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Sull’Ucraina non basta pensare  solo  alla tregua. Bisogna avere un pensiero lungo @DomaniGiornale

L’aggressione russa all’Ucraina ha costituito un test per la politica di molti stati europei e degli USA. Le modalità di una difficile, ma, ovviamente, auspicabile conclusione delle ostilità, certamente non ancora definibile pace, si prospettano come un altro significativo test. L’aggressione ha messo alla prova la disponibilità non soltanto degli USA per ragioni di politica di potenza, ma soprattutto degli Stati-membri dell’Unione Europea ai quali si è rapidamente aggiunta, fatto di assoluta importanza, la Gran Bretagna, a sostenere militarmente e finanziariamente il paese aggredito. Alcuni Stati come Svezia e Finlandia, hanno addirittura sentito la necessità e l’urgenza di uscire dalla loro storica condizione di neutralità per entrare a fare parte della Nato.

Tutti i paesi dell’Unione, con le occasionali prese di distanze dell’Ungheria, che rimangono ai limiti dell’irrilevanza, hanno votato in più round sanzioni economiche, commerciali, di ostacolo alla circolazione alla Russia e ai suoi dirigenti. Non sono mancati coloro che ossessivamente denunciano ritardi e inadeguatezze dell’Unione, ma in quantità e in qualità viste nella loro sequenza le misure prese dalla UE segnalano importanti, in qualche modo imprevedibili, ad esempio quelle del governo italiano semisovranista,  convergenze e condivisioni di valutazioni e prospettive. Fra queste prospettive sta la decisioni di procedere a dotare l’Unione di indispensabili strumenti di difesa e la disponibilità dei volenterosi, in ordine alfabetico, Francia, Germania, Gran Bretagna, a continuare a sostenere palesemente e senza riserve l’Ucraina di Zelensky.

La posizione, che non chiamerò USA, ma del MAGAPresidente Trump, quasi ineccepibile per quel che riguarda l’appoggio militare, ha subito enormi oscillazioni politiche e negoziali. La matta voglia di Trump di intestarsi una qualsivoglia pace lo ha portato a eccessi di lodi e di concessioni a Putin e a atteggiamenti sgradevoli e offensivi nei confronti di Zelenski. Quanto all’Unione Europea, il documento di Strategia di Sicurezza Nazionale, oltre a critiche sulla qualità delle leadership politiche europee (da che pulpito!), la dice lunga sulla concezione dei rapporti fra USA e Unione e sulla sua preferenza, forse intenzione di smembrare l’UE, magari contando sull’appoggio di chi continua imperterrita a volerne sostenere alcune posizioni e propositi.

La condizione e lo sbocco dei negoziati Trump/Putin è per l’Unione europea un altro test di grande importanza. Due scelte significative per il presente e per il futuro debbono essere lasciate e non imposte a Zelenski; entrare a far parte della Nato e accedere all’Unione europea. Inaccettabile è una preclusione assoluta senza limiti temporali. Tocca a Zelensky decidere se le garanzie di sicurezza offerte da Trump siano credibili, rassicuranti e sufficienti. Quanto alla adesione all’Unione, il divieto deve essere temporaneo. Non si può consentire alla Russia l’esercizio di un potere di veto che Putin o chi per lui (sic) farebbe valere nei confronti di altri stati aspiranti, ad esempio, la Georgia e la Bielorussia se e quando giungerà l’ea post-Lukashenko.

Trump puntella Putin, ma quel pezzo di ordine politico internazionale che i due vanno con improvvisazione quasi inconsapevolmente costruendo guarda al passato. Nel bene, poco, l’equilibrio del terrore, che c’è stato; nel male molto, l’oppressione di tutta l’Europa centro orientale, dall’altra parte le mani libere sull’America latina, quel passato non può tornare. Sull’impero russo il sole è tramontato da tempo e l’America non tornerà grande come nel tempo in cui la Cina si rotolava nella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Suggerirei ai negoziatori in buona fede che risolvere temporaneamente e precariamente la guerra russo-ucraina, per quanto decisamente utile e importante non basterà in assenza di un pensiero lungo impostato su un nuovo decente ordine internazionale. La Cina non è abbastanza vicina.

