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Parlamentari: meno non è meglio #referendum #taglio #parlamentari
Il raggiungimento della fatidica soglia, stabilita in Costituzione, di un quinto dei parlamentari, in questo caso, dei senatori per chiedere il referendum sul taglio del numero dei parlamentari, è una buona notizia. Prodotta da un accordo fra i Cinque Stelle e Salvini, con tutti crismi del populismo di bassa lega e di quell’antiparlamentarismo viscerale che ha radici profonde nel sistema politico italiano, malauguratamente confermata anche dai parlamentari del Partito Democratico, la riduzione drastica del numero dei parlamentari è stata giustificata con riferimento al risparmio di denaro del contribuente e, in parte minima, come modalità per sveltire i processi decisionali. Per quanto probabilmente reale, il risparmio risulterebbe piuttosto contenuto. Lo sveltimento dei processi decisionali sarebbe tutto da provare anche perché la loro lentezza non dipende dal numero dei parlamentari, ma dall’incapacità dei governanti e dai dissidi, dai conflitti, dagli scontri fra i partiti delle coalizioni di governo e all’interno degli stessi partiti.
Riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200 non significa affatto riduzione di quei conflitti. Quanto al miglioramento della qualità delle leggi, un minor numero di parlamentari non implica in nessun modo che si avranno parlamentari più preparati e più competenti. Anzi, è probabile che se ne troveranno meno poiché i partiti non reclutano e non candidano sulla base di competenze, ma con riferimento a appartenenze di corrente, disciplina, ossequio ai dirigenti e soprattutto al leader del partito e dei suoi collaboratori potenti. Gli effetti dell’irruzione della possibilità di un referendum che ripristini il numero dei parlamentari si faranno, comunque, sentire immediatamente. Dovrà arrestarsi la discussione, che già non promette niente di buono, sull’ennesima riformettina elettorale.
È facile capire che, in linea di massima, un ridotto numero di parlamentari rende più difficile ai partiti piccoli ottenere seggi. Renderebbe anche, se qualcuno lo proponesse seriamente, molto più improbabile la formulazione di un sistema elettorale impostato su collegi uninominali che dovrebbero essere molto grandi e nei quali, quindi, un rapporto più stretto dei candidati e degli eletti con gli elettori diventerebbe molto complicato da conseguire. Senza entrare nei dettagli, un conto è per un candidato cercarsi voti in un collegio uninominale di circa 100 mila elettori, un conto molto diverso è quando il collegio ha più di 200 mila elettori, che sarebbe la dimensione minima dei collegi senatoriali con l’attuale riduzione. Non è il caso di avventurarsi nella previsione dell’esito del referendum, ma è sperabile che i partiti e i loro dirigenti, i comunicatori e gli elettori colgano l’opportunità referendaria, persa quando Renzi personalizzò la sua riforma costituzionale, per chiarirsi le idee su che tipo di rappresentanza desiderano nella democrazia parlamentare italiana. Questo è il mio auspico.
Pubblicato AGL il 19 dicembre 2019
Una delle nostre migliori giornate #4dicembre I meriti di quel voto #No
Domenica 4 dicembre 2016 è stata una bella giornata, una delle migliori per il sistema politico italiano e per la Costituzione. Il NO nel referendum costituzionale che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva trasformato in un plebiscito sulla sua persona ha impedito lo slittamento del sistema politico italiano in direzione populista. Ha anche bloccato per alcuni anni i ripetuti tentativi di strattonare la Costituzione verso due esiti: terribili semplificazioni istituzionali e riduzione del potere degli elettori, che pochissimo hanno a che vedere con il suo impianto e con i suoi obiettivi tuttora solidi e validi. La Costituzione ha dimostrato di sapere accompagnare molti cambiamenti, ma anche di resistere a qualsiasi tentativo di sfigurarla.
