Home » Posts tagged 'Roberto Fico'

Tag Archives: Roberto Fico

Pd e 5S facciano fronte comune sul Colle e tirino fuori dei nomi credibili #intervista @ildubbionews #Elezione #Quirinale

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Alma Mater di Bologna, è scettico sulla strategia di Pd e M5S per il Colle, dice che «non stanno facendo fronte comune» e che in caso di elezione di Draghi al Colle «se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza di oggi».

Professor Pasquino, Pd e M5S bisticciano tra di loro in attesa di un nome per il Colle proposto dal centrodestra. Riuscirà il centrosinistra a trovare un’alternativa valida da sottoporre ai grandi elettori?

Non so se ci riusciranno, ma è sicuro che dovranno fare una riunione non soltanto Letta e Conte, ma Letta, Conte, Di Maio, Patuanelli, Orlando, Guerini e Franceschini. Cioè le varie anime di Pd e M5S. Serve un accordo su una rosa di tre o quattro nomi, per trovare poi uno su quale possono convergere anche altri partiti. L’iniziativa non spetta per forza a Salvini o Berlusconi, ma a chi è in grado di prendersela. Letta e Conte stanno sbagliando alla grande.

Crede che Di Maio stia giocando una partita tutta sua sul Colle per cercare di riprendere la guida del Movimento?

Questa domanda riguarda l’andamento del Movimento 5 Stelle, non tanto il voto per il Colle. Vengono attribuite a Di Maio delle strane mire. Ha fatto una carriera ministeriale straordinaria e quindi credo sia soddisfatto di quello che c’è. Credo voglia un po’ di unità nel Movimento e quindi non penso che ambisca a mettere i bastoni tra le ruote a Conte. Peraltro c’è anche Fico che sta avendo una sua visibilità e vorrà dire la sua.

In ogni caso la strategia attendista di dem e grillini sta portando i suoi frutti, visto l’ormai probabile passo indietro del Cavaliere.

Berlusconi non tramonta perché Letta ha detto che non è votabile, ma perché ci sono dubbi nello stesso centrodestra e perché i suoi telefonisti non riescono a convincere quelli a cui telefonano. I giallorossi non stanno facendo fronte comune, il che era eticamente doveroso. L’iniziativa è tirare fuori dei nomi, non dire “no” e giocare di rimessa e in difesa. Per quanto prestigiosissimo, il nome giusto non può essere Liliana Segre, sarebbe bello votarla in massa come segno di stima ma è chiaro che non si può andare avanti su di lei. Non è questo il modo in cui, essendo i due partiti più grandi, si entra in Parlamento per scegliere il presidente della Repubblica.

Quali nome potrebbero entrare nella rosa di Pd e M5S?

Non sono dell’idea che si devono trovare dei nomi che possono unire. Sono stufo dell’aggettivo “divisivo”, è stupido usarlo perché chiunque fa politica deve essere divisivo, altrimenti non è un buon politico. Aldo Moro ad esempio era divisivo, forse è proprio per questo che abbiamo deciso di non salvargli la vita, ma di certo sarebbe stato un ottimo capo dello Stato. Non possiamo credere che Rosy Bindi o Giuliano Amato o Pierferdinando Casini non possano fare il presidente della Repubblica. Stessa cosa per Draghi e Franceschini, l’importante è decidere un nome e giustificarlo.

Nell’altro campo l’operazione scoiattolo per portare Berlusconi al Colle sembra al capolinea. Se l’aspettava?

Berlusconi ci credeva veramente. Non combatte mai battaglie per la sua bandiera, che ha già issato molto in alto. Piaccia o non piaccia è già nella storia del paese e questa doveva essere la sua ultima battaglia. Non è un decoubertiniano. Dopodiché la battaglia si è fatta ardua e delicata perché gli mancano i numeri. Certamente fossi un parlamentare non potrei mai votare un condannato per frode fiscale.

Crede dunque che il centrodestra unito convergerà ora su un altro nome?

Potrebbe ora aprirsi un’altra partita e se Fratelli d’Italia, come dice Lollobrigida, ha dei nomi, è bene che li tiri fuori. Bisogna dire quali carte si hanno in mano. Letizia Moratti è sicuramente presidenziabile, anche se si può discutere del suo conflitto di interessi. Fossi Salvini giocherei anche su Giorgetti, che ha più di 50 anni, piace in Europa e potrebbe essere il nome giusto.

Non è che alla fine la spunta Draghi?

Certamente, e a quel punto Salvini potrebbe piazzare il colpo grosso: Giorgetti a palazzo Chigi. Draghi ha il profilo giusto, ha dimostrato di aver imparato delle cose in politica, è abbastanza equilibrato e il resto lo faranno i suoi collaboratori.

Come dicevamo, a quel punto si aprirebbe la crisi di governo. A quei scenari andremmo incontro?

