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I vedovi del sì non capiscono il consenso dei giallo-verdi

Dal 5 marzo 2018 mattina, incessantemente, molti politici del PD e i giornalisti del Foglio, professoroni (sic) abbacinati da Renzi, dopo essersi invaghiti di Craxi e di Berlusconi, giornaliste embedded, continuano ad attribuire ai sostenitori del NO la colpa della nascita e dell’esistenza del governo giallo-verde. Chiedono ai professoroni del “no”, ma dovrebbero estendere il loro invito almeno anche ai partigiani “cattivi”, di riconoscere che hanno aperto la strada a quel governo e che, adesso, se ne stanno a guardare senza sbottare a ogni (più o meno presunta e presumibile) violazione della Costituzione –anche se finora proprio non ve ne sono state. Affermare, insieme a Casaleggio, che il Parlamento potrebbe un giorno risultare inutile, non è, peraltro, la stessa cosa di fare del Senato un dopolavoro per consiglieri regionali (come voleva la riforma Renzi-Boschi). Cattivi perdenti, “quelli del ‘sì”, non soltanto non si chiedono dove hanno sbagliato, che sarebbe il minimo, ma persistono in alcune argomentazioni logorissime, senza nessun fondamento minimamente scientifico. Secondo loro, mi riferisco in particolare all’articolo di Angelo Panebianco, Quei puristi (scomparsi) della Carta (“Corriere della Sera”, 3 novembre, pp. 1 e 28), i sostenitori del “no” non criticherebbero abbastanza, anzi, per niente, Grillo e Casaleggio (della Lega e di Salvini l’articolo non parla). Di più, sarebbero ancora prigionieri del “complesso del tiranno” ragione per la quale non avrebbero voluto il rafforzamento dei poteri del governo. Non c’era nulla nella riforma Renzi-Boschi che, attraverso un limpido intervento sulla Costituzione, rafforzasse i poteri del governo. Eppure sarebbe bastato il voto di sfiducia costruttivo alla tedesca oppure anche alla spagnola, ma i sedicenti riformatori d’antan e i loro molti commentatori amici non lo presero in nessuna considerazione. Oggi, peraltro, si vede con chiarezza quali sono i fattori che rendono forte un governo, persino, quando è di coalizione. Ricordo che la legge elettorale Italicum era stata formulata proibendo la formazione di coalizioni con l’intento di dare vita al governo di un solo partito premiato (gonfiato) da un cospicuo premio di seggi a tutto scapito della rappresentanza parlamentare. Non soltanto il governo Cinque Stelle-Lega ha a suo fondamento la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento, ma non si sente in alcun modo ostacolato nelle decisioni che prende, nei decreti che produce, nella sua concreta attività di governo. Con vezzo italiano, proprio non solo dei complottisti e degli incompetenti, denuncia l’ esistenza dei poteri forti, delle tecnostrutture e, naturalmente, dei burocrati di Bruxelles ogniqualvolta incontra resistenze alle sue politiche, ma, almeno finora, non attribuisce le responsabilità alla Costituzione italiana. Anzi, a oggi le uniche proposte ventilate dalle Cinque Stelle stanno tutte nel solco di quanto i partecipanti alla Commissione Letta per le riforme istituzionali avevano variamente ventilato: riduzione bilanciata del numero dei parlamentari e potenziamento dell’istituto referendario. Non si vede, dunque, perché i sostenitori del “no” dovrebbero lanciarsi a capofitto in una campagna ostruzionistica. A riforme eventualmente approvate dal Parlamento si vedrà. Qualcuno potrebbe, invece, volere chiedere alle Cinque Stelle (la Lega non sembra interessata alla tematica) una profonda revisione della legge elettorale Rosato, anzi, per usare un termine caro alla parte politica di Rosato, una vera e propria rottamazione. Tornando al governo in carica le prefiche del “sì” potrebbero anche interrogarsi sulle ragioni che ne mantengono elevato il consenso in tutto il paese e chiedersi se non sarebbe meglio destinare il troppo tempo che impiegano a criticare chi ha vinto il referendum per formulare una strategia politica alternativa e farla viaggiare su quel che rimane dei partiti oggi all’opposizione.

