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La politica vive. Chi non si occupa di politica, la politica non si occupa di lui #paradoXaforum

La politica? Offre cattiva prova di sé; non dà risposte; non risolve problemi; è evaporata; è finita; se ne può, anzi, se ne deve, fare a meno. Nel paese che ha una lunga, non nobile, tradizione di antipolitica, e moltissimi commentatori antipolitici, per esempio, coloro che affermavano di “non prendere neanche un caffè con i politici” (Indro Montanelli), queste frasi hanno effetti deleteri. Sono anche sbagliate.

   Politica, da Aristotele in poi, è tutto quello che succede nella polis, nel sistema politico. Dunque, la politica non può evaporare e non se ne può fare a meno. Certo, può scomparire la polis quando la politica viene proseguita con altri mezzi: la guerra (von Clausewitz). Politica è la capacità di costruire le condizioni del possibile, mettendo insieme le preferenze, le competenze e le energie di coloro che vivono nella polis, che vogliono preservarla, cambiarla, migliorarla.

   Non è neanche vero che l’importanza della politica, delle scelte effettuate nell’ambito di ciascuna polis, di ciascun sistema politico, è diminuita, addirittura azzerata dalla globalizzazione. Al contrario, la globalizzazione è una sfida alla politica dei sistemi politici, i quali, se sanno organizzarsi grazie ad una buona politica e a politici buoni, sono in grado di difendersi dalla globalizzazione. Nessuna sfida economica, sociale, della comunicazione si abbatte sulla Danimarca, paese con circa la metà degli abitanti della Lombardia poiché la sua burocrazia è efficiente e integra e la sua democrazia gode di amplissimo consenso. Entrambe saprebbero resistere e la sua politica saprebbe reagire rimodulandosi, rimodellandosi, sconfiggendo gli operatori aggressori. La politica abita in Danimarca, affermerebbe un redivivo Amleto.

   Vero è che in alcuni sistemi politici è cresciuto il numero di coloro che pensano di potere fare a meno della politica. Un tempo li avremmo chiamati individualisti. Si isolavano orgogliosamente, si chiamavano fuori dalla politica, convinti di poterne fare a meno grazie al loro ingegno e alle loro risorse. Oggi sulla scia di un grande studioso recentemente scomparso, Ronald Inglehart, lo dobbiamo chiamare post-materialisti. Non hanno nessun bisogno materiale (ordine/sicurezza e stabilità dei prezzi), ma perseguono obiettivi come libertà di espressione e autorealizzazione e pensano di riuscire a ottenerli, se e quando vogliono, con le loro personal capacità senza la politica, persino, eventualmente, contro la politica.

   Sbagliano. Quando se ne accorgono organizzano proteste e movimenti, come Podemos e Occupy Wall Street. In questo modo, riconoscono non solo l’esistenza della politica, ma la sua importanza anche al più alto livello, quello dei beni immateriali. Sconvolgono e capovolgono la troppo spesso banalmente ripetuta affermazione “se non ti occupi di politica la politica si occupa comunque di te”. No, la politica di cui non i occupi, non si occupa di te. Non organizzerà al meglio il sistema delle comunicazioni. Non ristrutturerà il mercato del lavoro. Non porterà le scuole e le Università al loro rendimento più elevato. Non provvederà né alla salute né alle pensioni dei suoi cittadini, materialisti e postmaterialisti.

   Dove la politica viene sottovalutata e disprezzata dai commentatori e dai cittadini, che sono parte più o meno consapevole, spesso ignorante e male informata, del problema, la vita rischia di diventare, o già lo è, hobbesiana: “solitary, poor, nasty, brutish, and short”.

Pubblicato il 25 settembre 2022 su ParadoXaforum

I nodi dell’epoca post-materialista @La_Lettura @Corriere #6febbraio

Gianfranco Pasquino (1942), torinese, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e socio dell’Accademia nazionale dei lincei. È autore di numerosi libri, i più recenti dei quali sono Minima politica. Sei lezioni di democrazia (2019) e Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (2021), entrambi UTET. A marzo arriverà in libreria Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).