A un anno di distanza non dobbiamo né sottovalutare né dimenticare quelle che erano allora e rimangono pervicacemente le patetiche argomentazioni dei fautori del “sì”, renziani della prima ora e renziani saliti sul carro quando sembrava andare verso la vittoria decisiva. L’algoritmo del Centro Studi della Confindustria aveva previsto gravissime conseguenze economiche, nessuna delle quali si è prodotta. Anzi, semmai, dopo il NO, anche se non necessariamente a causa del NO, è cominciata una leggera ripresa dell’andamento dell’economia. A grappolo, il quotidiano della Confindustria aveva concesso tutto lo spazio possibile ai sostenitori del sì. Con mia non troppo grande sorpresa, politologi e storici della LUISS, l’Università della Confindustria, si erano schierati come un sol uomo (infatti, fra loro non c’era neanche una donna) a vantare le lodi delle riforme renzian-boschiane. Non riesco neppure a parlare di “tradimento dei chierici” perché sarebbe per loro troppo onore. D’altronde, le pagine di alcuni quotidiani nazionali erano ricolme di articoli di chierici e di aspiranti tali che argomentavano sottilmente che, come scrisse Michele Salvati, votare contro le riforme era votare contro l’interesse nazionale. Già allora notai che una frase del genere era pericolosamente vicina ad accusare i No di essere “nemici del popolo”. Altri chierici, per esempio, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, decisero di non ospitare dibattiti. Tutti schierati per il sì, quei giuristi si trincerarono dietro una frase che contiene qualcosa di strabiliante e di inquietante: “all’università non si fa politica”. Comunque, difendere la Costituzione da riforme che la squilibrerebbero, che produrrebbero esiti peggiorativi, che aprirebbero la strada a confusioni nei rapporti fra cittadini e istituzioni e fra governo, Parlamento e Presidente della Repubblica, non è fare politica, ma è agire democratico. Per fortuna, a organizzare un dibattito pubblico (fra l’ex-Presidente della Camera, Luciano Violante, e il sottoscritto) ci pensò un’associazione di studenti, in larga misura di giurisprudenza, di sinistra per il “sì”. Quanto all’ex- Presidente della Camera, seguendo la strada aperta da alcuni cattivi maestri, s’impadronì e ripetutamente utilizzò l’espressione, inusitata in scienza politica e fra gli studiosi delle democrazie, “democrazia decidente”. A questo agognato esito avrebbero dovuto condurre, anzi, saremmo sicuramente pervenuti grazie a quelle modifiche costituzionali, anche se nessuna di loro riguardava, come pure sarebbe stato possibile, il luogo per eccellenza della decisione: il governo.
La sconfitta del “sì” non ha consentito il dibattito indispensabile, magari dopo qualche buona lettura (ad esempio, almeno un libro di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è), riguardante quale democrazia parlamentare, oppure anche semi-presidenziale, è possibile e auspicabile costruire. I sostenitori del “sì” hanno preferito esibirsi su un altro versante, quello, inizialmente delineato da Paolo Mieli, del “ritorno alla proporzionale” e del conseguente “rischio Weimar” reso plausibile, quasi imminente dai “no”. È stato molto difficile convincere coloro che avevano dato il loro sostegno all’Italicum che quella legge elettorale così come la precedente legge Calderoli giustamente nota come Porcellum, era già una legge proporzionale, accompagnata o distorta da un premio di maggioranza. Due terzi proporzionale è anche la legge Rosato, che rappresenta quindi un ritorno addolcito, ma anche manipolato, alla proporzionale. “Decidente” sarebbe, dunque, una democrazia che si basa su un premio in seggi? Le vedove politologiche del premio e del ballottaggio, à la D’Alimonte, si sono esibite in spericolate comparazioni fra l’elezione del Presidente della Repubblica francese e il voto per eleggere un Parlamento oppure, à la Renzi, paragonando le percentuali del sì referendario, sicuramente non tutti voti suoi, con le percentuali di Macron, composte da voti praticamente tutti indirizzati a lui.
A un anno da quella bella giornata di dicembre, mentre il mio account twitter continua a registrare i lamenti dei sostenitori del sì per cui tutto quello che loro vorrebbero e non avviene (anche l’eliminazione della nazionale di calcio ad opera degli svedesi) è da attribuirsi alla vittoria del no, resta da constatare come la cultura politico-istituzionale dei chierici abbia imparato poco o nulla. Per fortuna non sono loro a fare funzionare un parlamento che sarebbe stato bislaccamente squilibrato.
Pubblicato il 4 dicembre 2017
Renzi, molto ambizioso ma poco responsabile
Intervista raccolta da Marco Sarti per LINKIESTA
«Renzi è rimasto in carica più di mille giorni, credo che possa ritenersi soddisfatto». Mentre il presidente del Consiglio si prepara a lasciare Palazzo Chigi, il noto politologo Gianfranco Pasquino non sembra avere grandi rimpianti. Professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, già senatore della sinistra indipendente e dei progressisti, Pasquino ricorda errori e contraddizioni dell’ex rottamatore appena sconfitto al referendum costituzionale: dall’eccessivo protagonismo all’incapacità di selezionare una classe dirigente adeguata. Il giudizio di Pasquino, che in questa campagna ha sostenuto con forza le regioni del No, è a tratti impietoso: «Berlusconi aveva carisma, per Renzi parlerei piuttosto di fortuna». Sullo sfondo, resta il futuro incerto del segretario del Pd. «Ma alla fine – continua il politologo – non credo che la sua ambizione lo porterà ad abbandonare la politica».