Pubblicato il 17 dicembre 2025 su Domani

Pasquino:“Attori del disordine” #intervista @Key4biz Cina, Russia e India pronti alla nuova governance globale anche sulla tecnologia.

SCO 2025. Cina, Russia e India pronti alla nuova governance globale anche sulla tecnologia.

di Flavio Fabbri | 2 Settembre 2025

Il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai segna un passo in avanti nell’asse Pechino-Mosca-Delhi. Infrastrutture, materie prime, tecnologie e dazi americani ridisegnano gli equilibri globali, rafforzando la cooperazione asiatica e mettendo in discussione vecchi ordini. L’intervento di Gianfranco Pasquino.

Difficile dire quali saranno le conseguenze concrete del vertice dell’Organizzazione per la cooperazione tenutosi a Shangai. Per quel che sappiamo pare opportuno che il giudizio rimanga per metà sospeso e per metà meriti di essere piuttosto negativo. Certamente quegli stati e i loro leader non sapranno costruire un nuovo ordine mondiale. Hanno contribuito per insipienza e per prepotenza al disordine. Non hanno elaborato e diffuso idee sulle loro preferenze (ma qualche riprovevole fattaccio, sì). Non risolveranno il problema, ma continueranno ad essere parte cospicua di quel problema“, ci ha spiegato Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei, Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.

La dichiarazione di Tianjin sul “rispetto del diritto dei popoli a scegliere in modo indipendente e democratico i propri percorsi di sviluppo politico e socio-economico” è CLAMOROSAMENTE contraddetta – ha proseguito Pasquino – da un lato, dalla continuazione dell’aggressione russa all’Ucraina, dall’altro, dalle palesi mire della Cina su Taiwan nonché dalle modalità di “normalizzazione” di Hong Kong (da non dimenticare). Per di più, come opportunamente nota Flavio Fabbri, “Pechino reclama un ruolo chiave e di guida” (sicuramente non basato sul soft power) che, la Russia forse sarà costretta a riconoscere, ma che l’India proprio non può permettersi di accettare“.

Tutti o quasi guidati in maniera autoritaria, con l’eccezione democratica dell’India che Modi sta erodendo, gli stati firmatari condividono due caratteristiche fondamentali: un notevole livello di repressione e un alto grado di corruzione politica, economica, sociale. Su questi due pilastri non si costruirà nessun nuovo ordine internazionale. Anzi, ben presto emergeranno le contraddizioni nei comportamenti dei firmatari e nelle loro interazioni.
In maniera molto ingenerosa, si critica l’Europa per la sua assenza, quasi rassegnazione. Ma a che cosa? L’Unione Europea è impegnata su una pluralità di fronti in azioni di cooperazione allo sviluppo e di sostegno internazionale. Deve legittimamente astenersi da critiche esplicite a fenomeni incompiuti che non può in nessun modo condividere. La sua stessa esistenza e le sue attività mantengono accesa la torcia dei diritti umani e della democrazia. Lo sanno benissimo tutti i migranti che approdano sulle spiagge europee perché in Europa vogliono venire a vivere, lavorare, fare crescere i figli, persino tornare a fare politica
“, ha precisato Pasquino.

Quando nascerà un nuovo ordine internazionale decente post-liberale, alcuni dei governanti dello SCO avranno perso le loro cariche e, forse, i precedenti degli autoritarismi repressivi insegnano, anche la vita. Quel nuovo ordine non avrà nulla o quasi da spartire con le ambizioni egoiste, gli interessi particolaristici e gli opportunismi dei firmatari della dichiarazione di Tianjin.  Saranno i principi e i valori dell’Unione Europea a costituirne le fondamenta“, ha sottolineato Pasquino.