What is Left? All’incirca all’inizio degli anni novanta del XX secolo con persino troppo grande pensosità e delusione, gli intellettuali di sinistra di qua e di là dell’Atlantico si interrogavano dolorosamente sullo stato di salute dei loro punti di riferimento partitici e politici. L’intraducibile gioco di parole, in inglese left è sia “sinistra” sia “rimasto”, prendeva le mosse da molte sconfitte elettorali, a cominciare dall’ennesima subita dai laburisti nel 1992 e a continuare con quella inflitta da Berlusconi nel 1994 a quel che, appunto, era rimasto della sinistra italiana. Già allora, alquanto insofferente alle autoflagellazioni senza attenzione comparata alla “realtà effettuale”, replicai in varie sedi che c’era ancora molto di sinistra nel mondo, in Europa (e negli USA). Infatti, erano “rimasti” numerosi milioni di elettori, centinaia di migliaia di eletti dai comuni ai Parlamenti, decine di partiti di sinistra. Successivamente, mentre commentatori e studiosi si attardavano e crogiolavano pigramente nelle loro superficiali analisi, in pochi anni, già nella seconda metà degli anni novanta, la situazione si era, se non totalmente ribaltata, significativamente trasformata.

   Nel 1996 l’Ulivo, almeno in parte costituito da pezzi di sinistra, vinse le elezioni italiane. Nel 1997 il New Labour di Tony Blair tornò in forza al governo del Regno Unito dal quale mancava dal lontano 1979. Nel 1998 la coalizione socialdemocratici-verdi guidata da Gerhard Schröder (e Joschka Fischer) pose termine alla più lunga esperienza di governo della Germania del dopoguerra: 16 anni del democristiano Helmut Kohl. Fra i grandi paesi europei mancava all’appello soltanto la Francia dopo quattordici lunghi anni, tuttora il record probabilmente insuperabile, della Presidenza di François Mitterrand (1981-1995). Altrove, in particolare nei paesi scandinavi, socialdemocratici e laburisti continuavano a essere partiti capaci di andare al governo. Insomma molto di sinistra era rimasto, risultava competitivo, vinceva e, come avviene nei regimi democratici, talvolta perdeva le elezioni a quel punto garantendo una opposizione in grado di controllare i governi in carica e di presentarsi come alternativa credibile all’elettorato che variamente premiava partiti e leader di sinistra.

   Non c’è nessun dubbio, però, che quello che il grande sociologo liberale tedesco Ralf Dahrendorf aveva definito il “secolo socialdemocratico” si era chiuso. La sinistra, socialdemocratici e laburisti, rimase competitiva. Altre vittorie elettorali sarebbero arrivate. Altri governi sarebbero stati formati, in Germania, addirittura due Grandi Coalizioni a guida democristiana 2005-2009 e 2017-2021 con indispensabile partecipazione socialdemocratica. Negli USA la clamorosa epocale affermazione di Obama (2008) sembrò avere aperto la strada ad un altro New Deal. Non è stato così, ma non mi spingerei a sostenere che, invece, lastricò la strada per Trump. Nel mondo in senso lato di sinistra qualcosa era, però, davvero finito. I due grandi pilastri economico e sociale costruiti dai socialdemocratici e da loro sperimentati e tradotti in scelte concrete quando andavano, erano e rimanevano al governo: il keynesismo e le politiche di welfare, furono attaccati e, il keynesismo, relegato ai margini. In qualsiasi modo si definissero e qualsiasi ruolo svolgessero, neo-(vetero)liberisti e neo-conservatori si misero alacremente all’opera per smantellare il secolo socialdemocratico. Non era più questione di numeri, ma di cultura economica e ancor più di cultura politica, di visione del mondo.