Professor Pasquino, non siamo ancora ai titoli di coda del renzismo. Forse il presidente del Consiglio dimissionario rimarrà sulla scena e avrà il tempo di trovare la sua rivincita. Eppure la clamorosa sconfitta al referendum chiude in maniera evidente una fase politica.
Sì, credo che si possa dire così. Se Matteo Renzi pensava di cambiare la politica italiana a colpi d’accetta e con grande velocità, l’operazione non gli è riuscita. Forse gli è mancata un po’ di saggezza.
Resta un’esperienza politica significativa, destinata a lasciare il segno. Eppure velocissima. Dall’ascesa di Renzi alla sua sconfitta sono passati solo tre anni.
Sono cambiati i tempi della società, del mondo globale. E inevitabilmente sono cambiati anche quelli della politica italiana. Renzi ha bruciato i tempi. In ogni caso è rimasto in carica per poco più di mille giorni, credo che possa essere soddisfatto. Il suo è uno dei cinque governi più longevi della storia repubblicana. Una nota a piè di pagina sui libri di storia se l’è guadagnata anche lui.
Il renzismo come fenomeno politico. Tra gli aspetti caratteristici c’è l’idea di un uomo solo al comando. Anche nell’ultima campagna elettorale Renzi ha giocato la partita da unico protagonista. È d’accordo?
Questa è stata una sua scelta. Uno stile personalistico che Renzi ha sempre avuto, fin da quando era presidente della provincia di Firenze. Lui non ha mai voluto contare fino in fondo sul partito. Lo ha conquistato, ma ne è rimasto sempre fuori. Ha sempre pensato di poter fare a meno del Partito democratico. Lo teneva da parte, non ne ha mai tenuto conto. E in questo è stato confortato dal successo alle Europee del 2014, che effettivamente è stato un suo successo personale. In quell’occasione il Pd era al 30-31 per cento, ma lui è stato in grado di portarlo fino al 40 per cento.
Forse uno degli errori di Renzi è stato proprio questo? La personalizzazione e l’assenza di un gruppo dirigente all’altezza?
Il gruppo dirigente all’altezza lo avrebbe anche trovato, se solo lo avesse cercato. Invece ha preferito circondarsi di debuttanti, personalità prive di esperienza politica. Penso a Maria Elena Boschi, a Lorenzo Guerini. Anche a Luca Lotti, che dicono essere il suo potentissimo braccio destro. Si è affidato a una classe dirigente di neofiti.
C’è un tema che ritorna nella carriera politica di Renzi. Se la sua ascesa politica si è caratterizzata per gli slogan sulla rottamazione, la sua ultima campagna elettorale si è incentrata sulla lotta alla Casta.
Ed è stata un’operazione poco credibile. Se si vogliono elencare i sostenitori della riforma, al primo posto troviamo proprio Giorgio Napolitano, eletto in Parlamento nel lontano 1953. Poi c’è Luciano Violante, entrato a Montecitorio nel 1979. Seguono i due ex presidenti di Camera e Senato Pierferdinando Casini e Marcello Pera. Ci metterei dentro anche Fabrizio Cicchitto, anche lui un grande sostenitore della riforma, un altro parlamentare di lungo corso. Vede, in questa strategia della rottamazione c’è una grande contraddizione: al referendum sono stati gli elettori sopra i sessant’anni a votare con più convinzione per il Sì. Mentre i giovani sotto i trent’anni hanno votato in prevalenza per il No.
Eppure Renzi ha portato un gran cambiamento nella politica italiana, non è d’accordo? Un premier giovane, tra slide e tweet, in grado di prendere le distanze dai rituali ingessati di Palazzo.
Naturalmente la rappresentazione mediatica era un suo obiettivo. In ogni caso credo che si possa fare qualche tweet e al tempo stesso svolgere la politica con una certa dignità, offrendo un’immagine di serietà. Ma in Renzi questo si è visto poco, contava di più la spettacolarizzazione.
