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Le ossessioni di Crosetto e le lezioni di Montesquieu @DomaniGiornale

“Fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni” è il progetto che il Ministro Guido Crosetto attribuisce a una corrente della magistratura italiana. Di più, “l’opposizione giudiziaria”, “fazione antagonista da sempre …, ha sempre affossato i governi di centro-destra”. Le parole di Crosetto, da lui stesso poi derubricate a ”preoccupazione”, riflettono, di sicuro non intenzionalmente, la situazione di separazione dei poteri e di competizione fra le istituzioni che sta a fondamento delle democrazie. Se non tutto, molto comincia proprio quando un alto magistrato, Charles Louis de Secondat barone de la Prède, noto come Montesquieu, nel 1748 pubblica Lo spirito delle leggi. Al sovrano che cumula potere esecutivo, potere legislativo e potere giudiziario, è imperativo, per ragioni di efficienza e di equità, strappare/togliere il potere di fare le leggi e il potere di decidere le controversie. Debbono nascere nuove istituzioni specializzate e preparate in grado di esercitare con ampia autonomia quei poteri.
Fin dall’inizio di quella che è stato il lungo tragitto che portò alla democrazia il potere giudiziario si è programmaticamente contrapposto al potere esecutivo e, naturalmente, viceversa. Un po’ dappertutto, in misure certamente diverse, il potere esecutivo è insofferente dei controlli che il potere giudiziario ha il compito istituzionale di svolgere e attuare cosicché nella misura del possibile, qualche volta forzando le leggi esistenti, il potere esecutivo cerca di sfuggire. Di frequente annuncia e attua “riforme della giustizia”, nuove modalità di valutazione dell’operato dei giudici, (ri)definizione delle carriere e dei poteri. In questa versione, secondo alcuni acuti studiosi USA, le istituzioni non sono soltanto separate, ma risultano in costante competizione fra di loro. Il rischio grande non è e finora non è stato quello di un golpe del giudiziario che rovesci il potere esecutivo (ma attendo volentieri replica e esempi di Crosetto). Al contrario, vi sono stati (capi di) esecutivi che hanno contrastato l’applicazione delle leggi ad opera del giudiziario, sono intervenuti contro l’istituzione violandone l’autonomia, hanno sfidato le leggi. Gli Stati Uniti da Nixon a Trump offrono esempi molto rilevanti. Ma anche in alcune democrazie europee, la rule of law, noi diremmo lo Stato di diritto, che non è il governo dei giudici, ma delle leggi a partire dalla Costituzione, la “legge deIle leggi”, viene sfidata, violata, ridimensionata dai detentori del potere esecutivo, nell’ordine, in Ungheria e in Polonia.
Non stupisce, quindi, che sia un Ministro a sollevare neanche troppo obliquamente la questione di parte dei magistrati che fanno politica. Certo, quei magistrati vigilano doverosamente su una pluralità di situazioni e di comportamenti impropri: dal conflitto di interessi agli abusi di potere, dall’utilizzo di fonti improprie al cumulo di cariche. Nulla di tutto questo può essere caratterizzato come un complotto. Tutto o quasi può essere affrontato e risolto con riferimento alla Costituzione e alle leggi vigenti. l potenti che ricorrono all’intimidazione preventiva nei confronti dei giornalisti che sollevano coltri di omertà e dei magistrati che hanno l’obbligo di attivarsi ogniqualvolta si palesa e esiste una notizia di reato stanno semplicemente dimostrando che la democrazia è un sistema di freni e di contrappesi. Il ministro e l’uomo Crosetto hanno le spalle abbastanza larghe e forti da contrastare politicamente a viso aperto con il ricorso alle leggi di questo paese e, se necessario, alla Corte di Giustizia Europea, qualsiasi violazione, comportamento scorretto, sentenza particolaristica. Anzitutto, mettendo ordine in casa propria.
Pubblicato il 29 novembre 2023 su Domani
Un Presidente della Repubblica molto persuasivo
In questi giorni i cosiddetti quirinalisti si affannano a difendere preventivamente il Presidente della Repubblica da eventuali, possibili critiche provenienti dalle opposizioni. Secondo molti di loro che conoscono, o almeno così dicono, i retroscena meglio della Costituzione, il Presidente sarebbe sostanzialmente obbligato dall’art. 87 a autorizzare la presentazione alle Camere del disegno di legge sulla riforma della giustizia. Però, non solo ancora non conosciamo il testo preparato dal Ministro Nordio, già ampiamente criticato su punti molto importanti, abuso d’ufficio e concorso esterno in associazione mafiosa, da esponenti di Fratelli d’Italia e della Lega, ma già sappiamo che Mattarella ha avuto un lungo colloquio con la Presidente del Consiglio Meloni proprio su alcuni punti rilevanti. Più che ipotizzabile, è certo che il Presidente della Repubblica abbia sollevato numerose obiezioni di merito.