   Quando liberismo e “revisione” (è un eufemismo) del welfare si affermarono anche a livello dell’Unione Europea, inevitabilmente, poiché sostenuti e proposti dalla maggioranza dei governi degli stati-membri, la situazione complessiva di salute dei socialdemocratici, della sinistra europea sembrò ancora più grave di quella dell’inizio degli anni novanta. La riflessione sui motivi di quello che appariva un declino gravissimo tardarono. Nessuno può dubitare che il welfare e il keynesismo abbiano cambiato per il meglio la vita di centinaia di milioni di europei, in maniera in larga parte irreversibile. Sentendosi più sicuri nel quotidiano e più fiduciosi per il loro futuro milioni di cittadini hanno pensato di potere fare a meno della protezione economica e promozione sociale che veniva loro offerta e garantita dai partiti di sinistra. La comparsa di quelli che in una illuminante ricerca comparata su molte nazioni occidentali, il docente di Scienza politica Ronald Inglehart definì cittadini post-materialisti, stava cambiando o aveva già cambiato in maniera irreversibile aspettative e pratiche. Interessati alla loro autorealizzazione personale molto più che alla collaborazione e alla solidarietà collettiva e convinti non solo di potere fare a meno della politica, ma che la politica e lo Stato siano ostacoli di cui sbarazzarsi, i cittadini post-materialisti con il loro fare da soli indebolivano in special modo tutti i partiti socialdemocratici, vecchi e nuovi, vale a dire, quelli dei paesi di recente accesso alla democrazia. Di più, interessati ai temi etici e portatori di soluzioni spesso controverse in termini di libertà di scelta e opposte al conservatorismo sociale di non pochi settori delle classi popolari, i post-materialisti hanno creato tensioni nell’elettorato potenzialmente socialdemocratico (dal quale molti di loro provengono) tanto sulle priorità quanto sulla combinabilità dei temi etici con le politiche più propriamente sociali e economiche.

   Da alcuni anni, prima la crisi economica, poi la pandemia sembrano avere almeno in una (in)certa misura cambiato il vento delle aspettative e delle emozioni, ma gli spezzoni di nuove culture progressiste, il neo-femminismo e l’ambientalismo, non hanno dato vita a nessun rilancio consistente e duraturo della sinistra e delle sue politiche. Anzi, si sono spesso rivelati sfidanti e trasformati in temibili concorrenti elettorali. In verità, indebolitosi e molto screditatosi il liberismo nelle sue varie manifestazioni e applicazioni, anche gli sfidanti della sinistra si trovano in difficoltà e ricorrono a tematiche “negative”, in senso lato “nazional-culturali”, in particolare esprimendosi contro l’immigrazione e contro l’Europa, ruotanti intorno ad una non sempre modica dose di populismo. Ne sono derivati partiti come i Democratici svedesi, i Veri finlandesi, patrioti di varia estrazione, sedicenti democratici orgogliosamente “illiberali” che fanno tutti appello, con qualche successo, ai settori popolari altrimenti elettorato potenziale delle sinistre.

   Avendo saputo accogliere e talvolta significativamente promuovere le donne e le loro tematiche, molti partiti di sinistra con alla testa socialdemocratici e laburisti norvegesi, svedesi, finlandesi e danesi si trovano attualmente al governo. Comunque, si presentano sempre in grado di essere considerati affidabili partiti di governo. Nel resto del continente, socialisti spagnoli e portoghesi hanno saputo dare vita a pur complicate e complesse coalizioni di governo [con la sua clamorosa affermazione elettorale del 30 gennaio 2022, il Partito Socialista Portoghese di Antonio Costa potrebbe anche farne a meno], mentre avvenimento molto rilevante è la riconquista nel 2021 della cancelleria ad opera dei socialdemocratici tedeschi pure lontani dai loro esiti elettorali migliori. In questo panorama, i punti deboli, anzi, debolissimi sono rappresentati da Italia e Francia, sistemi politici nei quali i socialisti sono sostanzialmente assenti oppure ridotti a percentuali irrilevanti, privi, affermerebbe Giovanni Sartori, di qualsiasi potenziale di coalizione. Sullo sfondo si affacciano, più per errori e comportamenti inadeguati dei conservatori, i laburisti inglesi che stanno all’opposizione oramai da dodici anni, ma senza avere finora saputo individuare tematiche e modalità di rinnovamento della loro offerta programmatica post-Brexit (sulla quale hanno pagato il prezzo della ambiguità).

