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Sul semipresidenzialismo: un dialoghetto urgente e pressante @C_dellaCultura


Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore
Apprendista: Come un fulmine nel ciel sereno (sic) della politica italiana, il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha evocato il “semipresidenzialismo de facto”. Nel profluvio di interpretazioni, che mi sono per lo più parse piuttosto disinformate, mi piacerebbe sentire la sua.
Professore: Rispondo, anzitutto, sul “de facto” poiché purtroppo ho fatto un frettoloso tweet definendo l’idea del presidenzialismo de facto “abbastanza eversiva”. Uscire dalla democrazia parlamentare italiana per praticare un semipresidenzialismo non tradotto in norme costituzionali è, tecnicamente, una “eversione” della nostra Costituzione. A mente più fredda, sono giunto alla conclusione che Giorgetti non suggeriva l’eversione, ma indicava una soluzione secondo lui possibile e auspicabile: Draghi Presidente della Repubblica che si nomina un Primo ministro suo agente in Parlamento. Può succedere, fermo restando che il Parlamento manterrebbe il potere di sfiduciare il capo del governo e il Presidente quello di sciogliere il Parlamento, anzi, addirittura di minacciarne anticipatamente lo scioglimento. Nel circuito istituzionale del semipresidenzialismo tutto questo è possibile. Legittimo. Produttivo di conseguenze democratiche. Poi, per il semipresidenzialismo de jure ci vorrebbe, ovviamente, una seria e complessa riforma della Costituzione.
A: Poiché ho letto “attribuzioni” di paternità che non mi sono parse convincenti, ricominciamo da capo. Chi ha dato vita alla parola e alla pratica del semipresidenzialismo?
P: Padri della terminologia, non sono stati, come hanno scritto troppi commentatori, né il Gen. De Gaulle né il giurista Maurice Duverger. Il fondatore della Quinta Repubblica era interessato ad un regime che si basasse sul potere costituzionale del Presidente della Repubblica a scapito di quello politico dei partiti. Duverger combattè e perse la sua battaglia a favore dell’elezione popolare diretta del Primo ministro (sì, se le suona qualcosa in testa è giusto così). Solo diversi anni dopo giunse a teorizzarne la validità e l’efficacia (A New Political System Model: Semi-Presidential Government, giugno 1980). In effetti, il termine fu coniato in un articolo pubblicato l’8 gennaio 1959 da Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano “Le Monde”, che voleva criticare l’accentramento di potere nelle mani del Presidente (de Gaulle). In parte, Beuve-Méry aveva ragione, ma era proprio quell’accentramento che de Gaulle voleva e aveva chiesto ai suoi consiglieri giuridici a cominciare da Michel Debré che diventò il primo Primo Ministro della Quinta Repubblica. Lo ottenne. Poi si riscontrò che il semipresidenzialismo gode anche di una buona dose di flessibilità.
A: È vero che esisteva un precedente esempio di semipresidenzialismo finito tragicamente e quindi non menzionabile?
P: Verissimo. La Costituzione della Repubblica di Weimar (1919-1933) aveva disegnato proprio una forma di governo semipresidenziale. Non è inconcepibile che i giuristi intorno a de Gaulle e il grande sociologo Raymond Aron che avevano studiato in Germania in quegli anni ne siano stati più o meno inconsapevolmente influenzati. Solo molto tempo dopo una studiosa USA, Cindy Skach, ha scritto un bel libro mettendo convincentemente le istituzioni di Weimar in collegamento con quelle della Quinta Repubblica (Borrowing Constitutional Designs: Constitutional Law in Weimar Germany and the French Fifth Republic, Princeton University Press, 2005). La vera grande differenza fra Weimar e la Quinta Repubblica è che nella prima fu utilizzata una legge elettorale proporzionale che consentiva/facilitava la frammentazione del sistema dei partiti, mentre in Francia funziona un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che premia le posizioni moderate e incentiva la formazione di coalizioni.
A: Forse è il momento per definire esattamente cos’è una forma di governo semipresidenziale.
P: Fermo restando, naturalmente, che saprei proporre una definizione con parole mie, ubi maior minor cessat. Quindi, cedo la parola a Giovanni Sartori che individua cinque caratteristiche:
i) il capo dello Stato (il presidente) è eletto con voto popolare –direttamente o indirettamente—per un periodo prestabilito;
ii) il capo dello Stato condivide il potere esecutivo con un primo ministro, entrando così a far parte di una struttura ad autorità duale i cui tre criteri definitori sono:
iii) il presidente è indipendente dal Parlamento, ma non gli è concesso di governare da solo o direttamente; le sue direttive devono pertanto essere accolte e mediate dal suo governo;
iv) specularmente, il primo ministro e il suo gabinetto sono indipendenti nella misura nella quale sono dipendenti dal parlamento e cioè in quanto sono soggetti sia alla fiducia sia alla sfiducia parlamentare (o a entrambe), e in quanto necessitano del sostegno di una maggioranza parlamentare;
v) la struttura ad autorità duale del semi-presidenzialismo consente diversi equilibri e anche mutevoli assetti di potere all’interno dell’esecutivo, purché sussista sempre l’ “autonomia potenziale” di ciascuna unità o componente dell’esecutivo. (Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino 2000, pp. 146-147)
Farei un’unica, importante aggiunta: il Presidente può sciogliere il Parlamento quasi a suo piacere (in generale lo motiva con la necessità del buon funzionamento degli organismi costituzionali, ma la tipologia degli scioglimenti può essere alquanto varia e variegata) purché quel Parlamento abbia almeno un anno di vita.