Pubblicato il 6 novembre 2018

Una delle nostre migliori giornate #4dicembre I meriti di quel voto #No

Domenica 4 dicembre 2016 è stata una bella giornata, una delle migliori per il sistema politico italiano e per la Costituzione. Il NO nel referendum costituzionale che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva trasformato in un plebiscito sulla sua persona ha impedito lo slittamento del sistema politico italiano in direzione populista. Ha anche bloccato per alcuni anni i ripetuti tentativi di strattonare la Costituzione verso due esiti: terribili semplificazioni istituzionali e riduzione del potere degli elettori, che pochissimo hanno a che vedere con il suo impianto e con i suoi obiettivi tuttora solidi e validi. La Costituzione ha dimostrato di sapere accompagnare molti cambiamenti, ma anche di resistere a qualsiasi tentativo di sfigurarla.

A un anno di distanza non dobbiamo né sottovalutare né dimenticare quelle che erano allora e rimangono pervicacemente le patetiche argomentazioni dei fautori del “sì”, renziani della prima ora e renziani saliti sul carro quando sembrava andare verso la vittoria decisiva. L’algoritmo del Centro Studi della Confindustria aveva previsto gravissime conseguenze economiche, nessuna delle quali si è prodotta. Anzi, semmai, dopo il NO, anche se non necessariamente a causa del NO, è cominciata una leggera ripresa dell’andamento dell’economia. A grappolo, il quotidiano della Confindustria aveva concesso tutto lo spazio possibile ai sostenitori del sì. Con mia non troppo grande sorpresa, politologi e storici della LUISS, l’Università della Confindustria, si erano schierati come un sol uomo (infatti, fra loro non c’era neanche una donna) a vantare le lodi delle riforme renzian-boschiane. Non riesco neppure a parlare di “tradimento dei chierici” perché sarebbe per loro troppo onore. D’altronde, le pagine di alcuni quotidiani nazionali erano ricolme di articoli di chierici e di aspiranti tali che argomentavano sottilmente che, come scrisse Michele Salvati, votare contro le riforme era votare contro l’interesse nazionale. Già allora notai che una frase del genere era pericolosamente vicina ad accusare i No di essere “nemici del popolo”. Altri chierici, per esempio, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, decisero di non ospitare dibattiti. Tutti schierati per il sì, quei giuristi si trincerarono dietro una frase che contiene qualcosa di strabiliante e di inquietante: “all’università non si fa politica”. Comunque, difendere la Costituzione da riforme che la squilibrerebbero, che produrrebbero esiti peggiorativi, che aprirebbero la strada a confusioni nei rapporti fra cittadini e istituzioni e fra governo, Parlamento e Presidente della Repubblica, non è fare politica, ma è agire democratico. Per fortuna, a organizzare un dibattito pubblico (fra l’ex-Presidente della Camera, Luciano Violante, e il sottoscritto) ci pensò un’associazione di studenti, in larga misura di giurisprudenza, di sinistra per il “sì”. Quanto all’ex- Presidente della Camera, seguendo la strada aperta da alcuni cattivi maestri, s’impadronì e ripetutamente utilizzò l’espressione, inusitata in scienza politica e fra gli studiosi delle democrazie, “democrazia decidente”. A questo agognato esito avrebbero dovuto condurre, anzi, saremmo sicuramente pervenuti grazie a quelle modifiche costituzionali, anche se nessuna di loro riguardava, come pure sarebbe stato possibile, il luogo per eccellenza della decisione: il governo.

La sconfitta del “sì” non ha consentito il dibattito indispensabile, magari dopo qualche buona lettura (ad esempio, almeno un libro di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è), riguardante quale democrazia parlamentare, oppure anche semi-presidenziale, è possibile e auspicabile costruire. I sostenitori del “sì” hanno preferito esibirsi su un altro versante, quello, inizialmente delineato da Paolo Mieli, del “ritorno alla proporzionale” e del conseguente “rischio Weimar” reso plausibile, quasi imminente dai “no”. È stato molto difficile convincere coloro che avevano dato il loro sostegno all’Italicum che quella legge elettorale così come la precedente legge Calderoli giustamente nota come Porcellum, era già una legge proporzionale, accompagnata o distorta da un premio di maggioranza. Due terzi proporzionale è anche la legge Rosato, che rappresenta quindi un ritorno addolcito, ma anche manipolato, alla proporzionale. “Decidente” sarebbe, dunque, una democrazia che si basa su un premio in seggi? Le vedove politologiche del premio e del ballottaggio, à la D’Alimonte, si sono esibite in spericolate comparazioni fra l’elezione del Presidente della Repubblica francese e il voto per eleggere un Parlamento oppure, à la Renzi, paragonando le percentuali del sì referendario, sicuramente non tutti voti suoi, con le percentuali di Macron, composte da voti praticamente tutti indirizzati a lui.