Il presidente del Consiglio ha sempre sofferto l’assenza di una legittimazione elettorale. E alla fine l’affannosa ricerca del voto popolare gli è costata la poltrona.
Dal punto di vista formale la legittimazione di un presidente del Consiglio passa dal voto di fiducia. E in questi anni le occasioni non sono mancate. Tutte le volte che Renzi ha chiesto un voto di fiducia in Parlamento, e sono state anche troppe, l’ha ottenuto. Se voleva così tanto una legittimazione popolare forse aveva la coda di paglia.
In questi anni Matteo Renzi ha dimostrato un’ambizione rara. In politica non è una dote importante?
L’ambizione in politica è molto importante. Prima di me lo diceva James Madison, uno dei principali autori della costituzione americana. Ma dovrebbe sempre fare i conti con la necessità di essere responsabili. Renzi, invece, ha cercato di sfuggire a questa responsabilizzazione. Pensando alla sua esperienza è interessante notare un dato: non c’è mai stata una vera riflessione, il presidente del Consiglio si è sempre occupato di rilanciare. E invece in politica, di tanto in tanto, è importante anche qualche pausa per riflettere.
Recentemente Silvio Berlusconi ha parlato di Renzi come dell’unico leader politico presente in Italia. Lei gli riconosce lo stesso carisma?
Io questo carisma non lo vedo. Non per come lo intendeva Max Weber, che ha introdotto il termine in politica. Lo vedevo in Silvio Berlusconi, semmai. Un uomo che irrompe nella scena mentre il Paese vive una fase di ansia collettiva, i partiti sono crollati e nel centrodestra c’è un enorme vuoto. Crea dal nulla una forza politica, Forza Italia, e vince le elezioni. Renzi non ha fatto nulla di simile. Lui il partito lo ha trovato, è riuscito a conquistarlo grazie alla generosità di Pierluigi Bersani. Per il resto sappiamo come è andata. Parlerei più di fortuna, meno di carisma.
Ammetterà almeno che nel primo discorso dopo il referendum Renzi ha riconosciuto la sconfitta con grande onestà. Una dote rara in politica…
E ci mancherebbe altro. Con il No in vantaggio di venti punti cos’altro avrebbe potuto dire?
Dopo questa sconfitta crede che Renzi cambierà mestiere o proverà a tornare a Palazzo Chigi?
Non credo che la sua ambizione lo porterà ad abbandonare la politica. Renzi ha ancora un certo appeal, la capacità di stare sulla scena non gli manca, ha saputo spettacolarizzare un confronto politico altrimenti noioso. Vedremo. Sarà lui a decidere se rimanere o preferirà ritirarsi e cominciare a scrivere libri di successo…
Pubblicato il 6 dicembre 2016 su LINKIESTA
Riforma da bocciare #4dicembre
Intervista raccolta da Mattia Vallieri
Le carte fondamentali delle democrazie servono a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative
“Questa riforma merita un 4 in pagella”. Una bocciatura netta della riforma costituzionale (“che peggiora l’esistente”) arriva da Gianfranco Pasquino, intervenuto all’iniziativa ‘Per un no sano e consapevole’ organizzato dall’Anpi e intervistato dal direttore di Estense.com Marco Zavagli.
Una stroncatura su più fronti quella presentata dal professore di scienza politica: “in questa riforma non c’è niente di buono. Anche l’abolizione del Cnel, una delle poche cose ragionevoli, può essere fatta il 6 dicembre da una maggioranza qualificata dei parlamentari modificando un solo articolo della Costituzione”. Bordate anche su nuovo Senato e rapporto Stato-Regioni: “io rimango alla riforma come è stata scritta e lì i nuovi senatori vengono scelti dai consigli regionali e questo fa capire che rappresenteranno i partiti e non i territori, qualcuno parlerebbe di lottizzazione – attacca Pasquino -; ricordiamoci poi che servirà una ulteriore legge per decidere come verranno eletti, scelti, nominati. Una parte di centralizzazione dei poteri ci sta ma in questa riforma è troppa”.
Tutte ragioni per cui “non temo una deriva autoritaria, ma una deriva confusionaria, perché anche se alcuni obiettivi sono buoni, il modo di realizzarli è davvero sconclusionato”. Eppure “alcune riforme sono necessarie”. Ma con cautela: “pensiamo al tanto l’articolo 70. Ai costituenti bastarono nove parole (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”). A chi ha scritto questa riforma 438. Spero davvero che chi l’ha redatta non siano né parlamentari né funzionari”.