A: Abitualmente chi parla di semipresidenzialismo si riferisce (quasi) esclusivamente alla Quinta Repubblica francese, spesso, per lo più, in maniera critica e per sostenere che non è appropriato per la Repubblica italiana. Ciononostante, il semipresidenzialismo si è “affacciato” anche in Italia, giusto?
P: Proprio così. Altro che affacciarsi, il semipresidenzialismo irruppe nella Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema quando nel giugno del 1998 i rappresentanti della Lega riuscirono a farlo votare più per affondare la Commissione che per convinzione. Nel dibattito accademico (che non vuole dire soltanto “ininfluente”), Sartori lo appoggiò sempre. Personalmente anch’io sono favorevole, “non da oggi”. Rimando al mio capitolo nel libro che contiene anche capitoli di Stefano Ceccanti e Oreste Massari, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee (il Mulino 1996). Le critiche sono tante, troppe per poterle citare, ripetitive e faziose, per lo più inadeguate dal punto di vista della “verità effettuale”. Insomma, molto si può dire del semipresidenzialismo, ma considerarlo il prodromo di qualche scivolamento irreversibile nell’autoritarismo mi pare francamente improponibile. Qui, poi, si misura anche il provincialismo di molti giuristi italiani e dei commentatori che vi si affidano che sembrano credere che il semipresidenzialismo esista soltanto in Francia.
A: “Provincialismo” è una critica che lei rivolge spesso ai giuristi italiani, ma in questo caso come la sostanzierebbe?
P: Mai domanda fu più facile. In maniera sferzante Sartori rimanderebbe tutti alle bibliografie internazionali che elencano numerosi titoli dedicati alle forme di governo semipresidenziali esistenti in molte parti del mondo: dall’Europa dell’Est a, comprensibilmente, non pochi paesi dell’Africa francofona, a Taiwan che mi pare un caso molto interessante e istruttivo. In estrema sintesi, alcuni studenti taiwanesi a Parigi quando venne creata la Quinta Repubblica ne apprezzarono l’assetto istituzionale e lo importarono in patria. Con notevole successo. Su tutto questo si vedano l volumi curati da Lucio Pegoraro e Angelo Rinella, Semipresidenzialismi, CEDAM 1997, e da Robert Elgie e Sophia Moestrup, Semi-presidentialism outside Europe, Routledge 2007.
A: Insomma, a sentire lei tutto andrebbe splendidamente nel semipresidenzialismo, saremmo nel migliore dei mondi possibili, appropriatamente, insieme al francese Candide. Però, a lungo proprio in Francia vi furono voci critiche e una ventina d’anni fa venne introdotta una riforma piuttosto incisiva Dunque?
P: Credo sia interessante ricordare che il primo cattivissimo critico della Quinta Repubblica, con lui tutta la sinistra, fu François Mitterrand nel suo libro Le coup d’État permanent (1964). Eletto Presidente nel 1981, dichiarò memorabilmente: “Les institutions n’étaient pas faites à mon intention. Mais elles sont bien faites pour moi”. Le critiche più frequenti hanno riguardato il fenomeno della cohabitation: il Presidente di una parte politica, la maggioranza parlamentare di un’altra parte, spesso proprio quella opposta. Sicuramente, de Gaulle non avrebbe gradito, ma lo scioglimento del Parlamento che i Presidenti possono imporre dopo un anno di vita del Parlamento, è lo strumento con il quale tentare di uscire dalla cohabitation. Fu così nel 1981 e nel 1988. Comunque, se quando c’è governo diviso negli USA ne segue uno stallo nel quale non riescono a governare né il Presidente né il Congresso, nei casi di coabitazione governa il Primo ministro (fu così anche nella lunga 1997-2002 coabitazione fra il Presidente gollista Jacques Chirac e il Primo ministro socialista Lionel Jospin) che ha una maggioranza parlamentare consapevole che, creando difficoltà al “suo” Primo ministro, correrebbe il rischio dello scioglimento del Parlamento. Per porre fine all’eventualità della coabitazione Chirac e Jospin si accordarono su una riforma che non sarebbe certamente stata gradita a de Gaulle: riduzione della durata del mandato presidenziale da sette a cinque anni, elezioni presidenziali da tenersi prima di quelle legislative contando sulla propensione dell’elettorato a dare una maggioranza al Presidente appena eletto. Finora ha funzionato con soddisfazione di coloro che credono che la coabitazione è sempre un problema. La mia valutazione è diversa, ma ne discuteremo in altra sede. Mi limito a suggerire di pensare ad una coabitazione fra Draghi Presidente della Repubblica e Meloni Presidente del Consiglio. Meglio, certamente, dell’instabilità dei governi italiani e della creazione di maggioranze extra-large. Ciò detto, il discorso sul semipresidenzialismo non finisce qui, ma mi pare di averne almeno messo in chiaro gli assi portanti.