A un anno da quella bella giornata di dicembre, mentre il mio account twitter continua a registrare i lamenti dei sostenitori del sì per cui tutto quello che loro vorrebbero e non avviene (anche l’eliminazione della nazionale di calcio ad opera degli svedesi) è da attribuirsi alla vittoria del no, resta da constatare come la cultura politico-istituzionale dei chierici abbia imparato poco o nulla. Per fortuna non sono loro a fare funzionare un parlamento che sarebbe stato bislaccamente squilibrato.

Pubblicato il 4 dicembre 2017

 

Riforma Boschi e Italicum, non si rassegnano

Gli sconfitti del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 non si sono ancora rassegnati. Non riescono ancora a farsene una ragione poiché continuano a ripetere argomentazioni infondate e sbagliate. Grave per i politici, la ripetitività di errori è gravissima per i professori, giuristi o politologi che siano. Sul “Corriere della Sera” Sabino Cassese esprime il suo rimpianto per il non-superamento del bicameralismo (che, comunque, nella riforma Renzi-Boschi era soltanto parziale) poiché obbliga ad una “defatigante navetta”. Non cita nessun dato su quante leggi siano effettivamente sottoposte alla navetta, sembra non più del 10 per cento, e non si chiede se la fatica sia davvero un prodotto istituzionale del bicameralismo paritario italiano oppure dell’incapacità dei parlamentari e dei governi di fare leggi tecnicamente impeccabili, quindi meno faticose da approvare, oppure, ancora, se governi e parlamentari abbiano legittime differenze di opinioni su materie complicate, ma qualche volta non intendano altresì perseguire obiettivi politici contrastanti. Comunque, i dati comparati continuano a dare conforto a chi dice che, nonostante tutto, la produttività del Parlamento italiano non sfigura affatto a confronto con quella dei parlamenti dei maggiori Stati europei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Nessuno, poi, credo neanche Cassese, sarebbe in grado di sostenere con certezza che le procedure previste nella riforma avrebbero accorciato i tempi di approvazione, ridotti i conflitti fra le due Camere e, meno che mai, prodotto leggi tecnicamente migliori.

Più volte, non da solo, Mauro Calise ha sostenuto che soltanto un governo forte, identificato con quello guidato da Matteo Renzi, risolverebbe tutti questi problemi, e altri ancora. Non ci ha mai detto con quali meccanismi istituzionali creare un governo forte, ma ha sempre affidato questo compito erculeo alla legge elettorale. Lunedì ne “Il Mattino” di Napoli ha ribadito la sua fiducia nelle virtù taumaturgiche del mai “provato” Italicum. Lo cito:”avevamo miracolosamente partorito una legge maggioritaria” …. “senza la quale in Europa nessuno è in grado di formare un governo”. Come ho avuto più volte modo di segnalare, l’Italicum come il Porcellum non era una legge maggioritaria, ma una legge proporzionale con premio di maggioranza. Con il Porcellum nel 2008 più dell’80 per cento dei seggi furono attribuiti con metodo proporzionale; nel 2013 si scese a poco più di 70 per cento. L’Italicum, non “miracolosamente partorito”, ma imposto con voto di fiducia, non avrebbe cambiato queste percentuali. Quanto alla formazione dei governi, tutti i capi dei partiti europei hanno saputo formare governi nei e con i loro Parlamenti eletti con leggi proporzionali. Tutte le democrazie parlamentari europee hanno sistemi elettorali proporzionali in vigore da un centinaio d’anni (la Germania dal 1949). Nessuno di quei sistemi ha premi di maggioranza. Tutte le democrazie parlamentari hanno governi di coalizione. Elementari esercizi di fact-checking che anche un politologo alle prime armi dovrebbe sapere fare, anzi, avrebbe il dovere di fare, smentiscono le due affermazioni portanti dell’articolo di Calise. C’è di peggio, perché Calise chiama in ballo Macron sostenendo che la sua ampia maggioranza parlamentare discende dal sistema elettorale maggioritario. Però, il doppio turno francese in collegi uninominali non ha nulla in comune né con il Porcellum né con l’Italicum le cui liste bloccate portano a parlamentari nominati. Inoltre, il modello istituzionale francese da vita a una democrazia semipresidenziale che non ha nulla a che vedere con i premierati forti vagheggiati, ma non messi su carta, dai renziani né, tantomeno, con il cosiddetto “sindaco d’Italia”. Il paragone fatto da Calise è tanto sbagliato quanto manipolatorio. Non serve né a riabilitare riforme malfatte né a delineare nessuna accettabile riforma futura.