Per arrivare alla pace servono veri mediatori @DomaniGiornale

A nessuno sono note le capacità di mediazione del Presidente Trump. Al contrario, le sue esternazioni all’inizio del secondo mandato (tertium non datur!) hanno mostrato propensioni autoritarie e impositive che mal si conciliano, anzi, per niente, con gli assi portanti di qualsiasi mediazione minimamente efficace e produttiva. Infatti, i suoi maldestri passi non hanno finora prodotto nulla di positivo e molto di deprecabile. L’accettazione del cessate il fuoco, tra Russia e Ucraina e tra Netanyahu e Hamas, deve costituire senza se senza ma la premessa imprescindibile di un negoziato che conduca in tempi necessariamente non predefinibili ad una pace decente (sì, lo so che il mantra è “pace giusta e duratura”, ma non sembra funzionare). I mediatori non dovrebbero porsi nessun altro obiettivo né quello di ottenere il conferimento del Premio Nobel per la pace né quello della trasformazione delle spiagge della striscia di Gaza in una riviera internazionale di lusso. I desideri di Trump lo squalificherebbero fin dall’inizio come mediatore credibile se non fossero sostenuti dalla potenza militare gli USA e dalle dimensioni spropositate del suo ego. Quello che è da temere ancor più è la sua visione complessiva, espressa politicamente e visivamente nell’incontro in Alaska con l’autocrate Putin, di come ricostruire l’ordine internazionale, vale a dire con accordi bilaterali. Chi vuole mediare non deve stendere nessun tappeto rosso, meno che mai omaggiando l’aggressore né, naturalmente, deve continuare a vendere armi al governo israeliano.

Trump non è né il mediatore ideale né l’unico mediatore possibile anche se è inevitabile. L’Unione Europea ha l’obbligo politico e, lo scrivo con convinzione, morale di rivendicare un posto di rilievo al tavolo delle trattative. Lo può fare e deve cercare di farlo fin da adesso se le sue autorità, a cominciare dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri Kaja Kallas, prendono l’iniziativa. A quel tavolo dovrebbe essere presente e avere un ruolo anche il segretario generale delle Nazioni Unite. Però, sono consapevole che per le sue posizioni espresse in maniera imprudente e talvolta esagerata, Antonio Guterres è persona sgradita tanto a Zelensky quanto a Netanyahu (che gradisce solo se stesso).

La situazione generale dei due conflitti mi pare talmente grave, complicata, potenzialmente foriera di sviluppi ancora più drammatici da richiedere qualche innovazione che potrebbe essere sostenuta dai policy-makers di una pluralità di stati, anche, forse soprattutto, dai Volenterosi e dalle loro opinioni pubbliche. Non soltanto credo che sarebbe opportuno che a Putin e Zelensky e a Netanyahu e Hamas venisse chiesto di suggerire un certo, piccolo, numero di mediatori a loro graditi e nei quali hanno fiducia, ma anche che emergessero candidature autorevoli di personalità di indiscusso prestigio dotate di competenza in materia. Finora sono circolate idee vecchie, inadeguate, senza retroterra storico-culturale, talvolta essenzialmente desideri, non tutti pii, purtroppo alcuni piuttosto empi.

Più pensieri più proposte più soluzioni verranno affacciate meglio sarà e più probabile sarà trovare le strade da percorrere oggi e domani perché certo porsi anche il compito di evitare la riproposizione di conflitti simili è oramai imperativo.

    Tutto questo sembra un futuribile alquanto improbabile a sostegno del quale, peraltro, non sarebbe difficile sollecitare riflessioni condivise, valutazioni dei pro e dei contro, indicazioni che i protagonisti, da Trump ai governi in conflitto e ai loro sostenitori, siano in linea di principio disponibili a muoversi in questa mai sperimentata direzione che, peraltro, presenta, a mio parere, più opportunità che rischi. L’alternativa è sotto gli occhi di tutti: prosecuzione dei conflitti e dei massacri che creano anche situazioni peggiori nelle quali trattare e costruire futuri accettabili.

