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Democrazia Futura. Le virtù di una concezione maggioritaria della democrazia italiana @Key4biz #DemocraziaFutura

 “Le virtù di una concezione maggioritaria della democrazia italiana”, Democrazia futura, II (1) gennaio-marzo 2022, pp. 191-194. L’anticipazione su Key4biz

Dimenticare Enrico Berlinguer e Aldo Moro, in polemica con i sostenitori di un “ritorno alla proporzionale” il nuovo contributo di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei.

Il numero cinque di Democrazia futura si avvia alla sua conclusione con un intervento di Gianfranco Pasquino che – in polemica con i sostenitori di un “ritorno alla proporzionale” che in realtà già esiste nella legge elettorale attualmente in vigore – ribadisce le ragioni già espresse da uno dei suoi maestri, Giovanni Sartori, evidenziando “Le virtù di una concezione maggioritaria della democrazia italiana” e scagliandosi contro “il compromesso storico di Enrico Berlinguer che fu una pericolosa sfida alla democrazia competitiva” ma anche contro Aldo Moro difensore “della democrazia proporzionale che garantiva alla DC un profittevole ruolo di centralità politica e istituzionale” che non favoriva la “democrazia dell’alternanza”.

Manovrato da commentatori e politici di scarse o nulle letture, costantemente inclini all’opportunismo istituzionale, il pendolo tra la concezione maggioritaria e la concezione proporzionale della democrazia è in (ir)resistibile movimento verso il secondo polo.

Improvvisati cultori dello studio del corpo umano si sentono sulla cresta dell’onda. Loro avevano già scoperto tempo fa che nel DNA degli italiani non si trova il maggioritario, ma “la” proporzionale. Poco importa, ma non si possono obbligare i sedicenti medici a leggere la storia e la scienza politica, che dal 1861 al 1911 i nonni e i bisnonni degli attuali laudatores della proporzionale abbiano votato con un sistema elettorale maggioritario. Ancor meno importa che di leggi elettorali proporzionali ne esistano numerose varianti, prevedibilmente alcune migliori di altre e alcune pessime.

Incidentalmente, non sta fra le pessime la variante di proporzionale usata in Italia dal 1946 al 1992 (peraltro, facilmente migliorabile con alcuni ritocchi mirati). Ci stavano, invece, sia la legge elettorale usata nella Repubblica di Weimar (1919-1933) sia quella, variamente manipolata, usata nella Quarta Repubblica francese (1946-1958).

Un punto fermo va subito messo. In assenza di una legge elettorale proporzionale è quasi del tutto improbabile che si abbia una democrazia proporzionale, ma, comunque, sarà indispensabile valutare anche il contesto istituzionale.

Il secondo punto fermo, più a giovamento dei riformatori che dei granitici commentatori, è che la vigente Legge Rosato, molto criticabile da una pluralità di prospettive (candidature plurime e “trascinamento” del voto), non può in nessun modo e a nessun titolo essere definita maggioritaria. Con poco meno di due terzi di parlamentari eletti con metodo proporzionale, è un sistema misto con chiara prevalenza proporzionale.

Quindi, nessuno si stracci le vesti e ipocritamente versi calde lagrime. Non stiamo tornando alla proporzionale. Ci siamo dentro e, nel peggiore/migliore dei casi, si giungerà alla formulazione di una legge elettorale proporzionale buona, migliore, non è troppo difficile, della Legge Rosato.

Naturalmente, nelle democrazie parlamentari nessuno da nessuna parte in nessuna democrazia con nessun sistema di partiti elegge direttamente né il governo né il capo del governo: una stupidaggine costituzionale che continua tristemente a circolare. Questa fantomatica elezione non è mai stata un obiettivo affidato alle leggi elettorali neppure a quelle maggioritarie.

 Infine, è imperativo sottolineare che il criterio dominante con il quale valutare le leggi elettorali è quanto potere attribuiscono ai cittadini nella scelta dei rappresentanti, nell’elezione del Parlamento. Quindi, va subito aggiunto che l’esistenza del voto di preferenza (a sua tempo si discuterà quanto e come) contribuisce a dare potere ai cittadino-elettori.

L’opposizione aspra di tutti i dirigenti del pentapartito al referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 si spiega perché tre/quattro preferenze potevano essere controllate da cordate di candidati.

Una sola preferenza era una vera risorsa nelle mani dell’elettorato.

La legge elettorale proporzionale è costitutiva della concezione proporzionale della democrazia poiché i suoi effetti consistono nell’assegnare il potere politico e istituzionale proporzionalmente nelle mani dei partiti e dei dirigenti.

Non sorprende che nella proposta berlingueriana di compromesso storico, di cui si torna a parlare spesso con nostalgia pari alla non comprensione delle sue largamente deleterie conseguenze sistemiche – che ho esposto, chiarito e fortemente criticato nel mio libro Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana[1] – non si facesse nessun cenno a riforme elettorali e istituzionali. Quel “compromesso” avrebbe bloccato qualsiasi dinamica competitiva. 

Non è certamente da scartare la convinzione di alcuni studiosi e commentatori nonché di molti politici che i Costituenti hanno limpidamente espresso il loro favor per una democrazia proporzionale. Ma questo favor non implica in nessun modo che i Costituenti sarebbero indisponibili a confrontarsi con la prospettiva di una concezione maggioritaria della democrazia e con le proposte che vi condurrebbero.

Il caso francese del passaggio da una democrazia proporzionale nella Quarta Repubblica (1946-1968) ad una democrazia maggioritaria nella Quinta Repubblica (dal 1958 a oggi)

Ho avuto spesso modo di argomentare che la Francia della Quarta Repubblica (1946-1958) è stata il sistema politico-costituzionale più simile a quello che l’Italia ha avuto dal 1946 al 1992.

Il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica ha certamente dato vita ad una democrazia maggioritaria il cui funzionamento è significativamente migliore della democrazia proporzionale esistita nella Quarta Repubblica[2]. Mi pare legittimo trarne insegnamenti riformatori. Tiri le somme chi sa (se no, lo farò di persona la prossima volta).

Qui, dopo una indispensabile premessa, mi preme di segnalare quali sono, possono essere, le virtù di una concezione maggioritaria della democrazia.

Con l’aiuto di Giovanni Sartori prendo l’argomento per la coda. In un sistema parlamentare bicamerale paritario nel quale i rappresentati sono eletti su liste di partito con legge elettorale proporzionale e i governi sono di coalizione, è altamente probabile che tutto il “gioco” politico sia condotto e rimanga nelle mani dei dirigenti di partito.

I partiti al governo si accuseranno reciprocamente di essere responsabili del non fatto e del mal fatto (politica dello scaricabarile). Ciascuno di loro dirà di volta in volta che si può fare di più (politica del gioco al rialzo).

Spesso in un sistema multipartitico il ricambio al governo sarà infrequente e limitato. Possibile, invece, che siano i parlamentari a muoversi (dare dinamismo mi pare espressione esagerata) passando da un partito all’altro, non troppo differenti quanto alle poche idee di cui sono portatori, in ossequio alla tradizione italiana del trasformismo.

Eletti con legge proporzionale, spesso sostanzialmente nominati dai dirigenti di partito i parlamentari non debbono rendere conto del loro operato agli elettori, ma a quei dirigenti oppure ad altri che offrano di più.

Eletti in collegi uninominali, i parlamentari delle democrazie maggioritarie vorranno e sapranno rendere conto ai loro elettori e in Parlamento sosterranno lealmente il loro governo oppure l’opposizione della quale fanno parte offrendo in questo modo agli elettori attenti e insoddisfatti la possibilità di un’alternativa plausibile.

Il governo sarà giustamente considerato responsabile del fatto, del non fatto e del mal (mis) fatto. Nella consapevolezza di potere vincere e essere chiamata a attuare le sue promesse, l’opposizione non propaganderà latte e miele, vino e rose. Rimarrà nei binari di una ragionevole responsabilità. Quella parte, che esiste ovunque, di elettori attenti e esigenti, dieci/quindici per cento, avrà la grande opportunità di valutare e decidere gli esiti elettorali nei singoli collegi e a livello nazionale.

Un migliore contesto istituzionale di interazione e di equilibrio fra i poteri, una doppia responsabilità degli eletti verso tutti gli elettori del proprio collegio e verso il governo del loro partito e quello del paese che verrà se la loro opposizione ottiene successo

Le democrazie maggioritarie operano in un contesto istituzionale di interazione fra esecutivo, legislativo, giudiziario nei quali nessuno dei poteri sovrasta l’altro e sono all’opera freni e contrappesi.

L’alternanza al governo è un’aspettativa diffusa, sempre possibile che impronta i comportamenti tanto dei governanti quanto degli oppositori e ispira speranze e timori nell’elettorato.

Nessuno, peraltro, vince mai tutto e nessuno perde mai tutto, meno che mai perde/viene privato dei mezzi politici per riprovarci.

La vera insegna di una concezione maggioritaria della democrazia: Winner takes all, non significa che chi vince si impadronisce di tutto il potere, quello economico incluso, ma che ottiene il potere politico di governo necessario a tradurre le sue promesse in performance, in prestazioni.

Significa anche che, eletti in collegi uninominali, i rappresentanti parlamentari sentono e hanno una doppia responsabilità: verso tutti gli elettori di quel collegio, non soltanto i loro, e verso il governo del loro partito e, in prospettiva più lata, nient’affatto esagerata, anche, in quanto oppositori, verso il governo che verrà se la loro opposizione ottiene successo.