Se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza e qui ci sono due inconvenienti: non vorrei che eleggendo Draghi Forza Italia si tiri fuori dalla maggioranza, ipotesi avventata che spero sia rimessa nel cassetto dai ministri azzurri; in secondo luogo potrebbe diventare presidente del Consiglio qualcuno di centrodestra. In questo caso Salvini deve avere la forza di dire che il prossimo presidente del Consiglio sarà proposto dai segretari dei partiti che fanno parte della coalizione di maggioranza, non imposto da Draghi, che andrebbe su Franco. Insomma potrebbe aprirsi un braccio di ferro tra Draghi e i partiti difficile da gestire.

Con Draghi al Colle il prossimo inquilino di palazzo Chigi dovrà comunque venire dall’attuale governo, ad esempio Cartabia, per garantire continuità politica?

So che dovrebbe essere un o una parlamentare, ad esempio Franceschini, ma non per forza un uomo o una donna dell’attuale governo. Dobbiamo prendere atto che non si può sempre chiamare un tecnico da fuori. Serve un parlamentare che conosce i colleghi e abbia esperienza politica pregressa. Cartabia, che non conosco, mi dicono sia molto, forse troppo, vicina a Comunione e Liberazione. I mesi passati a fare la ministra della Giustizia non garantiscono che sarebbe anche una buona presidente del Consiglio.

Pubblicato il 19 gennaio 2022 su IL DUBBIO

Voto a distanza per il Quirinale, due richieste a Fico. Scrive Pasquino #Elezione #Quirinale

Non riesco a capire come in un Paese impegnato pancia a terra nella transizione digitale i tecnici del Parlamento (grazie dell’immediata smentita: problema non tecnico, ma partitico/politico) non siano in grado di garantire la segretezza del voto e il suo esercizio a distanza. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica

Ho sempre pensato e scritto che quando in Parlamento si vota su persone, ad esempio, nel caso delle autorizzazioni a procedere, il voto deve essere segreto. Nel caso della Presidenza della Repubblica, la segretezza è indispensabile per due ragioni. Da un lato, è imperativo proteggere il parlamentare dalle eventuali rappresaglie dei candidati, spesso potenti, non votati; dall’altro, quasi egualmente, se non più, importante, non si deve consentire a nessun parlamentare di trarre vantaggi dall’esibizione del suo voto. Semmai, sarà lui stesso a dichiarare, forse non solo a beneficio (sic) dei suoi elettori e dell’opinione pubblica, ma anche con l’obiettivo di ottenere ricompense più o meno improprie, per chi ha votato e perché. Meglio se potesse farlo in quanto rappresentante di un collegio uninominale dove gli elettori potrebbero premiarlo/punirlo.

   Chiederei al Presidente della Camera Fico, nella speranza che la Sen. Casellati sia d’accordo, di eliminare i catafalchi e di imporre a tutti i parlamentari senza eccezione alcuna di depositare nel guardaroba i loro cellulari, come si faceva nel West con le pistole per accedere al saloon, prima di ricevere la scheda per il voto. Una seconda richiesta mi pare assolutamente ineludibile: il voto si esprime unicamente scrivendo il solo cognome del candidato/della candidata. Nessuna operazione fantasiosa: nome prima del cognome; nome “puntato”; nome dopo il cognome et al., a beneficio di “coloro che sanno”. Debbono cadere tutte le possibilità di controllo da parte del segretario del partito, del capo corrente, degli amici dei candidati, dei loro sostenitori, non soltanto quelli impegnati nelle telefonate, immagino, non osando pensare che si tratti di voto di scambio, tutte di cortesia, ma anche di tutti gli iperzelanti.

   Non riesco a capire come in un paese impegnato pancia a terra nella transizione digitale i tecnici del Parlamento (grazie dell’immediata smentita: problema non tecnico, ma partitico/politico) non siano in grado di garantire la segretezza del voto e il suo esercizio a distanza. Al contrario, sono convinto che i deputati e i senatori-questori siano disponibili, unitamente ai parlamentari stessi, ad attivarsi, se non l’hanno ancora fatto, e a procedere immediatamente per dotarsi dell’apparato tecnologico che consenta il voto a distanza e salvaguardi la sua segretezza. Concludo brevemente con una considerazione cruciale.

    La rappresentanza politica si esprime anzitutto e soprattutto partecipando alle attività del Parlamento, in Commissione e in Aula, e votando. Favorevoli, contrari, astenuti. Non partecipare alle votazioni non è una scelta apprezzabile. Disprezzabile, invece, lo scrivo proprio con questo aggettivo, è il comportamento di uscire dall’aula, non in segno di indignazione e disapprovazione, ma per imposizione del proprio capo partito, per sfuggire alla” tentazione” di palesarsi come franca tiratrice (è il mio cedimento al politicamente corretto). Mi domando, però, se votando su persone, non su punti programmatici del proprio partito o del governo che si sostiene, sia accettabile che coloro che votano in maniera difforme rispetto ai dettami di partito vengano bollati e screditati. Senza esitazioni rispondo no. Questi dissenzienti esprimono, talvolta malamente, ma in assenza di meglio, un parere diverso. Non sono franchi tiratori (e neppure franche tiratrici).

