è lo stesso Letta.

A proposito di guerra, che idea si è fatto sulle continue polemiche nella comunicazione, in Italia e non solo?

Dovremmo partire da una posizione inoppugnabile. Si tratta di un’aggressione russa all’Ucraina. E il Papa non può dire che la Nato abbaiava dimenticando che Putin è un cane che morde. Se anche il cane abbaia, ci si può allontanare o comunque prendere provvedimenti, ma se morde bisogna difendersi per forza di cose. Sulla questione dei talk penso che gli ospiti abbiano spesso posizioni ideologiche e quindi non dovrebbero essere coccolati come accade quasi sempre.

Ha criticato le parole del Papa, dunque non crede che quella vaticana potrebbe essere la strada giusta per una mediazione?

Sono contento che Papa Francesco cerchi di diventare un mediatore, ma è difficile esserlo quando dall’altra parte c’è una chiesa comandata da un chierichetto del regime. Come si fa a mediare se si ha una posizione che, giustamente, critica di petto quello che la chiesa ortodossa sta facendo, che ovviamente è drammatico? Se poi riesce a mediare sono contento, se invece mi chiede se questa mediazione porterà a un risultato le rispondo che non sono convinto. Il giusto mediatore potrebbe essere l’Onu, ma Putin ha maltrattato Guterres. Poteva esserlo anche Erdogan, ma è sparito.

Il prossimo viaggio di Draghi a Washington rinsalderà l’amicizia tra Italia e Usa o pensa potrebbe creare qualche grana a Draghi, vista la presenza nel governo di Lega e M5S?

Sbagliamo a pensare che ci sia una ritrovata amicizia tra Italia e Stati Uniti. L’atlantismo è irrinunciabile per l’Italia e per l’Europa democratica. C’è una strada tracciata e di volta in volta facciamo i conti con le posizioni dei presidenti americani, ma l’amicizia è sempre rimasta solida. Draghi mi sembra abbia preso una posizione giusta sia rispetto alla guerra, utilizzando aggettivi non da lui ma che condivido, sia nei confronti degli Stati Uniti, mettendo dei paletti che credo Biden rispetterà.

Pubblicato il 7 maggio 2022 su Il Dubbio

Il regime change in Russia è realistico @DomaniGiornale

Fra gli obiettivi della aggressione di Putin all’Ucraina probabilmente il più importante era, e sicuramente rimane, quello di fare cadere il Presidente democraticamente eletto Zelenski e di sostituirlo con un Presidente fantoccio. Questo obiettivo si chiama tecnicamente regime change. Lascio l’arduo compito di discettare sui precedenti recenti di cambiamenti di regime, quantomeno di leadership, soprattutto quello relativo a Saddam Hussein, ai commentatori prezzolati dei talk show. Rilevo che anche soltanto un minimo di conoscenze storiche suggerisce che le guerre finiscono sostanzialmente con l’esclusione dal potere politico di coloro che, avendole scatenate, le hanno perse inevitabilmente trascinando nella loro sconfitta, non soltanto il paese, ma soprattutto la cerchia dei loro sostenitori, profittatori e furfanti. Poi, naturalmente, il nuovo regime, che non è affatto detto che diventi immediatamente una democrazia, avrà bisogno di una qualche legittimità politica e sociale. Potrebbe essere quella derivante da coloro che, facendo cadere il dittatore, sono in grado di vantarsi di avere evitato morti e distruzioni. Rimanendo alla storia che, magari anche se non riesce a essere magistra vitae, qualcosa a chi la studia e la ricorda è sempre in grado di insegnare, evoco un esempio di straordinario successo. Fu grazie alla moglie giapponese del loro ambasciatore a Tokyo che gli americani si lasciarono convincere che la figura dell’imperatore era indispensabile per guidare la transizione dal militarismo alla democrazia. Ben gliene incolse.