Insomma, la concezione maggioritaria della democrazia si fonda su due pilastri, quello istituzionale che ne consente l’emergere e ne influenza il funzionamento, e quello comportamentale che incentiva e/o scoraggia quello che fanno/debbono/possono fare governanti e rappresentanti, ma soprattutto gli elettori ai quali bisogna dare il tempo di apprendere i comportamenti coerenti e le modalità con le quali praticarli perseguendo gli esiti desiderati.

Molto difficile, ma certo non del tutto impossibile, che la democrazia maggioritaria ottenga adeguato sostegno e positiva valutazione da coloro che traggono vantaggi dalla pratica e dalla descrizione dei proporzionalismi. Da coloro che ancora adesso non si sono resi conto che il compromesso storico di Enrico Berlinguer e dei suoi più o meno tattici sostenitori fu una pericolosissima sfida alla democrazia competitiva tout court. Avrebbe posto fine alla democrazia proporzionale e impedito la comparsa di qualsiasi elemento di democrazia maggioritaria.

Comunque, è sbagliato lodare Aldo Moro o giustificarlo. La sua reazione non positiva alla proposta di compromesso storico non avvenne affatto in nome della democrazia dell’alternanza collocata in un mai definito futuro (“chi ha più filo tesserà più tela”) e per la consapevolezza dei profondi guasti istituzionali e politici di una democrazia ancora più bloccata, ma della difesa della democrazia proporzionale che garantiva alla DC un profittevole ruolo di centralità politica e istituzionale.  Proporzionale o maggioritaria, chi vuole dare un contributo positivo alla democrazia italiana contemporanea e futura farebbe meglio non solo a non ascoltare i loquacissimi morotei e i berlingueriani acritici, ma proprio a dimenticare Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

Le virtù della concezione maggioritaria della democrazia sono state elaborate e messe con profitto all’opera altrove.   

[1] Si veda il capitolo “Compromesso storico, alternativa, alternanza” in Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Torino, UTET 2021, 223 p. [il capitolo si trova alle pp. 89-112].

[2] Ne ho parlato su queste colonne nel numero precedente. Cfr. Gianfranco Pasquino, “La lezione francese. Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali”, Democrazia futura, I (4), ottobre-dicembre 2021, pp. 793-801.

Pubblicato il 23 maggio 2022 su Key4biz

Non è vero che il sistema francese premia gli estremisti @DomaniGiornale

Sono un estimatore nella sua interezza del sistema semipresidenziale francese della Quinta Repubblica. Ha efficacemente portato la Francia fuori dalla palude (l’espressione è di Maurice Duverger) garantendo governabilità e alternanza. La sua validità è testimoniata anche dalla diffusione che il modello complessivo, con pochi adattamenti, ha avuto dal Portogallo a Taiwan, dalla Polonia ad alcuni stati africani. Pour cause. Naturalmente, è possibile riscontrare qualche inconveniente, discutibile, cioè da sottoporre a discussione, ma bisogna saperlo fare con le opportune osservazioni “sistemiche”. Vale a dire che ciascuna componente del sistema deve essere vista e valutata, correttamente definita, nell’ambito complessivo del semipresidenzialismo. Ho l’impressione che Carlo Trigilia (“Domani”, 13 aprile) sia scivolato in un serio fraintendimento guardando al sistema elettorale maggioritario a doppio turno per, alla fine, liquidarlo come inadeguato in sé e ancor più per l’Italia. Un conto è l’elezione del Presidente della Repubblica, un conto alquanto diverso è l’elezione dell’Assemblea nazionale. Sempre di doppio turno si tratta, ma quello per la Presidenza è un doppio turno tecnicamente “chiuso”: al secondo turno, correttamente definito ballottaggio, accedono solo i primi due candidati. Qui non è possibile fare nessun discorso sulla (dis)proporzionalità dell’esito. Piuttosto, è molto probabile che entrambi i candidati cercheranno di offrire il massimo di rappresentanza politica all’elettorato, pur sapendo di avere dei limiti. Alla fine, il vittorioso dichiarerà inevitabilmente che intende rappresentare tutti i suoi concittadini, essere il “loro” Presidente e toccherà agli studiosi, all’opinione pubblica, all’opposizione valutare se, come e quanto saprà tenere fede alla promessa.

   Il doppio turno per l’elezione dell’Assemblea nazionale è “aperto”, vale a dire possono accedere al secondo turno tutti i candidati che hanno superato una soglia predeterminata, nel caso francese, almeno il 12,5 per cento dei voti degli aventi diritto. La soglia è alta; è stata spesso messa in discussione; sono state esplorate alternative, ma nata come 5 per cento, arrivata al 12,5, là è rimasta. Sicuramente e inevitabilmente, sovrarappresenta i partiti grandi (premio di “grandezza” non distante, ma molto diverso da un premio di maggioranza) rendendo difficilissima la vita dei partiti piccoli e sottorappresentando quelli che si collocano alle estreme dello schieramento partitico che in Francia e non solo va da destra e sinistra e viceversa. Non è affatto vero che questo doppio turno premia gli estremisti, come sembra sostenere e temere Trigilia. Al contrario, serve proprio per scoraggiarli e sottorappresentarli a meno che godano di un elevato e diffuso consenso nel qual caso, però, democraticamente vincono il dovuto.    Riferirsi al successo “presidenziale” di Mélenchon e ai voti di Zemmour per sostenere che la polarizzazione è uno degli effetti deprecabili del doppio turno è semplicemente sbagliato, anche perché il doppio turno, che sarà un ballottaggio, li ha esclusi. Semmai, si potrebbe deprecare che la vittoria di Macron o di Le Pen dipenda dai voti di quegli specifici elettori etichettati come estremisti. Pronti, non tutti, lo sappiamo, ad entrare nell’arena del ballottaggio, saranno costretti a scegliere una candidatura meno estrema di quella votata al primo turno. Incidentalmente, rispetto alle elezioni del 2017, non c’è dubbio che Marine Le Pen si è deliberatamente “moderata” per conquistare voti gollisti insoddisfatti dalla républicaine Valérie Pécresse. Insomma, le critiche di Trigilia sono fuori bersaglio.  

Pubblicato il 15 aprile 2022 su Domani

Lezioni francesi: sistema elettorale, rieleggibilità del Presidente, candidature delle donne … #Francia

Non apprezzo necessariamente tutto quello che viene dalla Francia, ma ho sempre considerato la Quinta Repubblica, il semipresidenzialismo, le sue istituzioni e il sistema elettorale maggioritario degni della massima attenzione. I francesi eleggeranno direttamente il prossimo Presidente nella primavera del 2022. La buona notizia è che sono candidate tre donne: la socialista Anne Hidalgo, la nazionalista di destra Marine Le Pen e Valérie Pécresse che ha vinto le primarie dei Républicains, gollisti e eredi del gollismo. In Italia abbiamo, soprattutto le donne “politiche”, qualcosa da imparare.

Sul semipresidenzialismo: un dialoghetto urgente e pressante @C_dellaCultura

Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore

Apprendista: Come un fulmine nel ciel sereno (sic) della politica italiana, il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha evocato il “semipresidenzialismo de facto”. Nel profluvio di interpretazioni, che mi sono per lo più parse piuttosto disinformate, mi piacerebbe sentire la sua.

Professore: Rispondo, anzitutto, sul “de facto” poiché purtroppo ho fatto un frettoloso tweet definendo l’idea del presidenzialismo de facto “abbastanza eversiva”. Uscire dalla democrazia parlamentare italiana per praticare un semipresidenzialismo non tradotto in norme costituzionali è, tecnicamente, una “eversione” della nostra Costituzione. A mente più fredda, sono giunto alla conclusione che Giorgetti non suggeriva l’eversione, ma indicava una soluzione secondo lui possibile e auspicabile: Draghi Presidente della Repubblica che si nomina un Primo ministro suo agente in Parlamento. Può succedere, fermo restando che il Parlamento manterrebbe il potere di sfiduciare il capo del governo e il Presidente quello di sciogliere il Parlamento, anzi, addirittura di minacciarne anticipatamente lo scioglimento. Nel circuito istituzionale del semipresidenzialismo tutto questo è possibile. Legittimo. Produttivo di conseguenze democratiche. Poi, per il semipresidenzialismo de jure ci vorrebbe, ovviamente, una seria e complessa riforma della Costituzione.

A: Poiché ho letto “attribuzioni” di paternità che non mi sono parse convincenti, ricominciamo da capo. Chi ha dato vita alla parola e alla pratica del semipresidenzialismo?

P: Padri della terminologia, non sono stati, come hanno scritto troppi commentatori, né il Gen. De Gaulle né il giurista Maurice Duverger. Il fondatore della Quinta Repubblica era interessato ad un regime che si basasse sul potere costituzionale del Presidente della Repubblica a scapito di quello politico dei partiti. Duverger combattè e perse la sua battaglia a favore dell’elezione popolare diretta del Primo ministro (sì, se le suona qualcosa in testa è giusto così). Solo diversi anni dopo giunse a teorizzarne la validità e l’efficacia (A New Political System Model: Semi-Presidential Government, giugno 1980). In effetti, il termine fu coniato in un articolo pubblicato l’8 gennaio 1959 da Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano “Le Monde”, che voleva criticare l’accentramento di potere nelle mani del Presidente (de Gaulle). In parte, Beuve-Méry aveva ragione, ma era proprio quell’accentramento che de Gaulle voleva e aveva chiesto ai suoi consiglieri giuridici a cominciare da Michel Debré che diventò il primo Primo Ministro della Quinta Repubblica. Lo ottenne. Poi si riscontrò che il semipresidenzialismo gode anche di una buona dose di flessibilità.