Pubblicato il 17 gennaio 2022 su Formiche.net

Partita del Quirinale. Nomi, numeri e regolette del prof. Pasquino @formichenews

Alberti Casellati, Berlusconi, Casini e le possibili mosse del centrodestra al momento del voto. Il politologo Gianfranco Pasquino dà la sua sarcastica versione a Formiche.net su quello che potrà accadere tra poco più di sei mesi al Colle, ricordando però che è giusto porsi il problema del Quirinale, ma è ancora troppo presto…

Mio nonno, che ha visto tante elezioni presidenziali, alcune proprio non divertenti, sostiene che alcune regolette valgono ancora. La prima è che i Presidenti di Senato e Camera partono con un piccolo vantaggio. Quindi, fa bene a mostrarsi presidenziabile Maria Elisabetta Alberti Casellati che, fra l’altro, gode anche del vantaggio di essere donna, al momento giusto.

Roberto Fico non ha l’età, ma c’è un ex-Presidente della Camera che ha l’età e non è appesantito da nessun bagaglio di scontri, cattiverie, politiche malfatte, ideologie, idee: Pier Ferdinando Casini. Da qualche tempo, il suo silenzio è anche il segnale che non vuole essere bruciato da nessuno. Non è pericoloso.

Certo, se qualcuno fa girare il nome di Romano Prodi, anche come risarcimento del pasticciaccio brutto del 2013, allora perché non riesumare Silvio Berlusconi. Senza tante remore ci pensa lui stesso, ma qualche cenno lo hanno già fatto Tajani e alcuni premurosi giornalisti di destra. Popolare, cristiano, europeista, liberale e tanto altro, Berlusconi non si sottrarrebbe all’arduo compito. I numeri, se il centro-destra si mantiene come coalizione relativamente compatta, non mancherebbero.

D’altronde, a questo punto, con la disgregazione anche solo parziale del Movimento 5 Stelle, al centro-sinistra non basterebbe nessun isolato squillo di tromba. E i nomi mancano o sono davvero evanescenti. Mio nonno non vuole tirarli fuori questi nomi poiché, non avendo mai creduto nel detto “molti nemici molto onore”, cerca di non scontentare nessuno.

Al momento, con qualche riluttanza preferisce spiegarmi(vi) quale potrebbe essere la strategia del centro-destra se avessero un po’ di immaginazione politica. Non dovrebbero anticipare nulla, votando bianco o un candidato di bandiera di ciascuno di loro nelle prime tre votazioni. Poi, improvvisamente alla quarta votazione annunciare che convergeranno convintamente su Draghi. Non sarà facile per molti parlamentari di centro-sinistra chiamarsi fuori da questa “convergenza”. Né d’altronde potrebbero consentire che il merito dell’elezione di Draghi se lo attribuiscano tutto Meloni e Salvini, concedendo a Berlusconi di annunciare che è stato lui a dirlo per primo.

La ratio di questo voto del centro-destra è che “promuovere” Draghi al Quirinale significa aprire la porta ad un nuovo, improbabile governo oppure, questa è la prima opzione di Meloni e Salvini, a nuove elezioni politiche con la garanzia per l’Europa che comunque Draghi sovrintenderà all’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza e la garantirà.

Se questo scenario ha la plausibilità che gli attribuisce quell’attento e colto osservatore che è mio nonno, può essere evitato soltanto da qualche netta, ma per adesso prematura, dichiarazione di Draghi. Oppure da fortissime pressioni su Mattarella affinché accetti di rimanere fino alle elezioni del 2023. Il precedente di Napolitano c’è e insegna che si potrebbe procedere in tal senso, ma con l’accordo, non molto probabile, del centro-destra.

Mio nonno che non smette mai di leggere e approfondire Kant e Weber sostiene che la Repubblica italiana è arrivata al punto in cui hanno un ruolo rilevantissimo alcuni intramontabili imperativi categorici, il senso civico e dello Stato, l’etica della responsabilità che certamente hanno Draghi e Mattarella. Molto, quasi tutto, dipenderà dalla loro interpretazione di quello che è giusto fare, non per le loro ambizioni personali, il loro posto nella storia italiana e europea è già assicurato, ma in base alla loro valutazione/preoccupazione per le condizioni attuali e prossime del sistema socio-economico e politico italiano.

Preoccupato anche lui, mio nonno conclude che è giusto porsi il problema del Quirinale, ma è too early to call, troppo presto. E anche se oggi è l’anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza degli USA, né lui né io pensiamo che quel presidenzialismo sarebbe la soluzione dei problemi politici e istituzionali italiani.

Pubblicato il 4 luglio 2021 si formiche.net

La crisi si risolverà con un Conte ter. A sinistra sta nascendo un nuovo polo #intervista @Affaritaliani

Intervista raccolta da Carlo Patrignani

“Lo sbocco più realistico alla crisi di governo sulla quale sta lavorando il Presidente della Camera, Roberto Fico, è senz’altro un Conte-ter: e spero con il Ministero dell’Economia ancora nelle mani del ministro Roberto Gualtieri per le sue indubbie qualità e la buona reputazione di cui gode nell’Unione Europea: sarebbe un gravissimo errore sostituirlo”.