Pubblicato il 12 settembre 2017

 

VIDEO Legge elettorale e riforma costituzionale: gli effetti della combinazione

 

REGGIO EMILIA. 16 Luglio 2016. Gianfranco Pasquino, docente della Johns Hopkins University in “Legge elettorale e riforma costituzionale: gli effetti della combinazione“, prima sessione delle Lezioni di diritto costituzionale per un voto consapevole, al PolitiCamp2016, prima tappa del Tour #RiCostituente di Possibile.

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È quel che si poteva fare? Dialogo breve sulle riforme. Pasquino intervista Napolitano

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Il Presidente Emerito Giorgio Napolitano ha accettato di rispondere ad alcune domande di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Siamo onorati di pubblicare in esclusiva questo scambio nella convinzione che sia utile a tutti per farsi un’idea delle motivazioni e delle conseguenze delle riforme costituzionali che saranno prossimamente sottoposte a referendum.

Da due diverse prospettive, lo scienziato della politica di fama internazionale e il politico che ha attraversato da protagonista tutte le stagioni della politica italiana dagli Anni ’50, ci incoraggiano a saperne di più sulla riforma. A tal scopo, vi proponiamo una tavola sinottica degli articoli modificati prima e dopo la revisione, Cancellazioni e modifiche della Costituzione proposte dalla legge Renzi-Boschi, il documento Le ragioni del Sì e l’Appello dei costituzionalisti per il NO.

Contiamo sulla generosità e la disponibilità dei due eccellenti interlocutori per approfondire questioni cruciali qui appena sfiorate: se davvero sarà possibile e facile correggere in seguito gli errori della riforma Renzi-Boschi data la asserita complessità delle procedure di revisione costituzionale, quale dovrebbe essere “la nuova forma di governo parlamentare” di cui parla Napolitano e se già esistono altrove in Europa modelli apprezzabili dai quali imparare.

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Roma 18 luglio 2016

Nella tua lunga esperienza legislativa come parlamentare, come capogruppo, come Presidente della Camera dei deputati, come ministro, come Senatore e, infine, come Presidente della Repubblica, è capitato spesso che il Senato si sia rivelato causa di intoppi, errori, ritardi?

Nella mia lunga esperienza non ho mai considerato il Senato come colpevole di “intoppi, errori, ecc.”; e non è questo né la motivazione né l’oggetto della riforma costituzionale ora sottoposta a referendum. Quel che è in questione è la necessità – da lungo tempo avvertita e argomentata – del superamento di un bicameralismo paritario che, esso sì, è stato causa di gravi disfunzioni istituzionali.

Tralasciando la mancanza di una maggioranza, da attribuire alla legge elettorale, nel Senato eletto nel febbraio 2013, puoi citare dei casi precisi di inconvenienti e ritardi legislativi particolarmente eclatanti?

Gli inconvenienti notori e gravi del nostro bizzarro bicameralismo sono stati quelli del grave ostacolo rappresentato dalla lunghezza e tortuosità del processo legislativo, costretto al fenomeno di navette spesso defatiganti tra i due rami del Parlamento.

E quante volte la doppia lettura ha migliorato la legislazione, magari anche consentendo al governo di imparare, di recuperare e di fare meglio?

Il nostro Senato non è mai stato una seconda Camera “di riflessione” utile per correggere scelte infelici o errori compiuti dalla Camera dei Deputati. Le leggi sono state – sulla base di un meccanismo quasi del tutto casuale – assegnate in prima lettura all’uno o all’altro ramo. E in generale, più che una limpida tendenza migliorativa, quel che ha alimentato la doppia, e magari terza o quarta, lettura, è stata – oltre che la frequente interferenza di manovre di partito e di corrente – una logica di prestigio e concorrenziale tra Camera e Senato per imprimere ciascuno un proprio segno o avere l’ultima parola su ogni legge o almeno su quelle più “sensibili”.

Non pensi che le procedure complesse di richiami e di doppie letture previste nella riforma culmineranno in molte tensioni, in molti scontri, in ricorsi alla Corte costituzionale e finiranno in quella che altrove ho definito deriva confusionaria? – Non temi una varietà di conflitti fra Stato e regioni, fra Camera e Senato, fra i senatori e i consigli regionali che li hanno nominati, fra i sindaci e i loro consigli comunali?

Mi pare gratuito il drammatizzare che tu fai in entrambe queste domande dei rischi di tensioni e di scontri dinanzi alla Corte Costituzionale, e di ogni sorta di conflitti tra poteri e tra soggetti istituzionali. Di fronte a ogni innovazione, la “paura dei pericoli” è puro fattore di paralisi. Quel che della riforma risulterà da correggere alla luce dell’esperienza potrà essere corretto. L’importante è ora non restare bloccati in antiche contraddizioni.