A: È vero che esisteva un precedente esempio di semipresidenzialismo finito tragicamente e quindi non menzionabile?

P: Verissimo. La Costituzione della Repubblica di Weimar (1919-1933) aveva disegnato proprio una forma di governo semipresidenziale. Non è inconcepibile che i giuristi intorno a de Gaulle e il grande sociologo Raymond Aron che avevano studiato in Germania in quegli anni ne siano stati più o meno inconsapevolmente influenzati. Solo molto tempo dopo una studiosa USA, Cindy Skach, ha scritto un bel libro mettendo convincentemente le istituzioni di Weimar in collegamento con quelle della Quinta Repubblica (Borrowing Constitutional Designs: Constitutional Law in Weimar Germany and the French Fifth Republic, Princeton University Press, 2005). La vera grande differenza fra Weimar e la Quinta Repubblica è che nella prima fu utilizzata una legge elettorale proporzionale che consentiva/facilitava la frammentazione del sistema dei partiti, mentre in Francia funziona un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che premia le posizioni moderate e incentiva la formazione di coalizioni.

A: Forse è il momento per definire esattamente cos’è una forma di governo semipresidenziale.

P: Fermo restando, naturalmente, che saprei proporre una definizione con parole mie, ubi maior minor cessat. Quindi, cedo la parola a Giovanni Sartori che individua cinque caratteristiche:

i) il capo dello Stato (il presidente) è eletto con voto popolare –direttamente o indirettamente—per un periodo prestabilito;

ii) il capo dello Stato condivide il potere esecutivo con un primo ministro, entrando così a far parte di una struttura ad autorità duale i cui tre criteri definitori sono:

iii) il presidente è indipendente dal Parlamento, ma non gli è concesso di governare da solo o direttamente; le sue direttive devono pertanto essere accolte e mediate dal suo governo;

iv) specularmente, il primo ministro e il suo gabinetto sono indipendenti nella misura nella quale sono dipendenti dal parlamento e cioè in quanto sono soggetti sia alla fiducia sia alla sfiducia parlamentare (o a entrambe), e in quanto necessitano del sostegno di una maggioranza parlamentare;

v) la struttura ad autorità duale del semi-presidenzialismo consente diversi equilibri e anche mutevoli assetti di potere all’interno dell’esecutivo, purché sussista sempre l’ “autonomia potenziale” di ciascuna unità o componente dell’esecutivo. (Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino 2000, pp. 146-147)

Farei un’unica, importante aggiunta: il Presidente può sciogliere il Parlamento quasi a suo piacere (in generale lo motiva con la necessità del buon funzionamento degli organismi costituzionali, ma la tipologia degli scioglimenti può essere alquanto varia e variegata) purché quel Parlamento abbia almeno un anno di vita.

A: Abitualmente chi parla di semipresidenzialismo si riferisce (quasi) esclusivamente alla Quinta Repubblica francese, spesso, per lo più, in maniera critica e per sostenere che non è appropriato per la Repubblica italiana. Ciononostante, il semipresidenzialismo si è “affacciato” anche in Italia, giusto?

P: Proprio così. Altro che affacciarsi, il semipresidenzialismo irruppe nella Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema quando nel giugno del 1998 i rappresentanti della Lega riuscirono a farlo votare più per affondare la Commissione che per convinzione. Nel dibattito accademico (che non vuole dire soltanto “ininfluente”), Sartori lo appoggiò sempre. Personalmente anch’io sono favorevole, “non da oggi”. Rimando al mio capitolo nel libro che contiene anche capitoli di Stefano Ceccanti e Oreste Massari, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee (il Mulino 1996). Le critiche sono tante, troppe per poterle citare, ripetitive e faziose, per lo più inadeguate dal punto di vista della “verità effettuale”. Insomma, molto si può dire del semipresidenzialismo, ma considerarlo il prodromo di qualche scivolamento irreversibile nell’autoritarismo mi pare francamente improponibile. Qui, poi, si misura anche il provincialismo di molti giuristi italiani e dei commentatori che vi si affidano che sembrano credere che il semipresidenzialismo esista soltanto in Francia.

A: “Provincialismo” è una critica che lei rivolge spesso ai giuristi italiani, ma in questo caso come la sostanzierebbe?

P: Mai domanda fu più facile. In maniera sferzante Sartori rimanderebbe tutti alle bibliografie internazionali che elencano numerosi titoli dedicati alle forme di governo semipresidenziali esistenti in molte parti del mondo: dall’Europa dell’Est a, comprensibilmente, non pochi paesi dell’Africa francofona, a Taiwan che mi pare un caso molto interessante e istruttivo. In estrema sintesi, alcuni studenti taiwanesi a Parigi quando venne creata la Quinta Repubblica ne apprezzarono l’assetto istituzionale e lo importarono in patria. Con notevole successo. Su tutto questo si vedano l volumi curati da Lucio Pegoraro e Angelo Rinella, Semipresidenzialismi, CEDAM 1997, e da Robert Elgie e Sophia Moestrup, Semi-presidentialism outside Europe, Routledge 2007.

A: Insomma, a sentire lei tutto andrebbe splendidamente nel semipresidenzialismo, saremmo nel migliore dei mondi possibili, appropriatamente, insieme al francese Candide. Però, a lungo proprio in Francia vi furono voci critiche e una ventina d’anni fa venne introdotta una riforma piuttosto incisiva Dunque?

P: Credo sia interessante ricordare che il primo cattivissimo critico della Quinta Repubblica, con lui tutta la sinistra, fu François Mitterrand nel suo libro Le coup d’État permanent (1964). Eletto Presidente nel 1981, dichiarò memorabilmente: “Les institutions n’étaient pas faites à mon intention. Mais elles sont bien faites pour moi”. Le critiche più frequenti hanno riguardato il fenomeno della cohabitation: il Presidente di una parte politica, la maggioranza parlamentare di un’altra parte, spesso proprio quella opposta. Sicuramente, de Gaulle non avrebbe gradito, ma lo scioglimento del Parlamento che i Presidenti possono imporre dopo un anno di vita del Parlamento, è lo strumento con il quale tentare di uscire dalla cohabitation. Fu così nel 1981 e nel 1988. Comunque, se quando c’è governo diviso negli USA ne segue uno stallo nel quale non riescono a governare né il Presidente né il Congresso, nei casi di coabitazione governa il Primo ministro (fu così anche nella lunga 1997-2002 coabitazione fra il Presidente gollista Jacques Chirac e il Primo ministro socialista Lionel Jospin) che ha una maggioranza parlamentare consapevole che, creando difficoltà al “suo” Primo ministro, correrebbe il rischio dello scioglimento del Parlamento. Per porre fine all’eventualità della coabitazione Chirac e Jospin si accordarono su una riforma che non sarebbe certamente stata gradita a de Gaulle: riduzione della durata del mandato presidenziale da sette a cinque anni, elezioni presidenziali da tenersi prima di quelle legislative contando sulla propensione dell’elettorato a dare una maggioranza al Presidente appena eletto. Finora ha funzionato con soddisfazione di coloro che credono che la coabitazione è sempre un problema. La mia valutazione è diversa, ma ne discuteremo in altra sede. Mi limito a suggerire di pensare ad una coabitazione fra Draghi Presidente della Repubblica e Meloni Presidente del Consiglio. Meglio, certamente, dell’instabilità dei governi italiani e della creazione di maggioranze extra-large. Ciò detto, il discorso sul semipresidenzialismo non finisce qui, ma mi pare di averne almeno messo in chiaro gli assi portanti.

Pubblicato il 8 novembre 2021 su casadellacultura.it

Democrazia Futura. Mario Draghi fra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica @Key4biz #DemocraziaFutura

Un bilancio della sua presenza a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale.

Un bilancio della presenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale richiedono alcune premesse. Per fin troppo tempo, in maniera affannata e ripetitiva, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e alcuni editorialisti di punta (Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, persino Ferruccio de Bortoli) hanno criticato i governi e i capi di governo non eletti (dal popolo), non usciti dalle urne (Antonio Polito) (1).

La nomina di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio li ha finora zittiti tutti nonostante la sua non elezione popolare e il suo non essere uscito da nessuna urna.

Forse, però, siamo già entrati, sans faire du bruit, in una nuova fase del pensiero costituzionale del Corriere. Draghi vive e opera in “una sorta di semipresidenzialismo sui generis”, sostiene Ernesto Galli della Loggia (2) non senza lamentarsi per l’ennesima volta della sconfitta delle riforme renziane che avrebbero aperto “magnifiche sorti e progressive” al sistema politico italiano senza bisogno di semipresidenzialismo e neppure del voto di sfiducia costruttivo German-style. Fermo restando che le forme di governo cambiano esclusivamente attraverso trasformazioni costituzionali mirate, esplicite, sistemiche, la mia tesi è che Draghi è il capo legittimo di un governo parlamentare che, a sua volta, è costituzionalmente legittimo: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94).Tutti i discorsi sull’operato, sulle prospettive, sui rischi del governo Draghi si basano su aspettative formulate dai commentatori politici  da loro variamente interpretate e criticate.