    Una rapida panoramica rivela che i partiti socialisti europei, molti dei quali debbono fare i conti con concorrenti che si situano alla loro sinistra, non riescono più ad andare oltre il 30 per cento dei voti, tranne per l’appunto in Portogallo. Le loro percentuali elettorali oscillano dal 24-28 per cento dei voti, nell’ordine Austria, Danimarca, Norvegia, Spagna e Svezia, spesso sufficienti, però, a farne una componente dei governi dei rispettivi sistemi politici, quando non addirittura il partito del capo del governo. Tuttavia, le loro politiche devono essere costantemente negoziate con gli alleati prevalentemente centristi. Manca cioè la possibilità di imporre una impronta effettivamente e visibilmente “socialista” alle politiche di governo e manca anche il tempo per tentare un’ambiziosa operazione di elaborazione e formulazione di una cultura progressista per il XXI secolo. Soprattutto o semplicemente in aggiunta, si manifesta con grande evidenza l’assenza di leadership attraenti e affascinanti come furono il tedesco Willy Brandt, il portoghese Mario Soares, lo spagnolo González, lo svedese Olof Palme, l’inglese Tony Blair (e persino di intellettuali come è stato il sociologo politico Anthony Giddens, influentissimo teorico della Terza Via). L’ultimo leader che è riuscito ad “appassionare” in qualche modo la sinistra, non strettamente socialista, europea è stato il giovane greco Alexis Tsipras alla guida della coalizione chiamata Syriza (sinistra, movimenti, ecologia), attualmente con più del 30 per cento dei voti, peraltro non vista con grande simpatia dai socialdemocratici/laburisti europei.

  In definitiva, è rimasto ancora molto di sinistra nel continente europeo, anche, ma scarsissima presenza a livello di governo, nei paesi dell’Europa centro-orientale. I problemi da affrontare sono quelli delle società contemporanee avanzate. In estrema sintesi, solo in parte, data la difficoltà del compito, sorprende, anche se può preoccupare, che non si intraveda nell’ambito della sinistra una visione nuova e trascinante, un cultura politica che sappia dare risposte europeiste anche al tema, più che emergente, delle diseguaglianze sociali, culturali prima e più di quelle economiche (alle quali i populisti offrono risposte viscerali tremendamente semplificatrici spesso di fluttuante successo), che siano in grado di dettare le politiche nel futuro prossimo. Hic Europa hic salta.

Da La Lettura del Corriere della Sera 6 febbraio 2022

La rivoluzione introvabile #Sessantotto

Pubblicato nella rivista I Martedì, n 342

Solo le rivoluzioni (ri)cambiano totalmente le classi dirigenti. Il Sessantotto non fu una rivoluzione né negli USA, dove effettivamente iniziò nel 1964-65, né nel resto del mondo. Se qualcuno dei sessantottini avesse mai intrattenuto qualche propensione rivoluzionaria, malamente nutrita da fragili fondamenta nella conoscenza della storia e dei meccanismi socio-politici del cambiamento, gli sarebbe bastato per ricredersi leggere i durissimi editoriali di quel grande studioso liberale che fu Raymond Aron da lui raccolti in un libro che include un’intervista con il titolo tanto provocatorio quanto appropriato: La révolution introuvable, (Fayard 1968). Credo che si possa aggiungere: et tout à fait improbable. Quella non rivoluzione parigina, secondo il Presidente de Gaulle, quasi una ricreazione giovanile, terminò bruscamente con una delle più abbondanti vittorie elettorali dei gollisti. In Francia non ebbe luogo nessun ricambio della classe dirigente. Né è possibile sostenere che il ricambio sarebbe avvenuto in seguito con la vittoria di François Mitterrand e del Parti Socialiste nel 1981. Infatti, almeno tre quarti di quel gruppo dirigente erano uomini e donne cresciuti in politica prima del 1968. D’altronde, è noto che le classi dirigenti francesi non si formano nelle strade e nelle piazze, ma nelle invidiabili Grandes Ecoles. Con tutta la sua brillantezza esplosiva il Sessantotto francese non fu che una sfida parigina perduta.