Pubblicato il 8 novembre 2021 su casadellacultura.it
Qualcosa che so sul semipresidenzialismo. Scrive Pasquino @formichenews


In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica
Il termine non fu coniato da de Gaulle, uomo di sostanza, e neppure da Maurice Duverger. Il giurista e politologo francese, favorevole all’elezione popolare diretta del Primo ministro, per uscire dalla palude parlamentare, fu un fiero oppositore (di de Gaulle e) del semipresidenzialismo. Poi, forse anche perché si accorse che funzionava alla grande, ne divenne il “teorico” e l’aedo. A inventare il termine fu, con un editoriale pubblicato l’8 gennaio 1959, Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano Le Monde. Molto critico di de Gaulle, affermò che al Generale non era neanche riuscito di arrivare al presidenzialismo, solo ad un quasi presidenzialismo, per l’appunto semipresidenzialismo. In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante.
Ne era esistito un precedente troppo a lungo trascurato: la Repubblica di Weimar (1919-1933). La sua triste traiettoria e la sua tragica fine non ne facevano un esempio da recuperare. Il fatto è che Weimar crollò per ragioni internazionali e nient’affatto essenzialmente a causa del suo sistema elettorale proporzionale. Ad ogni buon conto de Gaulle volle e ottenne un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che spinge all’aggregazione delle preferenze laddove le leggi elettorali proporzionali consentono (non necessariamente producono) la disgregazione delle preferenze e la frammentazione del sistema dei partiti.
Il ministro leghista Giorgetti prevede, auspica, apprezzerebbe un semipresidenzialismo de facto. Nella sua visione, una volta eletto alla Presidenza della Repubblica Mario Draghi continuerebbe a guidare il “convoglio” delle riforme del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza attraverso un presidente del Consiglio di sua fiducia da lui nominato. Ho sbagliato a criticare la visione di Giorgetti, formulata con molte buone intenzioni. Potrebbe anche essere effettivamente l’esito che si produrrà. Naturalmente, il Parlamento italiano manterrà pur sempre la facoltà di sfiduciare il capo del governo scelto da Draghi, obbligandolo a nuove e diverse nomine. Vado oltre poiché rimane del tutto possibile che con elezioni anticipate oppure alla scadenza naturale della legislatura, marzo 2023, il centro-destra ottenga la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e rivendichi giustamente la carica di presidente del Consiglio.
Al proposito, i critici del semipresidenzialismo leverebbero altissimi lamenti contro la coabitazione fra Draghi e chi il centrodestra gli proporrebbe e giustamente vorrebbe fosse nominato. In Francia nessuna coabitazione, ce ne sono state quattro, ha prodotto lacerazioni politiche e costituzionali. Mi si consenta di essere assolutamente curioso delle modalità con le quali si svilupperebbe una coabitazione fra Mario Draghi e Giorgia Meloni.
P.S. Dei comportamenti semipresidenzialisti de facto di Napolitano (con Monti) e di Mattarella (con Draghi) scriverò un’altra volta. Sì, è una minaccia.
Pubblicato il 7 novembre 2021 su formiche.net
Quel che so su Weimar, la sua forma di governo e le sue vicissitudini istituzionali

Professore di Diritto costituzionale comparato

Quel che so su Weimar, la sua forma di governo e le sue vicissitudini istituzionali
Diverse Manifestazioni del Pluralismo
La Costituzione di Weimar disegnò una Repubblica semipresidenziale ante-litteram. In questo intervento ne analizzo le componenti essenziali e le vedo all’opera nelle elezioni presidenziali, nella formazione dei governi e nella cultura politica. Concludo con una sintetica comparazione con le varianti elettorali e istituzionali che hanno reso solido e funzionante il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica francese
La Repubblica di Weimar è stata frequentemente oggetto di comparazioni male impostate e peggio eseguite, che non conducono a nessun apporto conoscitivo. Invece, la tragica vicenda di Weimar contiene una pluralità di lezioni (e non lezioni), istituzionali e politiche, tuttora importanti che meritano di essere apprese.
Naturalmente, una trattazione esauriente è quasi impossibile anche, ma non solo, per, da un lato, l’incredibile numero di studi che sono stati dedicati alle vicissitudini di Weimar, dall’altro, per la complessità dell’evento e delle sue componenti in un paese, la Germania, che era già nella modernità e che godeva di una vita culturale di altissimo livello. Dunque, sono costretto ad essere selettivo, anche perché parto dalle conoscenze circoscritte alla (mia) scienza politica e alla mia, spero adeguata, abilità di “comparatista”.
La prima osservazione, a mio parere, molto importante e, probabilmente, non adeguatamente presente nelle numerose monografie dedicate alla Repubblica di Weimar, è che siamo di fronte ad un caso di democratizzazione: transizione da un regime autoritario ad un regime democratico. La letteratura esistente distingue le varie modalità di transizione e gli esiti con riferimento prevalente alla ridefinizione delle coalizioni socio-politiche ed economiche che si sfaldano all’inizio della transizione e si formano per condurla a termine. Potremmo anche parlare di blocchi dominanti, ma sarebbe eccessivo. Quello che, invece, pare accertato nel caso della Germania è che due, forse, tre dei gruppi dominanti: Forze Armate, burocrazia, Junker (i grandi e potenti latifondisti prussiani), si videro sottrarre parte, ma soltanto parte, del loro potere politico e non ritennero mai del tutto legittimo il nuovo assetto come configurato nelle strutture istituzionali della Repubblica di Weimar e nella sua Costituzione.