A parlare è Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, Accademico dei Lincei ed ex-senatore della Repubblica, per il quale l’ipotesi di un governo ‘tecnico’ affidato a Mario Draghi “non esiste nei fatti, il suo coinvolgimento è un fatto mai avvenuto”.

Dunque la via d’uscita possibile è un nuovo governo con Giuseppe Conte Premier, con “un nuovo programma in via di definizione e – osserva il politologo – possibilmente con Luigi Di Maio ministro degli Esteri e con Roberto Speranza alla Salute e naturalmente, dopo le tante bugie di Renzi di non tenere alle poltrone, con altri ministeri per Iv così da poter ricompensare i suoi”.

Certo il cammino del nuovo esecutivo, una volta definito il programma e la sua composizione ministeriale, non sarà facile, non sarà tutto rose e fiori: “l’affidabilità di Renzi è tutta da verificare – avverte Pasquino – fermo restando che dei voti di Iv non si può fare a meno. Del resto i governi di coalizione dipendono dalla lealtà dei contraenti”.

L’asse Pd-M5S-Leu tutto sommato pare aver retto bene all’onda d’urto di Renzi e potrebbe, da questa esperienza, anche configurarsi come polo per una alleanza futura. “Lo si vedrà, ma molto dipende dalla legge elettorale”. Ultima considerazione: il Governo Conte non è stato sfiduciato dalle Camere quindi secondo la Costituzione il Premier non era obbligato a dimettersi.

“Certo le dimissioni non erano dovute: purtroppo al Senato aveva una maggioranza semplice assai friabile e precaria nei numeri per cui le dimissioni sono state un atto nobile dal momento che il Presidente della Repubblica voleva una maggioranza significativa, operativa”.

E proprio perché non è sfiduciato potrebbe essere il ‘governo-ponte’ fino al semestre bianco? “Con l’incarico al Presidente della Camera di esploratore siamo andati abbastanza avanti – conclude Pasquino – ed in prossimità, me lo auguro, dello sbocco più realistico: il Conte-ter”.

Pubblicato il 1° febbraio 2021 su affaritaliani.it

“La crisi? Renzi bocciato, Conte poco accorto. E sul premier i giochi sono già fatti” #intervista @La_Sestina

Il Professore Emerito dell’Università di Bologna Gianfranco Pasquino ci dà il suo parere sulle consultazioni in corso. Promossi solo Zingaretti e Fico

di Michela Morsa

Renzi bocciato, Conte poco prudente. Zingaretti promosso senza remore. Abbiamo fatto quattro chiacchiere sulla crisi di Governo con Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Il politologo, con l’ironia che lo contraddistingue, ci ha detto la sua sui protagonisti, le procedure e le prospettive della vicenda che da settimane sta bloccando il Paese.

Buongiorno Professore, prima di tutto le pagelle dei principali attori della crisi. Che voto dà a Matteo Renzi?

«2». E non aggiunge altro n.d.r.

E al leader del Pd, Nicola Zingaretti? Secondo lei come si è mosso?

«A lui darei un 7 meno, perché è stato sempre coerente con il sostegno al Governo Conte e lo ha espresso in maniera esplicita, sobria. Soprattutto si è dimostrato un capo di partito serio: ha saputo tenere insieme il Pd, che pure ha delle tensioni al suo interno, consapevole di fungere da perno dell’esecutivo. E io apprezzo molto la serietà, soprattutto in una politica che ha troppi elementi di faciloneria, di superficialità, di ricerca della popolarità.»

Cosa mi dice invece del premier uscente Giuseppe Conte?

«A lui do un 6+: la sufficienza se la merita. Evidentemente, però, ha esagerato e ha fatto l’errore di pensare di poter trattare Renzi come aveva fatto con Salvini, e con un po’ di supponenza. Non ha capito qual era la natura della sfida. Probabilmente sarebbe dovuto essere più conciliante».

E i 5 Stelle? Il movimento sembra essere sull’orlo di una spaccatura…

«Questo è quello che dite voi giornalisti in continuazione, ma non è così. Non avete capito che quello è un movimento molto complicato al suo interno, che non è mai stato un partito e quindi non ha mai avuto un luogo vero di discussione. Ci sono posizioni politiche di vario genere, data la sua natura aperta: è entrato di tutto e, di conseguenza, esce di tutto. Come gruppo nel suo insieme meritano la sufficienza, alcuni dirigenti meritano qualcosa di più e altri qualcosa di meno. A Alessandro Di Battista do 4 e sono contento di darglielo».

Ma questa crisi era evitabile?

«No, semplicemente perché Renzi questa crisi l’ha voluta, l’ha perseguita deliberatamente grazie a quel mucchietto di voti che aveva, quindi non si poteva fare granché».