Anche perché “viviamo in un paese in cui si cambia la Costituzione che tanti cittadini non conoscono e alla faccia della coerenza professionale si modifica il titolo V dopo averlo voluto fortemente per seguire l’idea federalista della Lega” accusa l’ex senatore, dichiarando la sua approvazione ad una modifica della Costituzione diversa da quella proposta dal governo Renzi.
“Non si possono cambiare i principi fondamentali della Costituzione ma io sarei favorevole a toccare anche la prima parte – afferma il professore sfidando gli sguardi degli esponenti Anpi -. L’articolo 21 (libertà di pensiero e parola ndr) andava benissimo per un paese rurale degli anni ’20 oggi con TV e social non va bene, i Patti Lateranensi non hanno senso di fronte all’articolo 8 per il quale tutte le religioni hanno pari dignità; va affrontata poi la questione del conflitto d’interessi e la situazione dei partiti necessita di una disciplina”.
Ce n’è anche per Benigni, un comico che prima diceva che avevamo la “Costituzione più bella del mondo e che ora dice, da comico, che abbiamo la riforma costituzionale più bella del mondo”.
Qual è allora la Costituzione più bella del mondo? “E’ quella non scritta. Penso alla Magna Charta Libertatum dell’Inghilterra, voluta dai lord inglesi per limitare e non per accrescere il potere del re. Ricordiamoci che le carte fondamentali delle democrazie servono proprio a questo: a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative”.
Va poi ricordato che “i padri costituenti non avevano molti esempi con cui confrontarsi. Nel Nord Europa c’erano, e ci sono, delle monarchie e noi avevamo appena votato contro i Savoia; nell’Europa meridionale erano insediate delle dittature. L’unica a disposizione era quella francese, che non è proprio un modello di perfezione”.
Venendo ora al punto cruciale della riforma (il superamento del bicameralismo perfetto) arriva l’ennesima critica di Pasquino: “Il sistema parlamentare voluto dai costituenti serviva per migliorare la qualità delle leggi, con questa riforma si passa oltre senza però avere possibilità di valutare se le cose miglioreranno o meno”.
Secondo il politologo “c’erano anche meccanismi per rafforzare il potere del capo del governo senza ridurre il ruolo del Parlamento. Per dare stabilità bastava inserire il voto di sfiducia costruttivo. Ma Renzi ha detto che non gli è stata data possibilità di inserirlo. Bugia, non si è mai dibattuto sul tema in parlamento”.
Ecco perché alla fine la “pagella” del professore è impietosa: “4 alla riforma, 5 – ai contenuti, 4 a chi l’ha scritta”. ‘Così tanto?’ si domanda dal pubblico. “Eh, ormai gli zero non si danno più”.
Intanto tra una settimana sono attesi alla resa dei conti due schieramenti contrapposti, anche se “più che una battaglia è una partita. Una partita che non finirà il 4 dicembre. In democrazia le partite non finiscono mai”. E questo sia che vinca il sì, “con il conseguente tempo necessario per l’adeguamento normativo”, sia che vinca il no, in conseguenza del quale “parlare di elezioni anticipate è fantapolitica, non è proprio fattibile”. Secondo l’esperto, in caso di sconfitta, “Renzi presenterà le dimissioni e Mattarella avvierà le consultazioni sul nuovo premier. Per terminare la legislatura e tornare alle urne nel 2018”.
Pubblicato il 26 novembre su Estense.com
Mater semper certa est. Manca il pater
Renzi ha appena finito di urlare alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia che un voto NO nel referendum non sarebbe contro di lui, ma contro Napolitano, il vero fautore e autore delle riforme. Caduta, almeno temporaneamente la richiesta di plebiscito su se stesso, Renzi la sposta su Napolitano. Il Presidente Emerito si affretta a chiedere un’amplissima intervista a “la Repubblica” e, naturalmente, l’ottiene. Senza sconfessare Renzi e richiamarlo al rispetto istituzionale, solennemente dichiara che le riforme costituzionali non sono né di Renzi né di Napolitano. Poi insiste che bisogna votarle altrimenti, ma questo lo scrivo io assumendomene le responsabilità, arriveranno Unni e Visigoti accompagnati da altre maledizioni. Peccato che, nel frattempo, un po’ lento a reagire il composito schieramento dei parlamentari del Partito Democratico, degli opinionisti, ricchi di opinioni e poveri di documentazione, e dei professorini fiancheggiatori pronti a entrare o tornare in Parlamento, continuino a ripetere che, sì, quelle riforme furono volute, anzi, imposte da Napolitano al Parlamento sostanzialmente come condizione per accettare la rielezione.