Ad ogni buon conto, è fuor di dubbio che dal punto di vista istituzionale e politico fu effettuata una vera e propria transizione: la Germania imperiale e autoritaria fu costretta anche dalla sconfitta in guerra a cedere il passo ad una Repubblica democratica. Però, qui vorrei evidenziare un elemento molto significativo che, per un insieme di ragione non mi pare sia mai stato colto e mai stato approfondito. A sua insaputa e, persino, all’insaputa degli autorevoli giuristi, a cominciare da Hugo Preuss, considerato il più influente fra loro, la Costituzione di Weimar disegnò una repubblica semi-presidenziale. La mia affermazione deve essere motivata con precisione. Weimar non fu una democrazia parlamentare se definiamo, come ritengo corretto, democrazie parlamentari i regimi nei quali il governo nasce, funziona, cambia in Parlamento e, come avrebbe voluto Max Weber, il capo del governo è il “dittatore del campo di battaglia parlamentare”. Nella Repubblica di Weimar il potere esecutivo non fu mai del tutto nelle mani del Cancelliere che dovette sempre fare i conti con il Presidente della Repubblica. Nelle democrazie parlamentari, se non sono monarchie, il Presidente è eletto dal Parlamento (un’altra delle attività che fanno del Parlamento un organismo centrale). Dopodiché, naturalmente, il Presidente, capo dello Stato, ha una gamma variabile di poteri, ma in pratica, non è mai il capo dell’esecutivo.
La Costituzione di Weimar stabilì il principio dell’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. Non esistevano precedenti né casi simili. Questa scelta è assolutamente comprensibile e, forse, anche giustificabile poiché era importante conferire legittimità alla Presidenza, una legittimità comparabile a quella dell’ereditarietà di cui aveva goduto l’Imperatore. Oggi, abbiamo imparato che l’elezione popolare diretta del capo dello Stato comporta una pluralità di rischi, fra i quali, il prevalere della “popolarità” e delle qualità personali, non politiche, del candidato sulla sua esperienza e competenza politica, ma Weimar operava in un terreno sostanzialmente sconosciuto. Il primo presidente della Repubblica, il socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu eletto dall’Assemblea Costituente nel febbraio 1919. Con una modifica a maggioranza qualificata della Costituzione, il suo mandato fu poi prolungato fino al giugno 1925, ma Ebert morì in carica nel febbraio 1925.
Quelle elezioni presidenziali del 1925 già contengono e manifestano elementi di notevole problematicità, per lo più non sufficientemente segnalati e approfonditi. Primo, se nessun candidato otteneva la maggioranza assoluta dei votanti, si passava al secondo turno che non era un ballottaggio fra i due meglio piazzati. Infatti, il secondo turno era aperto a tre candidati. Secondo elemento di rilievo, al secondo turno poteva entrare in campo anche un candidato non presente al primo turno. Avvenne proprio così. Dopo il primo turno, a causa della dichiarata indisponibilità del Zentrum di votare il candidato socialdemocratico, l’SDP scelse di ritirare il suo candidato e di appoggiare Wilhelm Marx, mentre DNP e DNDP decisero di sostituire Jarres a favore del quasi ottantenne Maresciallo Paul von Hindenburg. La tabella 1 mostra la distribuzione dei voti.
È lecito interrogarsi su che cosa sarebbe successo se l’elezione presidenziale avesse previsto il ballottaggio fra i due candidati meglio piazzati. Mi limito a notare che gli elettori del candidato comunista che non sarebbe più stato in lizza avrebbero dovuto scegliere fra l’astensione e il voto, probabilmente a favore del candidato socialdemocratico. Naturalmente, lo stesso discorso vale per gli elettori di tutti gli altri candidati, in particolari quelli del Zentrum (il cui candidato riuscì ad andare alquanto oltre la somma dei voti SPD-Zentrum: una prestazione straordinaria). Per tutti coloro che temono il declino della partecipazione elettorale quando gli elettori sono chiamati alle urne due volte in breve sequenza, vale la pena evidenziare una vera e propria impennata di partecipazione. Al secondo turno votarono quasi 3 milioni e 500 mila elettori in più.
Sette anni dopo la situazione era notevolmente mutata. I socialdemocratici rinunciarono addirittura a presentare un loro candidato sostenendo fin dall’inizio la rielezione di Hindenburg, che, però, fu mancata per poco al primo turno. I dati della tabella 2 indicano che l’affluenza alle urne fu particolarmente elevata, tra sei e dieci milioni in più rispetto al 1925, ma che fra il primo (85,6%) e il secondo turno (82%) si ebbe una diminuzione di circa 1 milione e 150 mila elettori. In termini di voti Hitler ebbe un notevole, ma non eccezionale successo. Nel complesso, poco più di un elettore su tre votò per lui che rimase comunque distanziato di quasi sei milioni da Hindenburg. Il candidato comunista Thälmann ottenne molti più voti del 1925, ma nel passaggio fra primo e secondo turno quasi un quarto degli elettori lo abbandonarono. Hindenburg, vecchio e malato, morì il 2 agosto 1934. Già cancelliere, Hitler cumulò le due cariche senza che si tenessero più elezioni presidenziali. La democrazia di Weimar era già terminata l’anno prima senza, però, è assolutamente opportuno sottolinearlo, che il Partito Nazionalsocialista di Hitler, in elezioni legislative che, peraltro, furono ampiamente manipolate, riuscisse ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti. Finché le elezioni furono libere, gli elettori tedeschi non affossarono la democrazia. In verità, non esiste nessun esempio di regime democratico assassinato dagli elettori.