La Russia di Putin non è necessariamente tutta un’altra storia. Certo esistono molte differenze, ma alcune non riguardano affatto le modalità dittatoriali e ricattatorie nei confronti degli oligarchi e dei siloviki che Putin ha in parte creato in parte agevolato e la cui esistenza, userò una gamma di parole forti: fedeltà e lealtà, forse anche connivenza, vengono messe a durissima prova. “Provati” sono anche i generali che combattono una guerra, forse da loro non voluta, con armamenti inadeguati e con reti di sostegno evidentemente malstrutturate e insufficienti. Gli oligarchi ci rimettono le ricchezze, i fasti e gli agi, per loro stessi e per le loro famiglie alquanto allargate. Molto probabile è che i generali non vogliano rimetterci, più che la carriera, la faccia, la reputazione. Sembra, dunque, logico pensare e, per quel che mi riguarda, auspicare che a Mosca e dintorni vi sia chi si sta interrogando sulle modalità con le quali uscire da una situazione che non promette vittoria. Qualcuno può essere già giunto alla convinzione che sia assolutamente indispensabile sostituire Putin: cambio di regime. Insisto: è un obiettivo più che legittimo, meno costoso in termini di vite umane della prosecuzione della guerra, più promettente anche per tutti coloro, a cominciare dal Papa, che desiderino una situazione di fuoruscita dal conflitto che riesca a sfociare in qualcosa di non umiliante per i russi e per quella parte di leadership politica che si orienti alla sostituzione di Putin. Sicuramente, questo obiettivo non può essere apertamente dichiarato da chi sostiene gli ucraini. Molto più di altri i dittatori non debbono mai essere messi con le spalle al muro. Pertanto, tocca a coloro che ne furono/sono sostenitori procedere al cambiamento anche per vantare meriti che serviranno loro a stabilizzare il regime che seguirà. Si vis pacem para transitionem.

Pubblicato il 3 maggio 2022 su Domani

Blandire i dittatori non porta mai niente di buono @DomaniGiornale

Può un leader politico democratico, sincero e conseguente, avere un dittatore come amico? Può elogiarlo e additarlo come esempio, seppur soltanto sostenendo che, però, ha anche fatto qualcosa di buono? Fermo restando che nessun leader autoritario intraprenderà mai una rivoluzione liberale e garantista, il problema di come porsi nei confronti dei molti leader autoritari esistenti nel mondo, a cominciare da Putin, Xi Jinping, Erdogan, si pone in maniera lampante e urgente. A lungo, molti politici e la maggioranza degli studiosi hanno sostenuto che il libero commercio costituisce uno strumento importante per ridurre e contenere la conflittualità e persino per fare circolare idee e migliorare i rapporti. Le grandi potenze democratiche, in special modo, gli USA debbono, ha sostenuto l’influente studioso di Relazioni Internazionali, Joseph Nye, limitare il ricorso allo hard power, in sostanza, le armi e le minacce e pressioni politiche che le precedono, e affidarsi al soft power, non solo commercio, ma cultura in senso lato, anche quella, importantissima, pop, con ambasciatori come cantanti, attori, scrittori diventati famosi. Non è ancora stato stilato un bilancio approfondito del grado di successo del soft power, forse non adeguatamente e coerentemente utilizzato dagli USA e molto poco dalle democrazie europee, ma non sembra probabile che la popolarità degli USA e, più, in generale, delle democrazie abbia fatto breccia nella grande maggioranza dei regimi autoritari, in Medio-Oriente e in Africa e neppure in alcune repubbliche ex-sovietiche. Dunque, sembrerebbe opportuno riflettere su cosa è mancato/fallito e cercare altre strade.

   Blandire i leader autoritari non produce nessuna conseguenza positiva. Bandirli impedisce in partenza qualsiasi interlocuzione e potrebbe addirittura essere controproducente consolidando il loro sostegno interno, credo che non si debba mai parlare di consenso, semmai accettazione, indifferenza, rassegnazione, di cui godono soprattutto fra coloro che da quei leader e da quel modo di governare (e reprimere e opprimere) traggono privilegi e vantaggi. Se colpiscono quei vantaggi e ridimensionano quei privilegi dei gruppi dirigenti, oligarchi et al, che circondano il leader autoritario, le sanzioni possono produrre conseguenze importanti. Molto, però, dipende dalla compattezza dei regimi democratici nell’attuare quelle sanzioni e nel mantenerle senza scappatoie per un periodo di tempo che non può essere breve. I leader autoritari si riconoscono fra loro, non si criticano, non cercano di indebolirsi reciprocamente, ma certamente non sono in grado di fare fronte comune. Non esiste e non può essere costruita una Internazionale degli autoritarismi. Tuttavia, opposizioni tattiche comuni sono frequenti contro, ad esempio, le condanne occidentali e non solo per la violazione dei diritti umani, della libertà di stampa, dell’autonomia della magistratura. Queste condanne sono sacrosante. Coerenza politica e civile implica che le democrazie concordino sulla difese a e anche sulla promozione dei loro principi fondativi. Alzare la voce e ottenere qualche votazione di condanna alle Nazioni Unite e negli organismi europei non sarà mai sufficiente, ma sempre doveroso. Il resto deve essere attivamente affidato ad una interlocuzione con i leader autoritari. Amici, no; ma interlocutori, sì, nella misura del possibile in maniera costante e continua, sempre il più trasparente possibile. Finora, non solo non è stato fatto abbastanza, ma è stato fatto in maniera sparsa, episodica, disgiunta, talvolta persino contraddittoria. Cambiare

Pubblicato il 27 aprile 2022 su Domani