Sospensione della democrazia o soluzione costituzionale flessibile del parlamentarismo?

Lascio subito da parte coloro che hanno parlato di sospensione della democrazia poiché, al contrario, stiamo vedendo all’opera proprio la democrazia parlamentare come saggiamente delineata nella Costituzione italiana. Sono la flessibilità del parlamentarismo Italian-style e l’importantissima triangolazione fra Presidenza della Repubblica, Governo e Parlamento che per l’ennesima (o, se si preferisce, la terza volta dopo Dini 1995-1996; e Monti 2011-2013) volta ha prodotto una soluzione costituzionale a problemi politici e istituzionali.

Il discorso sulla sospensione della politica merita appena più di un cenno. Infatti, nessuno dei leader politici ha “sospeso” le sue attività e le elezioni amministrative si svolgono senza nessuna frenata né distorsione. Aggiungo che non soltanto Draghi è consapevole che quel che rimane dei partiti ha la necessità di ingaggiare battaglie politiche, ma anche che, da un lato, prende atto di questa “lotta” politica, dall’altro, la disinnesca se non viene portata nel Consiglio dei Ministri.

Sbagliano, comunque, coloro che attribuiscono a Draghi aspettative e preferenze del tipo “non disturbate il manovratore”. Al contrario, se volete disturbare è imperativo che le vostre posizioni siano motivate con riferimento a scelte e politiche che siano nella disponibilità del governo e dei suoi ministri. Chi ha, ma so che sono pochissimi/e, qualche conoscenza anche rudimentale del funzionamento del Cabinet Government inglese (certo, costituito quasi sempre da un solo partito), nel quale può manifestarsi la supremazia del Primo ministro, dovrebbe apprezzare positivamente la conduzione di Draghi.

I veri nodi da sciogliere: ristrutturazione del sistema dei partiti e accountability

A mio modo di vedere rimangono aperti due problemi: la ristrutturazione del sistema di partiti e la accountability. Il primo si presenta come un wishful thinking a ampio raggio, privo di qualsiasi conoscenza politologica. Il secondo è, invece, un problema effettivo di difficilissima soluzione.

Non conosco casi di ristrutturazione di un sistema di partiti elaborata e eseguita da un governo, dai governanti. Fermo restando che in nessuna delle sue dichiarazioni Draghi si è minimamente esposto e impegnato nella direzione di una qualsivoglia (necessità di) ristrutturazione, facendo affidamento sull’essenziale metodo della comparazione la scienza politica indica tre modalità attraverso le quali un sistema di partiti potrebbe ristrutturarsi: leggi elettorali; forma di governo; emergere di una nuova frattura politica.

Leggi elettorali, forma di governo, emergere di fratture politiche o sociali

Quanto alle leggi elettorali, pur tecnicamente molto perfezionabile, la legge Matttarella, grazie ai collegi uninominali nei quali venivano eletti tre quarti dei parlamentari, incoraggiò la competizione bipolare e la formazione di due coalizioni, che, più a sinistra che a destra, fossero coalizioni molto composite,  è responsabilità dei dirigenti dei partiti. Fu un buon inizio. Oggi ci vuole molto di più per ristrutturare il sistema dei partiti. Non può essere compito di Draghi e del suo governo, ma i dirigenti dei partiti e i capicorrenti tutto desiderano meno che una legge elettorale che offra più opportunità agli elettori e più incertezza e rischi per candidati e liste. 

La spinta forte alla ristrutturazione potrebbe sicuramente venire da un cambio nella forma di governo. Da questo punto di vista, il semipresidenzialismo di tipo francese è davvero promettente per chi volesse imprimere dinamismo al sistema politico italiano. Mentre mi pare di sentire da lontano le classiche irricevibili critiche alle potenzialità autoritarie della Quinta Repubblica, ricordo di averne fatto oggetto di riflessione e valutazione in più sedi (3) e respingo l’idea che all’uopo sia necessaria la trasformazione di Draghi in novello de Gaulle. Naturalmente, non sarà affatto facile per nessuno imporre una trasformazione tanto radicale se non in presenza di una non augurabile crisi di grande portata.

La terza modalità che potrebbe obbligare alla ristrutturazione del sistema dei partiti è la comparsa di una frattura sociale e politica di grande rilevanza che venga sfruttata sia da un partito esistente e dai suoi leader sia da un imprenditore politico (terminologia che viene da Max Weber e da Joseph Schumpeter).

La frattura potrebbe essere quella acutizzata e acutizzabile fra europeisti e sovranisti, sulla scia di quanto scrisse Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene. Potrebbe anche manifestarsi qualora si giungesse ad una crescita intollerabile di diseguaglianze, non solo economiche, cavalcabile da un imprenditore che offra soluzioni in grado di riaggregare uno schieramento. In entrambi i casi, la ristrutturazione andrebbe nella direzione di un bipolarismo che taglierebbe l’erba sotto ai piedi di qualsiasi centro che, lo scrivo per i nostalgici, non è mai soltanto luogo di moderazione, ma anche di compromissione ovvero, come scrisse l’autorevole studioso francese Maurice Duverger, vera e propria palude.

I compiti ambiziosi su cui potremo valutare l’operato del governo Draghi e il futuro del premier in politica e nelle istituzioni

Il governo Draghi in quanto tale non può incidere su nessuno di questi, peraltro molto eventuali e imprevedibili, sviluppi. La sua esistenza garantisce lo spazio e il tempo per chi volesse e sapesse agire per conseguire l’obiettivo più ambizioso. Nulla di più, giustamente. Draghi e il suo governo vanno valutati con riferimento alle loro capacità di perseguire e conseguire il rinnovamento di molti settori dell’economia italiana, la riforma della burocrazia, l’ammodernamento della scuola e l’introduzione di misure che producano maggiore e migliore coesione sociale. Sono tutti compiti necessariamente ambiziosissimi.

Per valutarne il grado di successo bisognerà attendere qualche anno, ma fin d’ora è possibile affermare che il governo ha impostato bene e fatto molto.

Qui si situa il discorso che non può essere sottovalutato sul futuro di Draghi in politica e nelle istituzioni. I precedenti di Lamberto Dini e di Mario Monti dovrebbero scoraggiare Draghi a fare un suo partito, operazione che, per quel che lo conosco, non sta nelle sue corde e non intrattiene. Ricordando a tutti che Draghi è stato reclutato per un incarico specifico: Presidente del Consiglio (dunque, sì, in democrazia le autorità possono essere tirate per la giacca!), procedere alla sua rimozione per una promozione al Colle più alto, richiede convincenti motivazioni, sistemiche prima ancora che personali.

È assolutamente probabile, addirittura inevitabile, che, senza farsene assorbire e sviare, Draghi stesso stia già valutando i pro e i contro di una sua ascesa al Quirinale.

Non credo che il grado di avanzamento nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà già a fine gennaio 2022 tale da potere ritenere che viaggerà sicuro senza uscire dai binari predisposti dal governo. Però, è innegabile che esista il rischio che il prossimo (o prossima) Presidente non sia totalmente sulla linea europeista e interventista del governo Draghi. Così come è reale la possibilità che il successore di Mattarella sia esposto a insistenti e possenti pressioni per lo scioglimento del Parlamento e elezioni anticipate con la vittoria annunciata dei partiti di destra e dunque governo nient’affatto europeista, se non addirittura programmaticamente sovranista.

L’ipotesi plausibile di Draghi al Quirinale alle prese con la formazione del governo dopo le elezioni del 2023: verso una coabitazione all’italiana?

Non è, dunque, impensabile che negli incontri che contano Draghi si dichiari disponibile ad essere eletto Presidente della Repubblica.

A partire dalla data della sua elezione Draghi avrebbe sette anni per, se non guidare, quantomeno orientare alcune scelte politiche e istituzionali decisive.:

  • Anzitutto, non procederà a sciogliere il Parlamento se vi si manifesterà una maggioranza operativa a sostegno del governo che gli succederà.
  • Avrà voce in capitolo nella nomina del Presidente del Consiglio e di non pochi ministri.
  • Rappresenterà credibilmente l’Italia nelle sedi internazionali.

Qualora dopo le elezioni del 2023 si formasse eventualmente un governo di centro-destra Draghi Presidente della Repubblica ne costituirà il contrappeso non soltanto istituzionale, ma anche politico per tutta la sua possibile durata.

In questa chiave, forse, si può, ma mi pare con non grandi guadagni analitici, parlare di semipresidenzialismo di fatto nella versione, nota ai francesi, della coabitazione: Presidente versione europeista contrapposto a Capo del governo di persuasione sovranista. Il capo del governo governa grazie alla sua maggioranza parlamentare, ma il Presidente della Repubblica può sciogliere quel Parlamento se ritiene che vi siano problemi per il buon funzionamento degli organismi costituzionali (ed è probabile che vi saranno).

L’irresponsabilità del capo di governo non politico. Uno stato di necessità e un vulnus non attribuibile a Draghi.

Concludo con un’osservazione che costituisce il mio apporto “originale” alla valutazione dei governi guidati da non-politici.

Ribadisco che non vedo pericoli di autoritarismo e neppure rischi di apatia nell’elettorato e di conformismo.

Nell’ottica della democrazia il vero inconveniente del capo di governo non-politico è la sua sostanziale irresponsabilità. Non dovrà rispondere a nessuno, tranne con un po’ di sana retorica a sé stesso e alla sua coscienza, di quello che ha fatto, non fatto, fatto male.