Neppure negli Stati Uniti dirigenti e militanti del Sessantotto avrebbero conseguito (forse non ebbero neanche l’intenzione di perseguirlo) un ricambio nelle classi dirigenti. In parte riuscirono ad imporre cambiamenti non del tutto positivi (infatti, i Democratici persero le elezioni presidenziali del 1968 e poi del 1972) nelle modalità di funzionamento del Partito Democratico, ma praticamente nessuno degli uomini e delle donne in politica, nel Congresso, alla Presidenza nei molti anni successivi fu debitore della sua carriera politica a precedenti esperienze sessantottine. In questo sinteticissimo excursus extra-italiano, il posto d’onore spetta al tedesco Joschka Fischer, uno dei fondatori dei Verdi tedeschi, Ministro degli Esteri nel governo SPD-Verdi dal 1998 al 2005, convinto predicatore di un’Europa politica. Tuttavia, neppure la politica tedesca testimonia di un ricambio politico prodotto dal Sessantotto. Infine, neanche la longue durée del Sessantotto italiano, al quale darei come data di conclusione l’esplosione del Movimento del 1977, può attribuirsi il merito di avere prodotto un ricambio delle classi dirigenti, meno che mai di quella politica.

Praticamente tutti i dirigenti politici importanti dei partiti italiani negli anni Ottanta dello scorso secolo erano entrati in politica prima del Sessantotto. Non fu il Movimento, ma le organizzazioni studentesche tradizionali a produrre, almeno in parte, il personale politico di quei partiti e dei Parlamenti eletti. Inoltre, anche se talvolta incapaci di comprendere esigenze peraltro espresse in maniera confusa, talvolta contrari alle modalità di fare politica manifestate dal Movimento (a cominciare da un eccesso di liderismo che, curiosamente, è possibile riscontrare nei partiti personalisti contemporanei) talvolta portatori di un’idea di società e di politica opposta ai Sessantottini, i dirigenti dei partiti italiani furono per lo più in grado di assorbire l’urto, di smussare, di cooptare e, se del caso, di respingere gli eventuali sfidanti. In verità, la maggior parte dei potenziali sfidanti si disperse, entrò nel “riflusso”, scelse altre attività, per lo più nel settore della comunicazione, nel giornalismo, si fece cooptare.

Il fatto è che il Sessantotto è meglio interpretabile e comprensibile come fenomeno in senso lato culturale e generazionale piuttosto che come tentativo di rivoluzionare il sistema politico e la società sostituendo totalmente le classi dirigenti esistenti. La profusione, naturalmente tutta europea, di critiche al capitalismo non deve ingannare. Infatti, nel Sessantotto non esiste nessuna approfondita e incisiva elaborazione economica e/o politica anti-capitalista, intesa ad “abbattere” il capitalismo. Semmai, l’obiettivo è andare oltre il capitalismo grazie a quanto il capitalismo nelle sue versioni USA e renana aveva già fatto, già dato, già progettato. Le varianti “cinesi” del Sessantotto, quelle che giungono persino a celebrare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria Cinese, sono del tutto ininfluenti sul ricambio delle classi dirigenti europee. La Cina era tutt’altro che vicina.

L’elemento centrale del Sessantotto è costituito un po’ dovunque da un profondo mutamento di valori che deriva da una combinazione di fattori demografico-generazionali con scelte culturali. Le nuove generazioni che, da Berkeley alla Columbia, dalla Sorbona alla Freie Universität di Berlino, da Palazzo Campana di Torino alla Statale di Milano, danno vita al Sessantotto sentono soprattutto di godere finalmente della possibilità di perseguire, contro l’autoritarismo dei baroni universitari e dei padroni industriali (in Francia e in Italia anche contro i dirigenti del Partito Comunista, ma sarebbe sbagliato esagerare con la critica al PCI il quale, non avendo nessuna chance di alternanza al governo, non era in grado di favorire/effettuare nessun ricambio di classi dirigenti), la loro auto-realizzazione, non solo un ricambio di persone e di elite, ma anche, in particolar modo, di modalità di espressione e di valori. Laddove i genitori e i nonni, ha sostenuto con dovizia di dati, Ronald Inglehart (The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles Among Western Publics, Princeton University Press 1977), in ricerche davvero originali e importanti, avevano dovuto preoccuparsi della stabilità di prezzi e della sicurezza personale, valori materialisti, i loro nipoti e figli, soprattutto le donne, si trovarono in condizione già a partire dall’inizio degli anni Sessanta (ovviamente, con differenze anche sensibili fra paese e paese e classi sociali) di intrattenere come prioritari valori post materialisti: la liberà di parola e l’autorealizzazione.