In ogni caso siamo arrivati alla resa dei conti. Oggi si riunisce il tavolo, ma cosa succede una volta concordato il programma? Si dovrà ripartire con l’ennesima consultazione per accordarsi sul nome?

«Non penso, perché credo che il nome lo abbiano già fatto, e il nome è Conte. Si ripartirebbe daccapo solo nel caso in cui Renzi, a questo punto pubblicamente, ponesse un veto sull’Avvocato. O se il programma di Governo cambiasse così tanto da rendere necessario trovare un altro nome, ma mi parrebbe francamente strano e improprio. Oltretutto, essendo formato dagli stessi partiti che hanno sostenuto Conte, sarebbe un governo indebolito in partenza».

Ma questa procedura scelta da Roberto Fico (quella appunto del tavolo di confronto su un programma tra i vari gruppi parlamentari) fa parte del consueto iter politico?

«No, assolutamente. È una sua innovazione che mi pare molto interessante e giusta. Apprezzo molto la strada da lui scelta: è un uomo intelligente e ha capito che dopo “i confessionali” era arrivato il momento di dire le cose esplicitamente, anche in modo da accelerare la procedura. Anche perché era inutile continuare a rimbalzare da un gruppo all’altro: metterli gli uni di fronte agli altri a discutere su dei punti programmatici li costringe a scoprire le carte, smetterla di parlare solo con i giornalisti e parlarsi finalmente tra di loro».

Detto ciò, quali prospettive di futuro si aspetta?

«Questo è un Paese che può risorgere in maniera difficile ma tutto sommato positiva, se sa usare bene questa valanga di soldi che devono arrivare (i 209 miliardi del Recoveryn.d.r). Ma può anche crollare definitivamente, perché nel momento in cui non riesci a usare quei soldi il Paese è in enorme difficoltà. Poi ci sono due elementi da non dimenticare: il primo è che anche se gli europei del nord ci guardano, giustamente e qualche volta in maniera eccessiva, con supponenza, l’Italia è importante: è uno degli stati fondatori dell’Unione Europea ed è comunque pesante dal punto di vista del contributo economico e culturale. L’altro elemento, che dimentichiamo sempre, è che il prodotto interno lordo italiano è sempre sottovalutato, perché questo è un Paese di balordi che non pagano le tasse: continua a esserci un quarto degli italiani che evade. In più, se guardiamo ai numeri, siamo un popolo di risparmiatori, quindi c’è del “grasso” che potrebbe attutire le difficoltà. Ma è necessario uno sforzo di disciplina collettiva».

Pubblicato il 1° febbraio 2021 su La Sestina

Essere più buoni (e più costituzionali) ai tempi di Covid-19 @formichenews

Tutte le libertà personali di tutte le persone hanno come limite invalicabile le stesse libertà di tutte le altre persone. E allora, sull’emergenza, potrebbe essere il Parlamento a legiferare in materia, oppure il governo (con la sua maggioranza) lasciando alle Camere il compito di precisare, limare, eventualmente migliorare.

Trovo molto fastidiosa la pretesa di alcuni, giuristi e giornalisti, di qualificarsi come più buoni, più rispettosi della Costituzione, più protettori delle libertà dei cittadini e dunque più autorizzati, anzi, i soli autorizzati a criticare il governo e, in particolare, il Presidente del Consiglio. La maggior parte delle critiche sono pretestuose, politicamente (im)motivate e, infine, diseducative. Due sono i punti più discutibili: i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) e la (eventuale) limitazione delle libertà personali.

Con i DPCM il “cattivo” Conte avrebbe imposto la sua linea “a prescindere”, secondo alcuni fuoriuscendo dalla Costituzione, secondo altri andando contro la Costituzione, ma, evidentemente, con il sostegno della “sua” maggioranza. Poiché continuo a credere che il custode della Costituzione è il Presidente della Repubblica, ritengo il silenzio di Mattarella assolutamente eloquente. So anche che da Palazzo Chigi al Quirinale funzionano linee telefoniche, c’è anche, come si dice, una “batteria” e, dunque, sono certo che le due autorità si sono confrontate. Tralascio tutto il discorso sui decreti, che dovrebbero essere emanati soltanto “in casi straordinari di necessità e d’urgenza” (art.77) quando è arcinoto che entrambi i requisiti sono sistematicamente violati, l’urgenza essendo spesso procurata. Ma, scrive giustamente Vincenzo Lippolis, “le norme costituzionali vanno interpretate con riferimento al contesto” cosicché mi pare lecito aggiungere e sottolineare che i DPCM si giustificano pienamente proprio con riferimento al contesto.

Giuristi e giornalisti hanno lamentato la compressione del Parlamento, la sua emarginazione, il suo mancato funzionamento. Credo che il Presidente della Camera Roberto Fico abbia già risposto soddisfacentemente. Rilevo che il Parlamento italiano oggi è un’istituzione nella quale stanno uomini e donne di partito malamente eletti da una pessima legge elettorale che li rende dipendenti da chi li ha candidati: capipartito e capicorrente (con aiutini da parte di qualche lobby). Sono loro a non fare funzionare il Parlamento, non il Presidente del Consiglio. Infatti, “un Parlamento che non vuole essere emarginato ha tutte le possibilità per chiamare il governo a spiegare la sua linea d’azione e a controllare il suo operato” (Lippolis).