Poiché la democrazia si alimenta anche di dibattiti e di valutazioni sull’operato dei politici, l’irresponsabilità, cioè la non obbligatorietà e, persino, l’impossibilità di qualsiasi verifica elettorale a meno che Draghi intenda, commettendo, a mio modo di vedere, un errore, creare un partito politico oppure porsi alla testa di uno schieramento, esistente o da lui aggregato,   rappresenta un vulnus. Non è corretto attribuire il vulnus a Draghi, ma a chi ha creato le condizioni che hanno reso sostanzialmente inevitabile la sua chiamata. Ne ridurremo la portata grazie alla nostra consapevolezza dello stato di necessità, ma anche se i partiti e i loro dirigenti sapranno operare per impedire la futura ricomparsa di un altro stato di necessità. È lecito dubitarne.

Note al testo

  • Ho criticato le loro analisi e proposte in un breve articolo: Cfr. Gianfranco Pasquino,Ma di cosa parlate, cosa scrivete?”, Comunicazione Politica, XXII, (1), gennaio-aprile, pp.103-108.
  • Ernesto Galli della Loggia, “Il sistema politico che cambia”, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2021.  
  • Si vedano i miei contributi in: Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino,  Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1996, 148 p. e il capitolo conclusivo: “Una Repubblica da imitare?” del libro da me curato insieme a Sofia Ventura, Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Bologna, il Mulino, 2010, 283 p. [pp. 249-281].   

Pubblicato il 14 settembre 2021 su Key4biz

Alla ricerca di un Macron che non c’è

La domanda giusta non è: “chi è il Macron italiano?”. La domanda giusta è: “sarebbe possibile un Macron in Italia?” Non pochi hanno già dato risposta alla prima domanda: “Matteo Renzi”. È la risposta sbagliata poiché Macron ha rotto gli schieramenti politici francesi e ha creato un movimento allargato, mentre Renzi ha addirittura agevolato la rottura del PD e ne ha ridotto il consenso. Più importante è la risposta alla seconda domanda. A fronte delle improvvisate richieste di un Macron italiano, la mia risposta è: “non ne esistono le condizioni politiche e istituzionali minime”. Preliminarmente, si dovrebbe anche osservare che Macron non ha affatto rinnovato la sinistra francese . Ha, invece, assorbito parte significativa del declinante Parti Socialiste e ha emarginato quel che è rimasto della sinistra in Francia (equivalente come consenso elettorale grosso modo a quello del Partito Democratico in Italia). A nessuno in Italia riuscirà di fare un’operazione come quella francese poiché mancano le condizioni politiche e soprattutto istituzionali. Quand’anche Forza Italia fosse assimilabile ai gollisti francesi, che, a loro volta, sono stati largamente erosi da Macron, quel che rimane del suo consenso elettorale, aggiunto a quello del PD, supponendo che giungessero relativamente compatti all’appuntamento, non servirebbe a conseguire nessuna maggioranza parlamentare. Anzi, il rischio è che una parte degli elettori di Forza Italia accelererebbero il loro deflusso a favore di Salvini. Quel che soprattutto manca all’eventuale “operazione Macron” è il contesto istituzionale. Con coraggio politico di cui bisogna dargli atto, Macron entrò in campo grazie alla decisiva opportunità offertagli dal modello istituzionale della Quinta Repubblica francese: l’elezione popolare diretta del Presidente. La sua performance è stata notevole, ma la sua personale vittoria fu favorita dalla frammentazione dell’elettorato altrui. Poi, è stata la legge a doppio turno per l‘elezione dell’Assemblea Nazionale francese a dargli attraverso una serie di convergenze e di riaggregazioni una maggioranza parlamentare molto confortevole, ma anche molto composita. Nessuno può pensare neppure per un momento che la legge Rosato, approvata con lo scopo di dare ai leader il potere di nominare i loro parlamentari, consentirebbe agli elettori italiani di “rompere le righe” a favore di nuovi candidati che abbiano già trovato un leader coraggioso. Infatti, quand’anche esistesse un leader politico dotato di sufficiente coraggio da sfidare quel che rimane dei partiti in Italia, gli mancherebbe l’arena. Senza semi-presidenzialismo accompagnato da una legge elettorale a doppio turno a nessun uomo o donna politica italiana sarà mai possibile mettere alla prova il proprio coraggio. Dunque, chi vuole (essere) un Macron italiano dovrebbe iniziare la sua battaglia proponendo il modello semi-presidenziale francese e la relativa legge elettorale. Il resto sono chiacchiere ovvero, come direbbero i francesi, è noioso e improduttivo blà blà blà.

Pubblicato AGL il 3 settembre 2018

“Meglio che niente”, lo slogan peggiore

Il fatto

Qualsiasi valutazione si voglia dare delle riforme costituzionali Renzi-Boschi, la mia è argomentatamente negativa, appare davvero esagerato che, come afferma Michele Salvati, Perché la riforma riguarda tutti (ed è soltanto un primo passo, 29 maggio 2016), quelle riforme chiudano la transizione iniziata nel 1992-94 e diano vita ad una Seconda Repubblica.

Peraltro, Salvati si cautela affermando che tutto il buono delle riforme, soprattutto in termini di miglioramento delle capacità decisionali, “lo vedremo fra molto tempo”. Invece, Salvati non ci racconta quando e perché mai sarà possibile vedere derivare ” il rispetto delle leggi” da riforme che riguardano il Senato, il CNEL, il Titolo V, i referendum abrogativi. Per lui quello che conta è che Renzi e Boschi, sulla base della loro competenza e esperienza, rifacendosi ai, da loro e dai loro sostenitori spesso richiamati, Togliatti e Iotti, Berlinguer e l’Ulivo (sic), stanno senza dubbio portando l’Italia lontano dalla necessità dei compromessi che fondarono la Prima Repubblica verso una Repubblica caratterizzata dall’efficienza delle istituzioni: un esito magico conseguito limitandosi a ridimensionare il malvagio Senato catto-comunista.

Già troppi commentatori, sbagliando, hanno definito Seconda Repubblica il periodo iniziato nel 1994 e terminato con le elezioni politiche del febbraio 2013. La verità è che siamo tuttora nella Prima Repubblica, nella seconda complicata e tormentata fase dell’unica, peraltro, nient’affatto pessima, Repubblica che l’Italia ha avuto. I francesi, che di Repubbliche se ne intendono, avendone avute cinque (e alcuni loro commentatori sostengono, sbagliando, che la Sesta Repubblica stia pazientemente strisciando), farebbero notare che una nuova Repubblica si caratterizza e si configura quando cambia la forma di governo. Non quando si procede a qualche ritocco per di più pasticciato. È avvenuto così per tutte le Repubbliche francesi, in maniera più evidente, più significativa, più profonda, con il passaggio dalla Quarta Repubblica (1946-1958), che fu una forma di governo parlamentare tradizionale quant’altre mai, alla Quinta Repubblica (1958), che è una forma di governo semipresidenziale notevolmente innovativa e funzionale. Che dovrebbe piacere a chi prova fastidio per procedure decisionali lente e faticose (come, però, succede in tutte le democrazie effettivamente tali).

No, nessuna delle riforme costituzionali Renzi-Boschi attiene, nel bene o nel male, alla forma di governo. Tutte le democrazie parlamentari europee hanno bicameralismi differenziati in maniera migliore con riferimento alla composizione e ai compiti di quanto abbia saputo fare il governo italiano ridimensionando e depotenziando il Senato. La sola trasformazione del Senato non consente in nessun modo di sostenere che è cambiata la forma di governo e che si sta affermando una nuova Repubblica. Neppure la legge elettorale, un porcellum riveduto, solo parzialmente corretto, porta verso una nuova forma di governo né, tantomeno, verso una rappresentanza politica in grado di cogliere meglio preferenze e interessi dei cittadini. Potrà, in parte, dare più potere al capo del governo, ma sicuramente, pur squilibrando il rapporto governo/parlamento differenziato/Presidente della Repubblica (un punto finora inadeguatamente colto), non farà affatto uscire l’Italia dall’ambito dei governi parlamentari tradizionali.

La transizione non si sta affatto concludendo né per quello che riguarda la legge elettorale, per la quale, comunque, è consigliabile attendere le osservazioni della Corte costituzionale, né per quello che concerne le interazioni governo/parlamento. Infatti, come hanno sostenuto da tempo tutti gli studiosi delle molte transizioni politico-istituzionali avvenute in Europa e nel resto del mondo, la transizione si chiude davvero soltanto quando quasi tutti gli attori politici rilevanti, anche se non hanno convenuto sulle riforme e sulle soluzioni, accettano l’esito che diventa “the only game in town”. No, in Italia molti non vorranno partecipare a quel gioco e avranno non poche buone ragioni per rifiutarvisi. No, neppure dopo quella che, al momento, appare una vittoria non ancora annunciabile, ma sicuramente risicata, in un referendum sciaguratamente, ma deliberatamente, trasformato in un plebiscito, le riforme Renzi-Boschi saranno ampiamente accettate. Per il modo e il merito continueranno a essere controverse e il loro contenuto, quando, finalmente, si faranno i conti, apparirà largamente inadeguato. Non saremo entrati nella Seconda Repubblica. Non avremo chiuso neanche un po’ la transizione politico-istituzionale. Rimarremo come coloro che son sospesi. Sarà anche difficile cavarsela affermando, in maniera, quando si mette mano alla Costituzione, non proprio lusinghiera: “meglio che niente”. Il ritornello dei sostenitori delle riforme sta già suonando stanco e triste, sempre meno credibile.