Il Sessantotto è, al tempo stesso, la manifestazione più significativa della crescita e diffusione dei valori post-materialisti e un punto di non ritorno. Di quei valori, la politica non potrà più disinteressarsi e, quando lo farà, ne pagherà un prezzo. Il riflusso del Sessantotto non sarà mai totale e non soltanto la generazione dei sessantottini, uomini e donne, non abdicheranno ai valori acquisiti e esibiti, ma manterranno nei loro ricordi e nelle loro esperienze quanto appreso nelle occupazioni, nei tornei oratori, nelle manifestazioni, nell’organizzazione di una pluralità di attività. Tuttavia, proprio per l’accento posto inevitabilmente su elementi che attengono alla personalità, la libertà di parola e la realizzazione delle proprie capacità e dei propri mondi vitali, i Sessantottini neppure si posero il problema di costituirsi in nuova classe dirigente. Contenere, ridurre, togliere il potere ai baroni universitari e ai padroni del vapore (industriale) non significava affatto e non implicava il volerli sostituire nei loro posti di comando. D’altronde, una delle rivendicazioni universitarie italiane, quella del voto politico (spesso più che un semplice “diciotto”), colpiva al cuore tutti i procedimenti di reclutamento, di selezione e di promozione delle classi dirigenti. Problematico sostenere che la non-selezione avrebbe posto fine a procedure clientelari e a privilegi familiari-amicali. Sicuro, invece, che il respingimento del criterio del merito o di qualsiasi altro principio per valutare conoscenze, esperienze, prestazioni, rendimento, efficacia rendeva impossibile costruire modalità e percorsi che garantissero il ricambio delle classi dirigenti senz’altro favorendone l’accesso di migliori.

Grazie alla diffusione di valori post-materialisti, che oggi sappiamo essere plausibili purtroppo anche di una regressione, le società post-sessantottine sono diventate ovunque più aperte, più rispettose delle differenze, anche più mobili (aggettivo di gran lungo più preciso e più pregnante del troppo spesso abusato “liquido”), più attente alla parità di genere e alle politiche per conseguirla e attuarla. Tutto questo, però, non si è accompagnato ad un qualsiasi drastico, profondo ricambio delle classi dirigenti. Anzi, il cambiamento delle e nelle classi dirigenti, in special modo in Italia, è stato lento, parziale, fortemente diseguale, a strati e a chiazze, non attribuibile, tranne in maniera molto parziale, a spinte, a progetti, a azioni sessantottine. Solo le rivoluzioni politiche e sociali offrono opportunità di ricambi sostanziali. Il Sessantotto rivoluzione non fu. I ricambi furono limitati, mai sconvolgenti e travolgenti, probabilmente neppure derivanti da richieste consapevoli e esplicite del Movimento, talvolta positivi talvolta no, sostanzialmente non accompagnati da una riflessione critica e da proposte proiettate nel futuro possibile.

Coloro che criticano il Sessantotto per avere distrutto tradizioni, autorità, modi di relazioni e di vita dovrebbero anche interrogarsi se quanto di quel passato è stato mantenuto ed è sopravvissuto, anche a causa delle inadeguatezze dei Sessantottini, sia il meglio. È giusto concluderne che, proprio per la sua intima essenza “post-materialista”, la “potenza distruttiva” del Sessantotto ha aperto strade e percorsi, comunque, difficili e talvolta impervi, per i singoli, in particolare per le giovani donne e le loro sorelle minori, ma non ha operato a sufficienza, in Italia ancor meno che altrove, sul ricambio delle classi dirigenti. Quante delle élites politiche del Movimento Cinque Stelle e della Lega, largamente “nuove”, dei loro genitori e parenti, hanno un qualche aggancio con il Sessantotto?