A maggior ragione il Parlamento dovrebbe chiamare il governo a rispondere nei casi in cui ravvisi violazioni delle libertà e dei diritti. Qui entrano in campo anche i filosofi e i sociologi. Davvero la libertà di circolazione è un diritto assoluto? Quando la libertà di circolazione incide sul mio (e vostro) diritto alla salute, non potrebbe/dovrebbe essere limitata, circoscritta, anche con un’apposita tecnologia? È possibile suggerire come punto di partenza quantomeno che tutte le libertà personali di tutte le persone hanno come limite invalicabile le stesse libertà di tutte le altre persone. Potrebbe essere il Parlamento a legiferare in materia, oppure il governo (con la sua maggioranza) lasciando al parlamento di precisare, limare, eventualmente migliorare. John Locke suggerirebbe un elenco che vede al primo posto la vita, poi, la proprietà, al terzo posto la libertà. Lo interpreto flessibilmente. Se non c’è vita (quindi la salute), la proprietà non serve a nulla, ma come si può esercitare la libertà senza il possesso di un minimo di risorse personali? Ecco, forse, proprio questo Primo Maggio è più appropriato di altri a farci riflettere senza formalismi e garbugli sull’elenco (e le priorità che mi paiono attualissime) di Locke.

Pubblicato il 1° maggio 2020 su formiche.net

Fico o Di Maio, chi comanda davvero? #intervista @CittadiSalerno

Intervista raccolta da Gaetano de Stefano

l politologo Pasquino: in Campania accordo trasparente con i Cinque Stelle, a livello nazionale il vero sconfitto è Salvini

 

NAPOLI – «Vincenzo De Luca dovrebbe essere ricandidato, in quanto sono dell’idea che tutti i governatori uscenti debbano richiedere la fiducia agli elettori. Ho l’impressione, peraltro, che De Luca sia anche un buon governante, magari qualche volta un po’ troppo scostante, soprattutto nel suo lessico». Il politologo e accademico Gianfranco Pasquino commenta il risultato elettorale dopo il voto in Emilia Romagna e Calabria. E dà il via libera alla ricandidatura del presidente della Regione Campania, magari anche attraverso un’alleanza del Partito democratico con il Movimento 5 Stelle.

Ritiene possibile in Campania un’asse Pd-5 Stelle?

Dipende da De Luca , se sarà lui il candidato, e dal Movimento 5 Stelle. Mi chiedo, però, chi sia il capo dei 5 Stelle in Campania: Di Maio o Fico? Ritengo che per trovare un accordo debbano innanzitutto trovarsi, discutere. Io preferirei che lo facessero in maniera trasparente, dicendo quali sono i vantaggi per gli uni e per gli altri. E, soprattutto, quali sono i vantaggi per gli elettori, cosa promettono di buono.

Che lettura si può dare del voto in Emilia Romagna e in Calabria?

In Calabria il centrodestra ha vinto in maniera abbastanza significativa, il Pd ha dimostrato di sapersi riprendere un po’, ma non basta e deve trovare degli altri alleati. Mentre il Movimento 5 Stelle è oramai in disfacimento. Prima se ne rendono conto meglio sarà per loro.

E in Emilia Romagna? Un dato è sicuro, perché sento che adesso tutti s’attorcigliano: Salvini ha perso. Ha perso lui, perché si era messo in gioco in prima persona, ha perso la Lega, che ha avuto 2 punti e mezzo in meno rispetto alle ultime elezioni europee, ha perso la candidata imposta da Salvini, che era comunque inadeguata. Il leader della Lega, dunque, ha perso almeno 3 volte. E di questo bisogna tenerne conto, perché è la prima vera sconfitta elettorale di Salvini. Il Pd ha tenuto molto bene rispetto alle aspettative che Zingaretti aveva cercato di tenere molto basse. Invece ha vinto molto bene Bonaccini, utilizzando quello che doveva fare, cioè il fatto che fosse presidente della Regione uscente e che avesse governato bene.

Come spiega la debacle dei 5 Stelle?

Il M5S ha avuto una difficilissima transizione da movimento d’opposizione, che poteva permettersi di dire ciò che voleva, a movimento di governo, che deve tenere conto delle compatibilità che sono sociali, ambientali e anche europee. Semplicemente non sapeva governare, non ha una classe dirigente. Il suo capo politico era inadeguato, Luigi Di Maio era un problema. Hanno rimandato troppo a lungo la decisione di sostituirlo o, comunque, di trovare un’altra modalità di leadership. In più in Emilia Romagna i 5 Stelle hanno a lungo discusso se presentarsi o meno. E hanno scelto un candidato presidente non particolarmente noto o attraente. C’è una parte di struttura, che è quella che riguarda l’inadeguatezza del movimento a governare, e una parte di congiuntura, che fa riferimento alle scelte effettuate all’ultimo momento abbastanza malamente.