I quirinalisti, ma non solo, sottolineano che in questi colloqui e in altri, a seconda dei casi, il Presidente esercita la cosiddetta moral suasion. Quanto si tratti di persuasione morale è tutto da vedere e valutare. Molto più probabile è che il Presidente abbia messo in chiaro le sue perplessità suggerendo alla Presidente del Consiglio i cambiamenti necessari che non potranno essere solo cosmetici. Su almeno due aspetti, il Presidente deve essere stato molto fermo. Primo, nessuna parte della riforma può contraddire i principi dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, ad esempio nel contrasto alla mafia. Secondo, nessuna riforma può essere congegnata come punitiva nei confronti dei magistrati. Agitare il cosiddetto garantismo che, un giorno bisognerà pure declinare nelle sue componenti, non implica affermare che i magistrati e coloro che li sostengono siano tutti “giustizialisti” e operino schiacciando e travolgendo i diritti dei cittadini.
Il Presidente della Repubblica conta sull’accettazione da parte del governo di alcuni suoi rilievi. Sa anche che il governo potrebbe procedere senza tenerne conto, caso nel quale la sua autorizzazione non mancherà, ma verrà accompagnata da sue osservazioni puntuali derivanti dalla Costituzione e da quello che vige in Europa. Dopodiché, nel dibattito parlamentare, sperabilmente non troncato da apposizioni di voti di fiducia, maggioranza e opposizioni decideranno se e quali modifiche accettare e introdurre. A norma di Costituzione il testo che sarà approvato dal Parlamento tornerà sulla scrivania del Presidente (anche questo Mattarella ha sicuramente ricordato con cortesia istituzionale a Giorgia Meloni) che ha la facoltà di promulgarlo oppure di restituirlo al Parlamento con le sue critiche ai punti discutibili e anche con le indicazioni su come cambiarli e migliorarli. Questa procedura sì merita di essere configurata come in buona misura “moral suasion”. Certo, qualora la maggioranza di governo procedesse imperterrita senza cedere su nessun punto, si aprirebbe una situazione a dir poco delicatissima.
Pubblicato AGL il 16 luglio 2023
Quirinale, quali sono davvero le conseguenze del possibile passaggio di Draghi dal governo al Colle? @DomaniGiornale


Dai commenti, di retroscenisti e folkloristi, deduco che per l’elezione al Quirinale è già stata superata la fase dei requisiti richiesti. Male. Per molti commentatori, comunque, il problema s’era posto solo con riferimento all’aggettivo ripetuto ad nauseam “divisivo”. Quasi sparita la necessità che il candidato/a dia garanzie di sapere proteggere ruolo, prerogative, potere della Presidenza. Addirittura, Più Europa e Azione, per voce di Emma Bonino, hanno dichiarato di votare la signora (sic) Cartabia per fare la (quale?) riforma della giustizia arrivando così, inopinatamente, alla Presidenza governante. A questo evitabile proposito, è forse utile ricordare che il semipresidenzialismo de jure prevede che il Presidente nomini comunque un Primo Ministro. Non so se il ministro Giorgetti temesse/tema (o auspicasse) che Draghi presidente della Repubblica significhi semipresidenzialismo di fatto con la scelta di un Presidente del Consiglio di suo gradimento, ma il tema è posto nettamente in queste ore.
Premesso che desidererei che chi critica Draghi e il suo operato in quanto capo del governo dovrebbe coerentemente estendere la sua critica anche al più alto sponsor di Draghi, ovvero al Presidente Sergio Mattarella, molti hanno capito che elezione del Presidente e futuro del governo si intrecciano. Chi vuole che Draghi rimanga al governo dovrebbe avere capito che l’attuale Presidente del Consiglio vuole giustamente la garanzia che la maggioranza che lo sostiene sia quella che elegge il Presidente della Repubblica e che, di conseguenza, s’impegni a coadiuvarne l’opera. Dunque, il nuovo Presidente deve più o meno esplicitamente prendere un impegno di continuità. Ci sono almeno due presidenziabili che quell’impegno sono disponibili a prenderlo, che non pretenderebbero di governare e che sono credibili. Non stanno, però, tra i tre nomi proposti dal centro-destra.
Quanto all’eventuale transizione, inusitata, da capo del governo a Presidente della Repubblica, che sarebbe effettuata da un capo di governo inusitatamente non politico e non parlamentare, non serve a nulla limitarsi a notarne l’eccezionalità. Necessario è chiedersi quali ne sarebbero le implicazioni istituzionali e politiche con riferimento al caso concreto del viaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Se quel viaggio è benedetto dalla maggioranza che sostiene Draghi, allora sarebbe opportuno che i leader dei partiti di maggioranza comunicassero (quasi certamente ne hanno già, per quanto separatamente, discusso con lui) al Presidente che, se è vero che il Presidente della Repubblica “nomina il Presidente del Consiglio”, la Costituzione materiale si basa sul suggerimento, talvolta anche di più, di uno o più nomi ad opera dei capi dei partiti i cui parlamentari daranno o no la fiducia all’incaricato dal Presidente della Repubblica. Insomma, Draghi eletto Presidente della Repubblica deve sapere che potrà esercitare la moral suasion, ma che la politica di una democrazia parlamentare riconosce a partiti e parlamentari molti poteri e notevole flessibilità. Talvolta mi illudo (non riesco a non farlo) che mettere in luce alcuni meccanismi, indicarne le modalità di attuazione e lo spazio di discrezionalità sia utile anche agli operatori ciascuno dei quali dispone di un quid di potere politico. C’è un rischio per Draghi che sale al Colle, ma c’è anche un rischio per Draghi se al Colle salirà un politico troppo sensibile alle richieste dei partiti che lo hanno prescelto. Non è facile stabilire qual è il rischio minore e per chi (temo per il sistema politico italiano).