Qui si innesta la seconda grande considerazione. È opinione molto diffusa (in Italia ampiamente intrattenuta e frequentemente ripetuta) che alla legge elettorale proporzionale deve essere attribuita la responsabilità maggiore, se non addirittura decisiva, non solo del cattivo funzionamento della forma di governo di Weimar, ma addirittura del crollo della sua Repubblica. Credo che sia necessario ridimensionare significativamente questa grandiosa accusa. La proporzionale fotografò, consentì, agevolò la frammentazione del sistema dei partiti della Repubblica di Weimar. “Dopo le elezioni del 1928 ci furono ottantotto parlamentari eletti da partiti che avevano ottenuto meno percentuali di voto a livello nazionale inferiore al 5” (M. R. Lepsius From Fragmented Party Democracy to Government by Emergency Decree and National Socialist Takeover: Germany, in J. Linz and A. Stepan (a cura di), The Breakdown of Democratic Regimes, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1978, p. 45). Rese sempre, come d’altronde tutte le leggi elettorali proporzionali che conosciamo, obbligatorio procedere alla formazione di coalizioni di governo multipartitiche, composite, a Weimar più che altrove attraversate da tensioni e conflitti, ma la responsabilità fondamentale del crollo non deve essere attribuita al pur importante meccanismo elettorale. Il sistema inglese, maggioritario in collegi uninominali, non avrebbe impedito, con buona pace del pur grande studioso tedesco Ferdinand Hermens (Democracy or Anarchy? A Study of Proportional Representation, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1941), né l’impetuosa avanzata di Hitler né il deterioramento e l’esaurimento di Weimar. La responsabilità politica va ai dirigenti di alcuni partiti, la nebulosa di centro-destra, buona parte dei quali non nutrivano affatto sentimenti democratici, e alla struttura del sistema partitico.
Il sistema dei partiti di Weimar è uno dei casi che Giovanni Sartori collocò nella categoria dei sistemi di “pluralismo polarizzato”. Solo parzialmente il pluralismo, che non può essere “democraticamente” compresso e limitato, fa problema, ma il numero dei partiti ha inevitabili conseguenze sul funzionamento del sistema. Secondo Sartori, è probabile che un sistema che non abbia più di cinque/sei partiti possa funzionare con una dinamica centripeta, cioè con qualche convergenza verso il centro. Quando esistono più di sei partiti diventa molto più probabile che, per differenziarsi, i partiti tentino di “catturare” un loro elettorato e lo incapsulino rendendosi poco disponibili alla formazione di coalizioni che richiedano compromessi sulle politiche pubbliche. Il problema di Weimar e, più in generale, del pluralismo polarizzato era costituito, da un lato, dall’esistenza di partiti anti-sistema, cioè di partiti che volevano cambiare il sistema, e, dall’altro, dalla debolezza del centro, che, perno del sistema, infatti, subì una dolorosa frequente emorragia di voti verso destra. Nell’ultima fase è persino troppo facile identificare come “antisistema”, da un lato, i nazisti, dall’altro, i comunisti, ma Lepsius ha messo in luce, con riferimento alle percentuali di voti ottenuti dai partiti (v. Tabella 3) che esistevano tre concezioni di ordine politico e che quella intrattenuta dai partiti democratici venne gradualmente erosa fino ad essere sopravanzata da quella dei partiti autoritari.
Anche perché inevitabilmente composti da coalizioni multipartitiche i governi di Weimar furono instabili e numerosi (e viceversa). Dal febbraio 1919 al 30 gennaio 1933 vi furono addirittura 20 governi (21 se consideriamo quello guidato da Hitler) con una durata media di circa 7 mesi. La metà dei governi fu guidata da esponenti del Zentrum, quattro da personalità senza appartenenza partitica, solo tre dai socialdemocratici, due da Gustav Stresemann (DDP) (traggo questi dati dal nitido libro di G. Corni, Weimar. La Germania dal 1918 al 1933, Roma, Carocci, 2020, pp. 86-87). Ciò rilevato e sottolineato, non si può, tuttavia, considerare questa instabilità come la causa unica e decisiva e neppure come uno dei fattori più importanti del crollo della Repubblica di Weimar. In linea di massima, cercare una sola causa, la causa di qualsiasi evento singolo, per di più di gravità comparabile alla caduta della Repubblica di Weimar, è sempre e comunque, un grave errore.
Personalmente, ritengo che il contesto internazionale, fatto di molti elementi (Le conseguenze economiche della pace come scrisse già nel 1919 John Maynard Keynes) a cominciare dalle esorbitanti richieste per i danni della guerra fino alla crisi economica del 1929, ma anche il sentimento dei tedeschi di trovarsi compressi e schiacciati, nonché umiliati, abbia avuto un impatto devastante su Weimar. Sempre alla ricerca di fattori idiosincratici, ma significativi, le morti improvvise del Presidente in carica il socialdemocratico Friedrich Ebert nel 1925, del Ministro degli Esteri e Premio Nobel per la Pace Gustav Stresemann nel 1929 e financo quella del neo-rieletto Presidente Hindenburg nel 1934 produssero tutte conseguenze gravemente negative. Restando alle personalità, Lepsius (op. cit., pp. 61-69) esplora le qualità carismatiche di Hitler giungendo ad una valutazione tale da sconfinare, credo oltre le sue intenzioni, in una sorta di ammirazione per il personaggio. Infine, molti critici della Costituzione di Weimar hanno evidenziato nell’art. 48, che consentiva al Presidente della Repubblica l’esercizio quasi incondizionato di poteri emergenziali, lo strumento che grandemente agevolò lo scivolamento della Repubblica di Weimar fuori dal perimetro democratico. Non condivido.