Anche Forza Italia non ha raccolto molti consensi…

Forza Italia paga lo scotto di avere un leader vecchio, un uomo stanco e ripetitivo, che non è più in grado di fare le campagne elettorali tambureggianti che faceva in passato. Forza Italia è stata largamente divorata da Salvini e a questo punto ha un problema di sopravvivenza.

I dati elettorali di Emilia Romagna e Calabria possono essere trasposti a livello nazionale?

Suggerisco di non trasporre nulla, perché gli elettori italiani sanno bene cosa votano. In questa tornata elettorale hanno votato per la presidenza della regione. Dopodiché se si fa un’offerta nazionale e si spiega che tipo di governo, che tipo di priorità, che tipo di persone, probabilmente si orientano a secondo del tipo di offerta che viene loro fatta. Trarre insegnamenti nazionali da 2 regioni peraltro così distanti tra di loro mi pare un’operazione azzardata.

Pubblicato il 28 gennaio 2020 su la Città di Salerno

INVITO La Costituzione, 70 anni dopo #Roma #17aprile @Anpinazionale

Mercoledì 17 aprile 2019 – ore 16
Roma, Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati
Piazza Campo Marzio, 42

PRESENTAZIONE DEL VOLUME
“La Costituzione, 70 anni dopo”

Interventi
GIOVANNI MARIA FLICK

CARLA NESPOLO

GIANFRANCO PASQUINO

CARLO SMURAGLIA

Coordina
ALTERO FRIGERIO

È stato invitato a portare un saluto il Presidente della Camera dei Deputati
ON. ROBERTO FICO

Le urne, i dubbi e i conti del Quirinale

Quel che non sono finora riusciti a muovere i leader dei vari partiti nelle loro consultazioni reciproche potrebbe essere stato messo in movimento, un po’ dagli elettori del Molise, un po’ di più dagli elettori del Friuli-Venezia Giulia. Nella sua fin troppo rentrée anticipata (aveva promesso due anni di silenzio), alla televisione, non nella Direzione del partito, convocata per il 3 maggio, il due volte ex-segretario del PD Matteo Renzi ha chiuso qualsiasi spiraglio di dibattito con le Cinque Stelle, spiazzando il segretario reggente, Maurizio Martina, che ha subito deprecato metodo e merito delle dichiarazioni renziane. Non è più chiaro che cosa sarà all’ordine del giorno della Direzione, magari quella discussione finora mancata sulle ragioni della secca sconfitta del 4 marzo.

Lanciando un messaggio sia al Presidente Mattarella sia al centro-destra, il sedicente senatore “semplice” di Scandicci, Impruneta, Lastra a Signa ha altresì dichiarato la sua disponibilità a un governo costituente, utile anche a salvare per un anno e mezzo circa le poltrone dei senatori, ai quali ha fatto riferimento esplicito, e dei deputati da lui nominati e fatti eleggere. Mentre il Presidente della Camera, il pentastellato Roberto Fico, colto sul fatto di non pagare i contributi a chi lavora a casa sua e della compagna come colf, scopre il contrappasso dell’ossessiva, ancorché giusta, campagna delle Cinque Stelle sull’onestà, il nervosismo travolge Di Maio che sente che Palazzo Chigi per lui non è più dietro l’angolo. Renzi non apre il forno del Partito Democratico; Salvini adamantino vuole che il forno del centro-destra non escluda l’inaccettabile, per le Cinque Stelle, vecchio fornaio Silvio Berlusconi. Lo stallo è servito, a mio parere, senza eccessive preoccupazioni poiché il governo Gentiloni c’è e può continuare.

Pur non esagerando l’impatto del voto per le elezioni regionali del Friuli-Venezia Giulia (fra l’altro, ha votato meno del 50 per cento degli aventi diritto) e tenendo conto delle specificità, i segnali politici sono chiari. Primo, le Cinque Stelle arretrano significativamente, segno che una parte non piccola di quegli elettori non hanno affatto gradito l’andirivieni fra i due forni e la preclusione nei confronti di Berlusconi. Secondo, il PD e le liste alla sua sinistra sono stabili o appena declinanti. Non c’è nessun segnale di ripresa, nessun apprezzamento per la decisione di stare all’opposizione. Anzi, si direbbe che gli elettori della regione abbiano preso atto che il PD vuole stare all’opposizione (ma in Friuli-Venezia Giulia era il partito della governatrice uscente) e lì l’hanno collocato. Nella sua nuova veste di statista sobrio e misurato, Salvini non ha esultato in maniera scomposta, ma lui e il candidato della Lega Massimiliano Fedriga sono i vincitori assoluti di queste elezioni. Rispetto al 2013, la Lega ha più che quadruplicato i suoi voti da 33 mila a 147 mila. Dal canto suo, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, leale alleata nel centro-destra, più che triplica i suoi consensi passando da 6 mila a 23 mila voti, mentre prosegue inarrestabile il declino di Forza Italia che perde 30 mila voti.