Pubblicato il 4 giugno 2016

Lectio brevis “Tradurre voti in seggi”- Accademia Nazionale dei Lincei

logo linceiCLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE
venerdì 11 marzo 2016, alle ore 16.00

il Socio Gianfranco Pasquino terrà la «Lectio brevis»
Tradurre voti in seggi

Roma – Palazzo Corsini
via della Lungara, 10

invito lincei

TRADURRE VOTI IN SEGGI

Tradurre voti in seggi è un’operazione solo apparentemente semplice che si presta ad una molteplicità di soluzioni. L’intento è, da un lato, quello di dare potere agli elettori, altrimenti non sarebbe un’operazione democratica; dall’altro, di scegliere bene i rappresentanti. All’inizio, ovvero nei due grandi paesi che, appunto, si avviarono per primi alla democrazia: Gran Bretagna e USA, fu il maggioritario in collegi uninominali. Chi ottiene più voti, non necessariamente e raramente la maggioranza assoluta, vince il seggio. In praticamente tutti i sistemi politici europei si cominciò a votare utilizzando questa modalità. Quanto al Regno d’Italia ereditò la formula elettorale maggioritaria, ma a doppio turno, in collegi uninominali, che era stata utilizzata in Piemonte. Pertanto, è sbagliato sostenere che “la proporzionale” è nel DNA degli italiani, semmai lo è delle italiane che cominciarono a votare nel 1946. I miei bisnonni e i loro figli ebbero un DNA maggioritario (dal quale non intendo liberarmi).

Tutti i sistemi politici investiti da quella che chiamerò diaspora anglosassone hanno ancora oggi sistemi elettorali maggioritari a turno unico in collegi uninominali e sono regimi democratici, anche se, in particolare negli USA, qualche trucchetto, detto gerrymandering, di manipolazione nel ritaglio dei collegi continua a essere fatto. Nell’Europa continentale, a partire dal Belgio nel 1891, dove liberali e democristiani, sfidati dai socialisti, introdussero in chiave difensiva una legge elettorale proporzionale, a cavallo fra il secolo XIX e il secolo XX, furono adottati sistemi elettorali proporzionali ritenuti in grado di dare migliore rappresentanza a un elettorato che cresceva e si diversificava. Forse più “rappresentativa”, la proporzionale cosiddetta “pura”, vale a dire senza clausole, corre costantemente il rischio di frammentare il sistema dei partiti, di consentire, se non anche, talvolta, di favorire, la nascita di molti partiti piccoli con peso esagerato sulla formazione dei governi di coalizione, come avvenne, con conseguenze gravissime, nella Repubblica di Weimar (1919-1933).

Oggi, nel mondo, mentre aumenta il numero di sistemi politici che diventano democratici, è possibile constatare che, sostanzialmente, esiste quasi lo stesso numero di paesi che hanno sistemi maggioritari e sistemi proporzionali. Funzionano in maniera più che adeguata sistemi elettorali maggioritari a turno unico come quello dell’Australia, originale adattamento del classico sistema inglese; sistemi a doppio turno in collegi uninominali come quello francese della Quinta Repubblica; sistemi di rappresentanza proporzionale personalizzata con clausola di eccesso al parlamento del 5 per cento come quella usata in Germania. Sappiamo che non esistono sistemi elettorali “perfetti”. Però, esistono sistemi elettorali migliori di altri, sistemi che danno più potere ai cittadini di scegliere e di responsabilizzare i loro rappresentanti. L’Italicum non fa parte dei sistemi elettorali migliori.

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Gianfranco Pasquino

L’Italicum nelle condizioni date

Larivistailmulino

Da “il Mulino“, n. 4/2015, pp. 631-639

Con la sola eccezione della Quinta Repubblica francese, nessuna democrazia dell’Europa occidentale ha riformato il suo sistema elettorale nel secondo dopoguerra. Il sistema adottato all’inizio della vita di quasi tutte le democrazie occidentali è rimasto tale nella sua sostanza tranne qualche piccolo ritocco. Peraltro, la Francia offre molteplici esempi di riforme elettorali e di cambiamenti di repubbliche. Nel 1985, il Presidente François Mitterrand impose l’abbandono del doppio turno nei collegi uninominali a favore di una legge elettorale proporzionale che non impedì la vittoria del centro-destra di Jacques Chirac, ma aprì le porte dell’Assemblea nazionale al Front National di Jean-Marie Le Pen. Subito dopo la sua vittoria, Chirac re-instaurò il doppio turno che non è più stato toccato. In Italia, invece, oltre al tentativo, fin troppo spesso menzionato, della legge truffa (1953), si sono avute nell’ultimo ventennio due riforme elettorali molto incisive e un ritocco nient’affatto marginale. Suggerirei a chi paragona l’Italicum alla legge truffa di farlo non guardando soltanto ai meccanismi, in buona misura comunque diversi, ma al contesto e alle presumibili conseguenze. Quanto ai meccanismi, il semplice fatto che il premio della legge truffa sarebbe stato attribuito ad una coalizione (non ad un partito) che avesse ottenuto il 50 per cento più uno dei voti, è un elemento decisivo di cui tenere grande conto per qualsiasi buona comparazione.

Del contesto della legge truffa sappiamo che De Gasperi voleva difendere le coalizioni centriste dalle pressioni di coloro, Vaticano compreso, che auspicavano un’alleanza con i neo-fascisti. Almeno una delle possibili conseguenze della legge truffa è da tenere in grande considerazione, vale a dire che con i due terzi dei parlamentari, acquisiti grazie al premio di maggioranza, i centristi gonfiati sarebbero stati in grado di eleggere chi volevano alla Presidenza della Repubblica, ma, soprattutto, avrebbero potuto passare “dall’ostruzionismo di maggioranza” (copyright Piero Calamandrei), nella non attuazione della Costituzione, allo stravolgimento degli istituti più innovativi e meno graditi, neppure ancora esistenti: Corte Costituzionale e Consigli regionali. Il resto della comparazione della legge truffa con l’Italicum lo lascio, temporaneamente, al lettore, ma chi volesse avventurarsi, lo sconsiglio, nella comparazione Italicum/sistema elettorale francese deve sapere che il primo è un sistema proporzionale in circoscrizioni con più eletti, il secondo un sistema maggioritario in collegi uninominali: due logiche diverse quando non addirittura opposte. Quanto all’eventuale comparazione fra Mattarellum e Italicum, l’affermazione di Renzi (conferenza stampa di fine 2014) che “l’Italicum è un Mattarellum con preferenze”, non criticata da nessun giornalista né mai ripresa e rilanciata da nessun costituzionalista e filosofo renziano , lascia allibiti. L’Italicum è un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza, mentre il Mattarellum è un sistema elettorale maggioritario con recupero proporzionale. Definirli entrambi sistemi misti equivale a cancellarne con nessun vantaggio cognitivo proprio la differenza che conta nella traduzione di voti in seggi. In entrambi, all’incirca i tre quarti dei seggi sono attribuiti rispettivamente con formula proporzionale l’Italicum, con formula maggioritaria il Mattarellum.

Se nel 1993 e nel 2005, ma anche nel 1991, sono state fatte due riforme elettorali e un intervento dalle notevoli conseguenze, la narrazione renziana, come ho già avuto modo di scrivere su questa Rivista, dei “trent’anni senza fare riforme”, crolla come un castello di carte truccate. E’ vero che il ritocco, vale a dire, il passaggio da tre o quattro voti di preferenza alla preferenza unica da esprimersi scrivendo il nome del candidato/a fu prodotto da un voto referendario nel 1991 (con la campagna elettorale intelligentemente centrata sulla possibilità per l’elettore di scegliere il suo rappresentante), ma è anche vero che il Mattarellum fu scritto dalla Camera dei Deputati su impulso, ma non su dettatura, del referendum del 1993. Ancora più vero è che l’importante e ben funzionante legge sui sindaci fu redatta dal Parlamento, nel quale giacevano utili disegni di legge in materia (fra i quali uno scritto da me per la Sinistra Indipendente del Senato), proprio per sventare un referendum dal contenuto ancora più maggioritario.

Nell’ottobre-dicembre 2005 tanto velocemente che si può dire frettolosamente, la maggioranza di centro-destra formulò e approvò il Porcellum (e molto altro in materia di riforme costituzionali). Non è che delle riforme che non piacciono è lecito dire che non sono riforme poiché, altrimenti, anche dell’Italicum diventa obbligatorio consentire agli oppositori di sostenere che non è vera riforma. Inoltre, non si dimentichi che anche nel caso dell’Italicum la spinta riformatrice è stata esogena: la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale che ha fatto uno spezzatino del Porcellum. Dopo avere esordito con un ventaglio di tre proposte, Renzi ha mercanteggiato con Berlusconi, contraente unico del Patto del Nazareno, un sistema che, nella sua impostazione, nella sua struttura, in molte sue clausole, è sostanzialmente un Porcellinum. Vi si trova quasi tutto quello che c’è nel Porcellum, ma in misura ridotta. Liste bloccate, ma non del tutto; candidature multiple, ma non dappertutto; soglie di accesso alla Camera dei deputati, ma più basse; premio di maggioranza, ma con soglia percentuale predefinita e relativamente elevata per guadagnarlo. Se nessuna lista/partito supera la soglia, qui sta la novità, che poteva essere ancora migliore, il premio sarà attribuito soltanto dopo un ballottaggio fra i due partiti o le due liste che hanno ottenuto più voti senza raggiungere il 40 per cento. Meglio sarebbe stato stabilire che: 1) il ballottaggio deve tenersi comunque, anche se un partito supera il 40 per cento dei voti; 2) al ballottaggio sono consentiti, come già avviene per l’elezione dei sindaci, gli apparentamenti. Ad ogni buon conto, il ballottaggio, pure molto apprezzabile per il potere che dà agli elettori, contraddice platealmente uno degli slogan renziani: sapere chi ha vinto la sera delle elezioni. Per lo più, ci vorranno un paio di settimane per conoscere il nome del vincitore. Più seriamente, sono molti i sistemi elettorali, a cominciare da quello tedesco, che, pur senza premio di maggioranza, hanno regolarmente consentito agli elettori di conoscere rapidamente il nome del vincitore. Nessuno, ma proprio nessuno degli studiosi di sistemi elettorali (mi limito a citare i più grandi, da Duverger a Rae, da Rokkan a Lijphart, tutti notissimi agli studiosi) ha mai preso in considerazione questo elemento né lo ha ritenuto rilevante nel valutare la qualità dei sistemi elettorali.