Da parte mia, credo che a tutto questo si debba aggiungere un elemento relativo alla cultura pre-politica più che politica dei tedeschi, adombrato da Lepsius nel suo riferimento alle concezioni dell’ordine politico. Dalla famiglia alla scuola, dalle chiese alla burocrazia e alle Forze Armate in tutte queste sedi dominavano modalità gerarchiche e spesso autoritarie di interazione e di scambi che, ovviamente, non potevano reggere una strutturazione politica democratica, mentre l’accentramento del potere al vertice delle associazioni professionali, sindacati compresi ne favorì la conquista (Gleichschaltung) ad opera dei nazisti. A Weimar, sostenne anni dopo, Dankwart Rustow, politologo nato a Berlino che, quattordicenne, lasciò la Germania nel 1938, mancò il tempo per la fase di assuefazione (habituation) ai valori democratici.
“Che cosa rimane di Weimar?” è un quesito che continua a essere sollevato rozzamente, spesso senza sufficiente intelligenza interpretativa, senza “immaginazione” politologica. Dovrebbe essere chiaro a tutti che per le democrazie contemporanee dietro l’angolo non c’è oggi nessuna Weimar, intesa come crisi e crollo delle loro istituzioni e regole, soltanto perché, ad esempio, viene utilizzata una legge elettorale proporzionale senza clausole contro la frammentazione dei partiti e del sistema di partiti. Dietro l’angolo di governi instabili e improduttivi non c’è necessariamente Weimar. Neppure se fa la sua comparsa una crisi economica di dimensioni straordinarie siamo alle soglie di Weimar. Negli anni settanta dello scorso secolo. quando l’Italia era, da un lato, il terreno di scontro di movimenti terroristi di sinistra e di destra e, dall’altro, il suo tasso di inflazione e quello di disoccupazione si sommavano a formare un alto “indice di miseria”, come definito dal sociologo e politologo USA Seymour Martin Lipset, non mi risulta che gli studiosi e neppure i commentatori politici abbiano fatto riferimento a Weimar. Più correttamente molti scrissero di crisi di governabilità, attribuendola, a mio parere, non del tutto convincentemente piuttosto ad un sovraccarico di domande provenienti da società altamente mobilitate.
Nel frattempo, però, in maniera relativamente silenziosa la Repubblica di Weimar aveva fatto la sua non riconosciuta ricomparsa con alcuni non piccoli, ma neppure stravolgenti, ritocchi, nella Costituzione gollista della Quinta Repubblica francese (1958) che (ri)dava vita ad un sistema semi-presidenziale. A regime: elezione popolare diretta con ballottaggio del Presidente della Repubblica dotato del potere di sciogliere il Parlamento e di dichiarare lo stato di emergenza, esistenza di un Primo ministro che rimane in carica se l’Assemblea nazionale non esprime un voto di sfiducia nei suoi confronti. La vera significativa differenza è data dalla legge elettorale che in Francia è maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali. È importante aggiungere anche che la Francia ha avuto il suo leader sicuramente (e doppiamente nel 1940 e nel 1958) carismatico, ma anche sicuramente democratico: il Gen. Charles de Gaulle.
Alla fine di questa selettiva narrazione si trova una “morale” comparativa? Credo di sì. Le istituzioni, i meccanismi, le regole contano. Anche piccole variazioni come quelle introdotte nel suo assetto istituzionale e elettorale dalla Quinta Repubblica rispetto alla Repubblica di Weimar possono fare (e hanno fatto) una enorme differenza. Ne concludo che soltanto la comparazione condotta “sistemicamente”, non a pezzi e bocconi, è in grado di apprendere e impartire lezioni istituzionali convincenti.
*Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei lincei.
La rappresentanza politica esiste dove gli elettori hanno potere @DomaniGiornale
Invece di ricorrere a improbabili non divertenti e assolutamente insignificanti parole latine per definire la bozza della prossima legge elettorale, sarebbe molto più utile che i commentatori ne spiegassero e valutassero le caratteristiche. Dire che in Commissione Affari Istituzionali si discute del Brescellum (perché il cognome del Presidente della Commissione è Brescia), ma si intrattiene anche l’idea del Germanicum o, peggio, del Tedeschellum poiché la legge potrebbe avere una soglia d’accesso al Parlamento del 5 per cento (attendo lo Svedesellum se la soglia sarà del 4 per cento come in Svezia), non serve a informare correttamente nessuno. Annunciare che “ritorniamo” alla proporzionale (con grande scandalo di coloro che temono che l’Italia s’incammini verso una Weimar da loro immaginata) senza ricordare che l’attuale legge Rosato è già 2/3 proporzionale e 1/3 maggioritaria, è una manipolazione. Non spiegare che il non precisato maggioritario che vorrebbe il leader di Italia Viva non ha niente a che vedere con le leggi maggioritarie inglese e francese, entrambe in collegi uninominali, la prima a turno unico, la seconda a doppio turno, è un’altra brutta manipolazione. Infatti, almeno a parole Renzi vorrebbe qualcosa di simile al suo amato Italicum: un premio di maggioranza innestato su una legge proporzionale che gli consentirebbe trattative a tutto campo.