Ferme restando tutte le note di cautela su un voto nel quale le tematiche regionali e le personalità dei candidati hanno un’importanza significativa, sarebbe sbagliato non trarne un paio di lezioni. La prima è che il Nord(est) dimostra di essere un territorio, al tempo stesso, molto ostico per le Cinque Stelle e molto favorevole al centro-destra. La seconda è che diventa alquanto più difficile pensare che sia fattibile una coalizione di governo che escluda il centro-destra. Forse, da oggi, anche al Quirinale il Presidente Mattarella si sarà rimesso a fare i conti del numero dei seggi che mancano al centro-destra per il conseguimento della maggioranza assoluta in Parlamento. Si chiederà anche se, eventualmente rompendo con le prassi rigorosamente seguite dai suoi predecessori: “nessun incarico se non esiste una maggioranza precostituita”, la situazione attuale non richieda una eccezione.

Pubblicato AGL il 1° maggio 2018

Il Partito Democratico al bivio

L’esplorazione del Presidente della Camera Roberto Fico (Cinque Stelle) si è conclusa positivamente. Le Cinque Stelle confermano che è loro intenzione aprire un confronto programmatico con il Partito Democratico. Dal canto suo, il segretario reggente del PD Maurizio Martina si dichiara disponibile a verificare se anche nel suo partito esiste una maggioranza a favore dell’inizio del confronto. Toccherà alla Direzione del Partito convocata per giovedì 3 maggio esprimersi, non sul se fare o no un governo con le Cinque Stelle, ma sull’apertura del confronto programmatico. Le prime mosse del due volte ex-segretario del PD Matteo Renzi e dei suoi sostenitori sembrano essere pregiudizialmente ostili a qualsiasi inizio di confronto. In maniera irrituale, ma rivelatrice del suo personale no procedurale, Matteo Renzi ha fatto una specie di sondaggio “intervistando” i passanti in una piazza di Firenze. Dal canto loro, certamente con l’approvazione, se non anche con l’incoraggiamento dello stesso Renzi, numerosi parlamentari da lui nominati/e hanno inondato la rete esprimendo il loro dissenso con l’hashtag #Senzadime. Usando una metafora cara a Renzi, mentre le Cinque Stelle entrano in campo, lui, che il giorno della sua brutta sconfitta elettorale, aveva portato via il pallone, fa sapere direttamente e indirettamente che non ha intenzione di restituirlo consentendo che la partita cominci. Soltanto un voto a lui contrario della Direzione lo costringerà alla restituzione del pallone e a entrare in campo.

I commentatori che s’impegnano in raffinati conteggi sono giunti alla conclusione preliminare che gli “aperturisti” del PD non hanno attualmente la maggioranza. Qualcosa può cambiare in una settimana soprattutto se il segretario reggente e coloro che pensano che un partito che si chiama democratico ha una responsabilità nazionale riescono chiarire agli iscritti, ai simpatizzanti e agli elettori del PD che il passo da compiere non consiste nella formazione di un governo con il Movimento Cinque Stelle, per di più a guida di Di Maio, ma nell’individuazione di eventuali convergenze fra i programmi delle Cinque Stelle e del Partito Democratico.

Per uscire dall’ambiguità e per recuperare il senso delle regole in base alle quali funzionano le democrazie parlamentari, coloro che ritengono utile la trattativa debbono, anzitutto, sottolineare che il Movimento Cinque Stelle è un interlocutore legittimo, già riconosciuto come tale dal Presidente della Repubblica. Non si deve ostracizzare a prescindere un attore politico-parlamentare che rappresenta un terzo degli elettori italiani. In secondo luogo, pur nella consapevolezza che gli elettori italiani lo hanno, per una molteplicità di motivazioni, punito, il PD non deve rinunciare a rappresentare le loro preferenze e i loro interessi e, certo, lo potrà fare meglio se troverà il modo di influenzare il programma del prossimo governo. Terzo, gli oppositori di qualsiasi inizio di confronto enfatizzano siderali distanze programmatiche, persino sulla stessa concezione di democrazia (non oggetto della trattativa di governo che, comunque, si svolge nel quadro della democrazia parlamentare), ma senza confronto nessuna di quelle distanze potrà mai essere misurata convincentemente. Sembra che sulle priorità delle Cinque Stelle e del PD, le distanze siano a ogni buon conto meno significative di quelle fra Cinque Stelle e Salvini (o centro-destra nella sua interezza), ad esempio, sul reddito di cittadinanza/di inclusione o lotta alla povertà e sull’Europa.

Ne sapremo di più, tutti, compresi i due interlocutori, se il confronto comincerà. Prematuro è parlare di Presidente del Consiglio e di ministri anche perché la nomina del primo spetta al Presidente della Repubblica il quale ha anche il potere costituzionale di accettare o respingere i secondi. Nel bene e nel male, la Direzione del PD ha la grande responsabilità di scegliere se aprire o affossare un vero confronto programmatico e politico.

Pubblicato AGL il 27 aprile 2018