Il ballottaggio sempre e comunque si giustifica poiché è una delle modalità più sicure per dare potere agli elettori. Non solo due voti sono meglio di uno, ma il voto del ballottaggio è effettivamente un voto al governo e, se proprio lo si vuole leggere come un mandato, un voto anche a favore del capo della maggioranza vittoriosa. Poiché l’Italicum impedisce la formazione di coalizioni pre-elettorali, la possibilità di apparentamenti in caso di ballottaggio allontanerebbe meno l’Italia dalle altre democrazie parlamentari europee. In tutte queste democrazie, ad eccezione della Gran Bretagna (dopo la fase di coalizione Conservatori-LiberalDemocratici, 2010-2015), la Spagna (in attesa delle elezioni di fine anno, ma con la consapevolezza che i partiti regionali, specie quelli catalani, hanno costantemente offerto il loro aiutino sia ai Socialisti sia ai Popolari) e la Svezia (quando i Socialdemocratici non ottengono abbastanza seggi per fare e guidare un governo di minoranza) sono stati e continueranno ad essere di coalizione. E’ vero che le coalizioni italiane hanno una storia dei rissosità e di disomogeneità, ma un partito grande e un capo capace e motivato, che non pensi di essere un “assistente sociale”, ma sappia agire da leader politico, possono cambiare questa storia non edificante, ma neppure tutta ingenerosamente e ignorantemente da buttare. Infatti, le coalizioni di governo sono potenzialmente in grado di offrire due vantaggi. Primo, una coalizione è regolarmente più rappresentativa di preferenze, interessi, ideali di un qualsiasi partito unico quand’anche questo partito tenti minacciosamente di presentarsi come Partito della Nazione. Secondo, qualsiasi coalizione impone ai contraenti che formano il governo di espungere i loro punti programmatici estremi, quindi più controversi, a favore di un programma più moderato, più aderente alle aspettative dell’elettorato, più facile da tradurre in politiche pubbliche.

Saranno i voti (e i seggi) ottenuti dai partiti coalizzati/apparentati a consentire loro di attuare le politiche pubbliche preferite senza incamminarsi, grazie alle resistenze opposte dai rispettivi elettorati, su strade settarie. Sarà il partito più grande in termini di voti ad avere, come accade in tutte le democrazie parlamentari europee, più cariche, più potere, più responsabilità. Senza necessariamente essere un teorico delle coalizioni, Roberto Ruffilli aveva auspicato in Commissione Bozzi che in Italia si costruisse una “cultura della coalizione”. Farne, come ha detto gongolante a “Porta a porta” il vicesegretario del PD Lorenzo Guerini, un sostenitore ante litteram dell’Italicum perché il libro di Ruffilli ha come titolo Il cittadino come arbitro non è solo una manipolazione. E’ un’aberrazione imperdonabile. Incidentalmente, for the record, in Commissione Bozzi sia Ruffilli sia Barbera (con Andreatta, Scoppola, Segni) votarono un ordine del giorno a favore del sistema elettorale tedesco.

In maniera che sarebbe divertente, se non fosse stupida, i sostenitori dell’Italicum ne hanno vantato la minore disproporzionalità dell’esito rispetto a quanto avvenuto nelle elezioni inglesi del 7 maggio 2015. Quand’anche il paragone non fosse platealmente improprio e, fra l’altro, improponibile poiché l’Italicum non ha ancora avuto nessuna applicazione, sarebbe preferibile paragonare i due sistemi in termini di rappresentanza politica, uno dei punti maggiormente vantati dagli italioti. Nei collegi uninominali sia inglesi sia francesi, gli elettori sanno come i candidati sono stati prescelti, li vedono e li ascoltano, talvolta persino interloquiscono con loro. A loro volta, i candidati che, con pochissime qualificate eccezioni, sono espressione sociale, culturale, politica di quel collegio, vedono gli elettori, li ascoltano e rispondono alle loro domande prima di tornare, periodicamente e alla fine del loro mandato, a rispondere dei loro comportamenti in Parlamento, di quanto hanno fatto, non hanno fatto, hanno fatto male. Sono le personalità e le azioni e omissioni dei candidati che ne determinano elezione e rielezione. Invece, nell’Italicum, ha affermato giuliva il Ministro delle Riforme Istituzionali Maria Elena Boschi, sarà il capolista bloccato ad avere il ruolo di rappresentante di collegio. Personalmente, lo riterrei piuttosto un “commissario politico”. Poiché i collegi sono cento sicuramente il Partito Democratico avrà cento “rappresentanti di collegio”, ma nello stesso collegio saranno altrettanto sicuramente eletti anche alcuni candidati del Partito Democratico oltre che, quantomeno, anche un rappresentante del Movimento Cinque Stelle, probabilmente un rappresentante di (quel che resta di) Forza Italia, in tutti i collegi del Nord un rappresentante della Lega di Salvini, in maniera sparsa ed episodica molti dei capilista bloccati del Nuovo Centro Destra e dei Fratelli d’Italia. Insomma, saranno molti gli elettori a godere della straordinaria e insperata condizione di essere “rappresentati” addirittura da quattro o cinque diversi rappresentanti di collegio, magari non nati lì, mai vissuti lì, diventati rappresentanti di non sapranno bene che cosa tranne, questo lo sanno benissimo e sarà ricordato loro di frequente, del leader che li ha nominati e lì li ha piazzati.

Nei collegi uninominali, chi vince sa benissimo che cosa deve e che cosa può rappresentare. Sa anche che il suo mandato serve ad imparare a conquistare elettori aggiuntivi che vadano a sostituire quegli elettori che, inevitabilmente, si sentiranno insoddisfatti. In quei collegi, la politica ravvicina elettori ed eletti. Ai capilista bloccati questo ravvicinamento non potrebbe importare di meno. Degli elettori non si cureranno, ma guarderanno e passeranno alla faccia della rappresentanza del collegio, di un collegio che molti conosceranno poco e male. Poiché gli elettori avranno anche la possibilità di dare uno o due (in questo caso obbligatoriamente sia per un uomo sia per una donna) voti di preferenza, potrebbero anche verificarsi casi di uomini e donne davvero espressione di quei collegi. Che là vivono, che vi hanno fatto attività politica, che hanno una biografia professionale di rilievo, che si sono rivelati in grado di ottenere un alto numero di preferenze, ma che, per il cattivo andamento del loro partito in quel collegio, non sono riusciti a vincere il seggio. Alla faccia della rappresentanza, il capolista bloccato entrerà in Parlamento; il candidato molto preferenziato ne rimarrà fuori e con lui si sentiranno tagliati fuori da una buona e affidabile rappresentanza anche tutti gli elettori che lo hanno votato (magari con qualche riluttanza non gradendo del tutto il partito, ma fidandosi della persona, delle sue qualità, della sua storia). Ci sarebbe da dire anche sulla doppia preferenza su base di genere che rischia di re-introdurre sgradevoli fenomeni di piccole cordate che poco avranno a che vedere con la rappresentanza e molto con il potere anche clientelare.

Fra i grandi meriti (a futura memoria) dell’Italicum vantati dagli italioti un posto centrale occupa il bipolarismo. Non soltanto l’Italicum lo preserverebbe, lo incoraggerebbe e lo incardinerebbe, ma lo trasformerebbe da sgangherato, muscolare e feroce in funzionale, temperato, buono. Come il buon bipolarismo possa essere incoraggiato e preservato da una legge che, primo, come abbiamo visto, impedisce la formazione di coalizioni; secondo, con la bassa soglia di accesso alla Camera dei deputati, un risibile 3 per cento, consente e quasi premia la frammentazione partitica, appare un mistero assolutamente inglorioso. Solo parzialmente l’eventualità del ballottaggio va nel senso di incoraggiare il bipolarismo. Infatti, se le aggregazioni prima del ballottaggio sono vietate, l’esito più probabile è la corsa di tutti contro tutti, all’insegna del “o la va o la spacca”. Altro non si può fare. Pur essendo inevitabile constatare che, nella situazione data, al ballottaggio arriverebbe il Movimento Cinque Stelle, non ne consegue affatto che l’Italia avrebbe un assetto bipolare nella Camera dei deputati. Come minimo vi sarebbero rappresentati cinque partiti (PD, Cinque Stelle, Lega, Forza Italia, Area Popolare-NCD), forse sei (Fratelli d’Italia). Se, innamorati dell’esperienza inglese, cercassimo un governo-ombra, elemento cardine di quel bipolarismo, non sapremmo proprio dove andare a trovarlo. Tralascio il fatto che non tanto il Movimento Cinque Stelle è tecnicamente e orgogliosamente “anti-sistema”, vale a dire che potendo cambierebbe non il governo, ma il sistema, bensì che le clausole dell’Italicum non gli impongono alcuna costrizione a cambiare strategia e posizionamento, a cercare alleati, a entrare nella logica di una competizione sanamente bipolare. Anche se non porta al governo, questa competizione spinge nel senso della costituzione di un’opposizione parlamentare che si darà comportamenti tali da caratterizzarsi come effettiva e praticabile alternativa di governo. Invece, no: avremo un partito gonfiato dal premio di maggioranza che sarà punzecchiato, ma mai veramente controllato e sfidato dalle minoranze parlamentari che non riescono a farsi opposizione vera.