Fintantoché nessuno dirà con chiarezza, e sosterrà con coerenza, che le leggi elettorali si scrivono non per salvare i partiti e per garantire i seggi dei loro dirigenti, ma per dare buona rappresentanza politica agli elettori, non sarà possibile scrivere una legge elettorale decente. Quando leggo nel titolo di grande rilievo dell’intervista rilasciata da Sabino Cassese al “Domani” che : “l’attuale classe politica non è all’altezza di governare”, mi sorgono spontanee (sic) tre domande: 1. come è stata reclutata l’attuale classe politica? Che c’entri qualcosa anche la legge elettorale? 2. dove e come troverebbe l’astuto professor Cassese una classe politica migliore, all’altezza? 3. che sia necessaria una legge elettorale diversa per porre le premesse del miglioramento della classe politica? Poi mi vengono in mente tutti coloro che, saputelli e arrogantelli, dicono che non esiste una legge elettorale perfetta, magari mentre vanno in giro criticando il bicameralismo italiano proprio perché “perfetto” (non lo è).
La classe politica migliore verrà, da un lato, dalla competizione vera fra partiti e fra candidati, proprio quello che la legge Rosato non può offrire, e dalla possibilità per gli elettori scegliere davvero fra partiti, ma anche fra candidati/e non nominati non paracadutati. Se il collegio è uninominale (e la legge maggioritaria), no problem: gli elettori valuteranno anche i candidati, la loro personalità, la loro esperienza, la loro competenza. Se la legge è proporzionale, la lista delle candidature non deve essere bloccata e agli elettori bisogna assolutamente garantire la possibilità di esprimere un voto di preferenza (perché non due lo spiegherò un’altra volta). Trovo, da un lato, risibili, dall’altro, prova sicura di ignoranza profonda, dall’altro, ancora, offensiva per la grande maggioranza degli elettori italiani, sostenere, come viene spesso fatto, che il voto di preferenza apre la strada alla mafia e alla corruzione. Oggi esiste una Commissione parlamentare che serve a individuare preventivamente quali sono le candidature impresentabili e c’è una Legge Severino che punisce severamente la corruzione. La mafia e la corruzione non si combattono, e meno che mai si vincono, sottraendo agli elettori la possibilità di scegliere il loro candidato/a e non consentendo ai candidati/e di andare a cercarsi quei voti, interloquendo con gli elettori per farsi eleggere, e di tornare da quegli elettori per ottenere la rielezione spiegando il fatto, il non fatto, il malfatto. Dunque, le leggi elettorali si valutano in base alla possibilità di stabilire e mantenere un legame di rappresentanza politica fra elettori e candidati attraverso il collegio uninominale oppure il voto di preferenza e dando per l’appunto agli elettori il potere di scegliere. Non mi pare proprio che queste esigenze siano tenute in conto in Commissione alla Camera. Credo che almeno i commentatori (e qualche professore di Scienza politica non servo del suo partito di riferimento) dovrebbero farne tesoro o, quantomeno, tenerle presenti e discuterne.
Pubblicato il 8 dicembre 2020 su Domani
La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura
Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.
Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.
In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.
Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.
In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?
Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera
Dubbi e inciampi dei professionisti delle previsioni #ElezioniPolitiche2018
“Grande è la confusione sotto il cielo” (dei commentatori e editorialisti del Corriere della Sera) direbbe il compagno Presidente Mao Tse-tung che leggeva i quotidiani internazionali di qualità. Un po’ dovunque le elezioni italiane sono viste con preoccupazione pari all’incertezza dell’esito. I capitalisti non gradiscono situazioni imprevedibili, ma certo non possono essere rassicurati dalla lettura dei paragoni storici formulati negli ultimi mesi, con un crescendo, dal Corriere della Sera. La legge elettorale Rosato fu salutata, erroneamente, come il ritorno della proporzionale, mentre la legge contiene addirittura più di un terzo di seggi assegnati con metodo maggioritario. Paolo Mieli e altri evocarono per l’Italia un destino simile alla tragica caduta della Repubblica di Weimar (1919-1933) addebitata alla legge proporzionale senza tenere in nessun conto né il contesto dell’Europa fra le due guerre né “le conseguenze economiche della pace”, come scrisse Keynes, né lo scontro fra partiti anti-sistema, nazisti e comunisti. Qualche giorno fa è stato Aldo Cazzullo a esibirsi in un’audacissima comparazione fra le elezioni del 18 aprile 1948 quando non Stalin, ma Dio, come sosteneva la propaganda cattolica, vedeva cosa facevano gli italiani nelle urne. È sicuro che non esiste nessun Stalin redivivo anche se Putin qualche nostalgia deve averla, mentre è molto probabile che Dio abbia priorità diverse rispetto al controllo del voto di italiani molto meno cattolici del 1948 e orfani della Democrazia cristiana. Nel frattempo, Mieli ha cambiato prospettiva e ha recuperato un’altra elezione italiana importante quella del 16 novembre 1919 quando fu utilizzata per la prima volta una legge proporzionale in nessun modo simile alla Legge Rosato, in quanto, fra l’altro, priva di qualsiasi componente maggioritaria. In realtà, lo “sfondamento” elettorale fascista, numericamente