Quante altre grida renziane e quante altre interviste napolitane dovremo attendere per conoscere la verità? Però, almeno una verità già la conosciamo e abbiamo il dovere di diffonderla. Del merito delle riforme e delle loro conseguenze operative praticamente non si discute. Si sostiene che il Parlamento le ha esaminate in tot (ci sono divergenze su quante sono effettivamente state) letture. Si sottolineano i voti favorevoli delle sciagurate, magari un po’ coartate (già il coraggio che non ce l’ha non se lo può dare) minoranze del PD. Si esalta la magnifica spinta e progressista dei riformatori Renzi-Boschi dopo trent’anni e più di immobilismo come se, fatti provati e noti, nel 2001 il centro-sinistra non avesse approvato una profonda riforma del Titolo V (autonomie) e nel 2005 il centro-destra non avesse riformato addirittura 56 articoli di una Costituzione che ne ha 139. Entrambe furono riforme malfatte, la seconda facilmente bocciata dal referendum.
Naturalmente, neppure la presunta novità di riforme non proprio originali e propulsive può essere considerata una discussione sul merito né potrebbe giustificare riforme malfatte. Bontà sua, Napolitano concede, alquanto tardivamente, che bisogna riformare l’Italicum. I renziani buttano la palla in un Parlamento nel quale hanno la maggioranza, mentre in articoli e dibattiti i loro professorini di riferimento si affannano a dichiarare che l’Italicum, da loro apprezzato e giustificato in tutte le salse, non c’entra nulla con le riforme costituzionali. Ma come? conoscere le modalità con le quali sarà eletta l’onnipotente Camera dei deputati sarebbe ininfluente tanto rispetto alla valutazione delle specifiche riforme quanto sul funzionamento complessivo del sistema politico? Dal voto degli elettori, male tradotto dall’Italicum, non dipende il potere dei rappresentanti e dei governanti?
In corso d’opera e in attesa della fissazione della data del referendum, il non compianto Ministro Antonio Gava, suggerirebbe di fissarla prima dell’inizio della stagione sciistica, si fa balenare, anche dal Presidente Napolitano, che la bocciatura delle riforme, del cui “merito” quasi nulla si dice, sarebbe grave per la credibilità e l’affidabilità del paese aprendo una fase d’instabilità. Dismessi i panni dell’agitatore plebiscitario, il Presidente del Consiglio potrebbe dichiarare solennemente ad una prossima Festa dell’Unità che, immediatamente dopo la vittoria del No, si recherà da Mattarella a dare le dimissioni e che, da statista interessato alle sorti del suo paese, rassicurerà i mercati, e collaborerà fattivamente alla formazione di un nuovo governo. Il resto sta nelle mani e nella mente di Mattarella. Ci sarà modo di parlarne.
Pubblicato il 10 settembre 2016
INVITO Revisione costituzionale e Italicum: l’impatto sul sistema politico e istituzionale #Cremona 10 settembre
Coordinamento Democrazia Costituzionale della provincia di CremonaLe ragioni del NOSabato 10 settembre 2016 – ore 17,30Sala Eventi, SpazioComune, p.zza Stradivari, Cremonaincontro pubblicoRevisione costituzionale e Italicum:l’impatto sul sistema politico e istituzionale italianorelatoreGianfranco Pasquinoprofessore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna,attualmente docente alla Johns Hopkins University,Tra i suoi libri consigliamo Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea-UniBocconi 2015La Costituzione in trenta lezioni, Utet 2015;Il Dizionario di politica, Utet 2016. 4a ed. da lui condiretto con Norberto Bobbio e Nicola Matteucci
Verso il referendum 30 luglio #RevolutionCamp2016 Marina di Massa
Verso il referendum – dibattito sulla riforma costituzionale
Sabato 30 luglio ore 18.00
Colonia Ugo Pisa
Viale Lungomare di Ponente, 22 Marina di MassaOn. Emanuele Fiano, Deputato, Relatore di maggioranza sulla riforma costituzionale
Prof. Paolo Carrozza, Professore di Diritto Costituzionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
On. Stefano Quaranta, Deputato, Relatore di minoranza sulla riforma costituzionale
Prof. Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica presso l’Università di Bologna