Pubblicato il 25 gennaio 2022 su Domani
L’Italicum 2 di Renzi & B. è incostituzionale
Intervista raccolta da Pietro Vernizzi per ilsussidiario.net
“L’Italicum è una legge ad partitum, fatta cioè per venire incontro alle esigenze del Pd di Renzi. A essere molto sospetto è però il fatto che Berlusconi si sia prestato a questo gioco”. Ad affermarlo è Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica alla Johns Hopkins University di Bologna. Nel corso dell’ottavo incontro in undici mesi, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi hanno trovato un accordo parziale sulla legge elettorale, confermando il premio di maggioranza per chi vince il ballottaggio o supera una determinata soglia, alzata dal 37 % al 40%.
Non crede che senza una soglia al di sotto della quale non scatta il premio di maggioranza, un partito possa ottenere il 55% dei seggi con, mettiamo, il 25% dei voti?
Se avvenisse così naturalmente il problema sarebbe enorme, e la Consulta interverrebbe affermando che un premio di quel genere senza una soglia minima che deve essere molto al di sopra del 25% è sicuramente incostituzionale. In pratica però sappiamo anche che il Pd conta di arrivare al 40% dei voti, e quindi il premio sarebbe più contenuto.
Quindi il premio di maggioranza va bene così?
No, perché le leggi non si fanno tenendo conto della realtà nel momento in cui si legifera, ma di qualsiasi situazione possibile. Non può quindi esserci un premio di maggioranza così elevato. Questo è un sistema che può funzionare adesso, ma che può rappresentare una gravissima distorsione se per esempio il Pd subisse una scissione di proporzioni non marginali.
L’Italicum è una legge ad personam per il Pd di Renzi?
Direi che è una legge elettorale “ad partitum”. A sorprendere però è che Berlusconi accetti una situazione di questo tipo. Ma soprattutto non va bene il fatto che un partito in un sistema multipartitico decida che deve comunque avere i seggi per governare da solo. In tutta l’Europa, con l’eccezione della sola Spagna, ci sono governi di coalizione che sono automaticamente più rappresentativi dei governi di un solo partito.
Il ballottaggio garantisce comunque una maggiore rappresentatività al secondo turno?
Il ballottaggio non garantisce tanto una rappresentatività, quanto il potere degli elettori. Al secondo turno saranno loro che decidono chi ottiene il premio di maggioranza. Sappiamo però anche che al ballottaggio la percentuale degli elettori, abitualmente, è di molto inferiore rispetto alla percentuale di elettori al primo turno.
Come si possono coniugare rappresentatività e governabilità?
Il primo passo è eliminare il Porcellum come ha fatto la Corte costituzionale e il secondo è buttare via la legge elettorale scritta da Renzi. Una volta che ci saremo liberati di quelle due leggi si potranno ottenere rappresentatività e governabilità. Purché per governabilità si intenda un governo sufficientemente stabile, in qualche modo legittimato dagli elettori, ma capace di prendere decisioni. Se ci guardiamo intorno, sicuramente la Germania ha una legge elettorale che garantisce rappresentatività e governabilità.
Le preferenze danno davvero agli elettori la possibilità di scegliere?
E’ chiaro che gli elettori di Forza Italia non potrebbero scegliere nulla, perché nel migliore dei casi Berlusconi avrebbe 100 seggi (al momento ne conta 90) e quindi tutti i parlamentari di Forza Italia sarebbero nominati dal Cavaliere. Nel caso del Pd invece ci sarebbe uno spazio per il gioco delle preferenze. Supponendo che il Pd avesse il 55% dei seggi, cioè circa 340 deputati, 100 sarebbero nominati da Renzi e gli altri 240 uscirebbero dal gioco delle preferenze.
Che cosa si aspetta Berlusconi in cambio del suo sì alla legge elettorale dettata da Renzi?
Nessuno di noi può pensare che Berlusconi abbia smesso di volere una riforma della giustizia punitiva nei confronti della magistratura, nonché una qualche riduzione di pena. A maggior ragione dopo che ieri sono stati condannati Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora, e che ci ricorda che esiste un problema relativo anche al processo Ruby.
Pubblicata il 14 novembre 2014