non molto consistente, 35 deputati, avvenne nelle elezioni del 1921. Tutto questo si produceva all’insegna della crisi del blocco liberale che Giolitti aveva sapientemente costruito e tenuto insieme per un paio di decenni e dell’incapacità dei Socialisti e dei Popolari di trovare un accordo di governo. Non è chiaro quale messaggio Mieli intenda mandare anche al suo collega Cazzullo che, paradossalmente, sembra più ottimista. Infatti, nel 1948 vinse la “forza tranquilla”, ma severa, di De Gasperi (più uomo di governo e statista di Gentiloni) che sconfisse le forze anti-sistema guidate dal Partito Comunista. Mieli lascia intendere che nuove elezioni, dopo quelle di marzo che lui immagina inconcludenti, logorerebbero l’elettorato forse spingendolo ancora di più nelle braccia di chi è contro il sistema, come il Movimento Cinque stelle. Questi articoli e molti dei commenti pubblicati negli ultimi sette-otto mesi hanno basi storiche fragilissime. Sembrano mirare a incentivare comportamenti elettorali che rafforzino il centro, forse il PD, forse anche Forza Italia, quando Berlusconi non s’accoda a Salvini, come gli è già capitato un paio di volte. Rivelano anche una grande sfiducia sia nella classe politica e persino nel Presidente della Repubblica sia nelle istituzioni della democrazia parlamentare italiana. Insomma, come direbbero gli inglesi (che, nel frattempo, hanno una grossa gatta da pelare che si chiama Brexit), sono parte del problema non della soluzione. Per prospettare e impostare qualsiasi soluzione continua a essere preferibile attendere l’esito delle elezioni, contare i seggi, valutare le eventuali coalizioni di governo, i loro programmi e le persone che sarebbero incaricate di attuarli, fare pieno uso della flessibilità che è il pregio maggiore delle democrazie parlamentari. Dubbi paragoni storici non aiutano per nulla questa ricerca. Meglio sarebbe ricordare a tutti che l’Unione Europea può essere una reale e solida ancora di sicurezza per l’Italia anche se, ovviamente, come scrisse Cesare Pavese, “chi non si salva da sé nessuno lo può salvare”.
Pubblicato AGL 14 febbraio 2018
Lectio brevis “Tradurre voti in seggi”- Accademia Nazionale dei Lincei
CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE
venerdì 11 marzo 2016, alle ore 16.00
il Socio Gianfranco Pasquino terrà la «Lectio brevis»
Tradurre voti in seggi
Roma – Palazzo Corsini
via della Lungara, 10
TRADURRE VOTI IN SEGGI
Tradurre voti in seggi è un’operazione solo apparentemente semplice che si presta ad una molteplicità di soluzioni. L’intento è, da un lato, quello di dare potere agli elettori, altrimenti non sarebbe un’operazione democratica; dall’altro, di scegliere bene i rappresentanti. All’inizio, ovvero nei due grandi paesi che, appunto, si avviarono per primi alla democrazia: Gran Bretagna e USA, fu il maggioritario in collegi uninominali. Chi ottiene più voti, non necessariamente e raramente la maggioranza assoluta, vince il seggio. In praticamente tutti i sistemi politici europei si cominciò a votare utilizzando questa modalità. Quanto al Regno d’Italia ereditò la formula elettorale maggioritaria, ma a doppio turno, in collegi uninominali, che era stata utilizzata in Piemonte. Pertanto, è sbagliato sostenere che “la proporzionale” è nel DNA degli italiani, semmai lo è delle italiane che cominciarono a votare nel 1946. I miei bisnonni e i loro figli ebbero un DNA maggioritario (dal quale non intendo liberarmi).
Tutti i sistemi politici investiti da quella che chiamerò diaspora anglosassone hanno ancora oggi sistemi elettorali maggioritari a turno unico in collegi uninominali e sono regimi democratici, anche se, in particolare negli USA, qualche trucchetto, detto gerrymandering, di manipolazione nel ritaglio dei collegi continua a essere fatto. Nell’Europa continentale, a partire dal Belgio nel 1891, dove liberali e democristiani, sfidati dai socialisti, introdussero in chiave difensiva una legge elettorale proporzionale, a cavallo fra il secolo XIX e il secolo XX, furono adottati sistemi elettorali proporzionali ritenuti in grado di dare migliore rappresentanza a un elettorato che cresceva e si diversificava. Forse più “rappresentativa”, la proporzionale cosiddetta “pura”, vale a dire senza clausole, corre costantemente il rischio di frammentare il sistema dei partiti, di consentire, se non anche, talvolta, di favorire, la nascita di molti partiti piccoli con peso esagerato sulla formazione dei governi di coalizione, come avvenne, con conseguenze gravissime, nella Repubblica di Weimar (1919-1933).
Oggi, nel mondo, mentre aumenta il numero di sistemi politici che diventano democratici, è possibile constatare che, sostanzialmente, esiste quasi lo stesso numero di paesi che hanno sistemi maggioritari e sistemi proporzionali. Funzionano in maniera più che adeguata sistemi elettorali maggioritari a turno unico come quello dell’Australia, originale adattamento del classico sistema inglese; sistemi a doppio turno in collegi uninominali come quello francese della Quinta Repubblica; sistemi di rappresentanza proporzionale personalizzata con clausola di eccesso al parlamento del 5 per cento come quella usata in Germania. Sappiamo che non esistono sistemi elettorali “perfetti”. Però, esistono sistemi elettorali migliori di altri, sistemi che danno più potere ai cittadini di scegliere e di responsabilizzare i loro rappresentanti. L’Italicum non fa parte dei sistemi elettorali migliori.
Gianfranco Pasquino