No, l’Italicum non dà vita al sindaco d’Italia, che è una brutta formula e che, a livello nazionale, configurerebbe un pessimo esito. Infatti, all’Italicum mancano i due cardini della competizione per vincere la carica di sindaco, vale a dire: a) la possibilità di coalizioni pre-elettorali e b) la facoltà di apparentamenti in caso di ballottaggio fra i due candidati sindaco più votati. Inoltre, nelle leggi per l’elezione del sindaco esiste il voto di preferenza per i consiglieri comunali. Tuttavia, non c’è dubbio che l’Italicum dà grande visibilità e grande potere al capo del partito che vince il premio di maggioranza. Non sono fra i cultori della deriva autoritaria della democrazia italiana già di per sé di bassa qualità. Credo che i paragoni fra Renzi e Mussolini siano assolutamente malposti e per nulla illuminanti, addirittura fuorvianti (suggerirei anche di non fare inutili paragoni fra la Legge Acerbo e l’Italicum). Dare grande potere a chi non ha particolari qualità non sfocia nell’autoritarismo, ma, forse, in tentazioni di autoritarismo, più probabilmente in disfunzionalità le cui avvisaglie abbiamo già variamente visto. Intravvedo, questo sì, un po’ di presidenzializzazione negli effetti presumibili dell’Italicum con sconfinamenti del governo sia sul versante della Corte Costituzionale sia sul versante di quel tanto o poco di indipendenza il Parlamento e i parlamentari dovrebbero cercare di mantenere ed esercitare sia, infine, nei confronti del Presidente della Repubblica. Continuo a meravigliarmi del favore con cui molti commentatori che si autodefiniscono “liberali” accolgono il potenziamento del governo e del capo del governo senza neppure suggerire qualche contrappeso.

Faremmo troppo onore agli inventori pitagorici dell’Italicum se pensassimo che si erano resi conto delle conseguenze sistemiche del loro tipo di legge elettorale sulle altre istituzioni (qui mi corre l’obbligo di segnalare, per approfondimenti, le posizioni che ho elaborato, tenendo conto del sistema, in Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea, 2015), ma quelle sul potere del Presidente sono troppo visibili per non essere state almeno intraviste. Qualcuno discuterà del quorum necessario all’elezione del (prossimo) Presidente affinché la gonfiata maggioranza di governo (non) vi possa procedere prepotentemente da sola. Qui mi limito a rilevare che al Presidente della Repubblica viene, almeno in prima battuta, sottratto il potere di “nominare” il Presidente del Consiglio. Difficilmente potrà operare per la sua sostituzione nel caso di comportamenti erratici, riprovevoli oppure, semplicemente, inadeguati. Non avrà più il potere reale di sciogliere il Parlamento ovvero, meglio, di rifiutarne uno scioglimento opportunistico. L’elasticità della forma parlamentare di governo, una delle caratteristiche più preziose delle democrazie parlamentari, in sé e non soltanto se paragonate alla rigidità dei presidenzialismi, è da considerarsi sostanzialmente cancellata con conseguenze la cui gravità speriamo di non dovere mai misurare. Chi sa se il Presidente Mattarella si è già reso conto di essere stato circoscritto e dimezzato, messo sul binario delle funzioni cerimoniali, per di più, in competizione con il Presidente del Consiglio? Chi rappresenterà la Nazione? Non i parlamentari nominati (e paracadutati). Non un Presidente eletto da una maggioranza resa forte grazie ad un premio. Probabilmente, la rappresentanza della Nazione sarà rivendicata dal capo del sedicente Partito della Nazione (e dalle sue corifee).

L’Italicum non è affatto, come i renziani hanno pappagallescamente sostenuto, l’unica legge elettorale possibile nelle condizioni date. Tanto per cominciare, “le condizioni date” sono cambiate almeno un paio di volte e non di poco, ridimensionando il potere di veto di Berlusconi. In secondo luogo, la politica è proprio l’attività che mira a cambiare le condizioni date, ma nessuno dei renziani ha mai saputo né voluto tentare di cambiare quelle condizioni. Poche idee ossessivamente difese non promettono nessuno sbocco innovativo, nessuno sbocco europeo come, d’altronde, rivela, persino inconsciamente, il nome della (non tanto) nuova legge elettorale. Per essere europei bisogna non soltanto guardare alle democrazie europee che funzionano, non sono poche, ma sapere imitare i modelli a partire dalla loro ratio, la loro logica istituzionale. In conclusione, non sarò così ipocrita da affermare che mi auguro che l’Italicum funzioni. No, al contrario, è preferibile che questo brutto sistema elettorale malamente proporzionale riveli fin dalla prima applicazione le sue molte magagne e sia rapidamente e incisivamente riformato ovvero, ancora meglio, completamente sostituito. Amen.

Doppio turno, non doppio gioco.

Al di là di qualsiasi disputa tecnica, purché condotta con chi si intende di sistemi elettorali e di modelli di governo, il grido di battaglia “Sindaco d’Italia” contiene elementi problematici e prospettive inquietanti. Anzitutto, dovrebbe essere a tutti noto che la legge per l’elezione dei consigli delle città al disopra dei 15 mila abitanti è proporzionale con voto di preferenza ed eventuale premio di maggioranza per il sindaco vittorioso al ballottaggio. E’ opportuno effettuare la trasposizione di questi meccanismi dalle città al governo dell’Italia facendo eleggere il Primo ministro dagli elettori? Se la risposta è affermativa, il quesito successivo è: questo sistema esiste da qualche altra parte al mondo in regimi democratici? Qui la risposta è facilissima: no, non esiste. E’ stato utilizzato qualcosa di simile in Israele in tre elezioni consecutive. Poi è stato abbandonato poiché non aveva garantito né stabilità politica né efficacia decisionale. Naturalmente, qualche frequentatore di stazioni può pensare che gli italiani saranno più bravi degli israeliani, ma, alla luce del dibattito elettorale e istituzionale in corso da trentacinque anni, è lecito dubitarne fortemente. Comunque, il sistema congegnato per l’elezione diretta del Primo ministro configurerebbe il doppio turno di coalizione formula che non è affatto la stessa di quella vigente per l’elezione dei sindaci. Infatti, il doppio turno di coalizione richiede la formazione, quasi coatta per chi voglia conquistare il premio (che, non lo si dimentichi, sta per diventare oggetto di sentenza da parte della Corte Costituzionale), di coalizioni eterogenee che abbiamo già conosciuto e che sappiamo essere dolorosamente instabili. Se, poi, il doppio turno di coalizione, che, come ci è stato raccontato, ad esempio dall’ instancabile Violante, si fonda sulla ripartizione proporzionale di almeno l’80 per cento dei seggi, implica anche l’elezione popolare del Primo Ministro, direttamente o indirettamente (il capo della coalizione vittoriosa), allora viene totalmente modificata la forma di governo parlamentare. Ne consegue un balordo presidenzialismo di fatto senza freni e senza contrappesi. Nelle democrazie parlamentari il governo si forma in Parlamento, anche a prescindere da quanto incautamente promesso agli elettori. In Parlamento, eventualmente, quel governo si disfa. In parlamento, eventualmente, viene sostituito da un altro governo senza nessuna necessità/obbligo costituzionale di ritorno alle urne. Elezioni frequenti non risolvono il problema della formazione del governo. Logorano i cittadini e le istituzioni. Producono ferite nel tessuto democratico. Imprecisati “sindaci d’Italia” e confusi “doppi turni di coalizione” soddisfano alla grande le voglie di proporzionale. Per nulla soddisfatti debbono essere coloro che pensano che le bandiere di un partito sono i suoi programmi e le sue priorità. Nel programma del Partito Democratico sta il doppio turno di collegio, aggiungo subito e preciso “uninominale”, nel quale i candidati e gli elettori ci mettono la faccia e chi vince tornerà a farsi vedere perché è nel suo interesse se vuole essere rieletto. Se, infine, vogliamo personalizzare la politica, allora la soluzione è l’elezione popolare, separata da quella del Parlamento, del Presidente della Repubblica nella versione migliore che è quella della Quinta Repubblica francese. Efficace, sperimentata e duratura. Tutto il resto non è, come ha scritto Shakespeare, “silenzio”. Purtroppo, è chiacchiericcio stupido, disinformato, inconcludente che serve a fare il doppio gioco: un po’ maggioritario, un po’ vagamente proporzionalista.

pubblicato su www.gazebos.it