Ritieni opportuno che un Senato di nominati partecipi all’elaborazione e all’approvazione delle revisioni costituzionali? E perché?

Trovo demagogicamente polemico parlare di “un Senato di nominati”. I nuovi senatori, tranne quelli nominati dal Presidente della Repubblica, saranno “eletti” (art.2 della legge di riforma) da Assemblee rappresentative pienamente legittimate dal punto di vista democratico.

Pensi che sia corretto dare al Senato delle autonomie fatto di cento nominati il potere di eleggere due giudici costituzionali? Ti risulta qualcosa di simile per altre seconde Camere non elette dai cittadini?

Puoi su questo punto esprimere dissenso, ma non credo abbia senso il confronto con “altre seconde Camere non elette dai cittadini” in Europa.

E’ opportuno che a rappresentare le autonomie ci siano anche cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica (per meriti sociali, artistici, scientifici e letterari). Dovrebbero avere meriti regionalisti e federalisti oppure competenze europee visto che di Europa dovranno occuparsi?

Il nuovo Senato ha un complesso di funzioni per cui può risultare assai utile il contributo di personalità di molteplici esperienze e competenze, pienamente comprese nella definizione di cui all’art. 3 della legge di riforma.

Non vedo nulla nel pacchetto Renzi-Boschi che riguardi concretamente e direttamente il rafforzamento del potere decisionale del governo? Qual è la tua opinione?

Il ruolo del governo è destinato certamente a rafforzarsi rendendo più spedito, lineare e sicuro nei suoi tempi di svolgimento e conclusione, il processo legislativo. Per non parlare del fatto che si rafforza la stessa possibilità di dar vita ad un governo attribuendo alla sola Camera dei deputati l’investitura, con la fiducia, dell’esecutivo.

Pensi che questo rafforzamento conseguirà dall’Italicum rispetto al quale hai peraltro detto che bisogna attendere “opportune verifiche di costituzionalità”?

Non aggiungo nulla in questo momento a ciò che ho dichiarato in Senato circa l’esigenza di prestare attenzione a preoccupazioni espresse da varie parti sulla legge elettorale “Italicum”.

Ti sei ripetutamente “speso”, a mio parere anche troppo, in difesa e a sostegno di queste riforme. Sono davvero le riforme che avresti fatto tu, capo del governo?

In qualunque mia posizione istituzionale avrei sostenuto una riforma che conduca – per usare una sapiente espressione di Leopoldo Elia – a una nuova forma di governo parlamentare. Ed è questa la direzione in cui va la riforma approvata dal Parlamento.

Infine, una curiosità personale-istituzionale alla quale puoi anche decidere di soprassedere. Fin dalla Commissione Bozzi (1983-85) ho molto detto e scritto e qualcosa ho anche fatto, promuovendo i referendum elettorali, in materia di istituzioni e di leggi elettorali. E’ troppo chiederti come mai non ho ricevuto nessun apprezzamento da te, ad esempio, per la mia battaglia a favore di una legge elettorale davvero maggioritaria come il doppio turno francese in collegi uninominali?

Non ho mai ignorato ma sempre seguito con apprezzamento, come ben sai, le tue iniziative e battaglie. Ma tu ti sei sempre mosso – in quanto studioso temporaneamente (per oltre dieci anni) prestato alla politica e al Parlamento – da libero battitore; mentre io ho sempre operato fino al 1992 da dirigente del PCI, cercando di influenzarne le posizioni e riconoscendomi nelle sue scelte, comprese quelle sostenute nella Commissione Bozzi. Da Presidente della Camera mi adoperai per favorire una riforma elettorale in senso maggioritario e fondata sui collegi uninominali: l’intesa risultò possibile però sul sistema costruito con la legge Mattarella, mentre l’ipotesi del doppio turno alla francese naufragò sullo scoglio della indicazione della soglia (in Francia molto elevata) per l’accesso al secondo turno. E da Presidente della Repubblica ho guardato positivamente al tentativo portato avanti fino all’estate 2012 nella Commissione Affari Costituzionali del Senato per un sistema analogo a quello spagnolo, ma allora tanto il centrosinistra quanto il centrodestra rimasero attaccati all’istituto del premio di maggioranza sia pure – dopo la sentenza della Consulta – ancorato ad una soglia adeguata di consensi ricevuti dagli elettori. Poi questa storia l’ho raccontata al Parlamento nel mio discorso dell’aprile 2013.

Pubblicato il 20 luglio 2016