Pubblicato il 27 agosto 2025 su Domani

Senza una pace decente saremo noi a pagarne le conseguenze @DomaniGiornale

Per condurre a termine “l’operazione militare speciale” lanciata il 24 febbraio 2022 dall’autocrate Vladimir Putin contro lo stato sovrano e democratico dell’Ucraina, molti commentatori e politici occidentali affermano che è necessaria una “pace giusta e duratura”. Divenuta una sorta di mantra, anche nel lessico del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’affermazione, altamente problematica, esige, per non rimanere un neppure abbastanza pio desiderio, approfondimenti e chiarimenti. La pace, parola di cui troppi si riempiono la bocca, sarà soltanto una parentesi di silenzio delle armi e di volo dei droni prima di un’altra guerra, mi correggo, di una nuova “operazione militare speciale”? Più concretamente, quale significato ha pace nel linguaggio di Putin e del Cremlino? Saranno forse i due aggettivi, giusta e duratura, a definire in qualche misura il sostantivo?

   Definizioni accettabili condivise/ibili sono molto di più che “operazioni lessicali speciali”. Non solo in guerra, la propaganda definisce la situazione, (la bontà de-)gli obiettivi, i risultati conseguiti e, naturalmente, le modalità accettabili di conclusione. Per ragioni poi non del tutto differenti, Trump e Putin intendono esibire la loro capacità di porre fine all’uso delle armi in Ucraina. Trump dimostrerebbe che la sua America è già tornata grande sullo scacchiere internazionale, mentre gli europei si sarebbero, a suo parere, dimostrati inadeguati a mettere ordine sul loro stesso territorio. La Russia può ben rimanere un avversario, ma viene da Trump portata al tavolo delle trattative stabilendo una sorta di duopolio di potere nel contesto europeo. Naturalmente, Trump non dimentica che un bravo tycoon si cura anche e molto dei suoi affari. Insomma, ai russi verranno concesse la Crimea e altre zone già occupate, mentre all’America sarà garantito accesso alle terre rare e al loro sfruttamento. Giusto così? sarebbe questa una pace giusta?

   Senza la partecipazione di ZeIensky ai negoziati e senza il suo, per quanto doloroso, assenso, nessuna pace di questo genere può essere definita giusta. A maggior ragione non può esserla se contempla il quasi totale conseguimento degli obiettivi militari e imperiali di Putin. Finire la guerra in questo modo non significa affatto pace giusta, ma pace imposta e tutta a carico e a spese del paese aggredito, dei cittadini dell’Ucraina democratica. Sarebbe il riconoscimento della sconfitta sul campo, tuttora non avvenuta, e addirittura una sorta di pagamento con territori e terre rare per una responsabilità sostanzialmente inesistente.

   Non è detto che automaticamente le paci ingiuste siano destinate a non durare, essere precarie e effimere. Tuttavia, il disonore di una pace ingiustamente imposta all’Ucraina avrebbe conseguenze molto gravi sull’Unione europea, su come si è storicamente concepita: spazio di libertà, di diritti, di abolizione del ricorso alle armi, di apertura, e su come si è evoluta ed è diventata attrattiva per i molti Stati che hanno fatto e continuano a fare domanda di adesione. L’Unione europea deve difendere i suoi principi e i suoi valori fondanti, a maggior ragione a fronte di mire imperialiste di qualsiasi tipo e impronta. Defend Europe contiene tutte queste implicazioni. Non è solo una questione territoriale. Riguarda stili di vita, valori, cultura politica e democratica. Nessuna pace che voglia essere giusta e quindi possa diventare duratura può prescindere da questi valori, meno che mai contraddirli e sbarazzarsene. In attesa di conoscere come Trump e Putin intendono declinare gli aggettivi “giusta” e “duratura”, è opportuno ricorrere ai valori europei e usarli per intraprendere e tenere aperta la strada di una pace decente.

Pubblicato il 30 aprile 2025 su Domani

L’Europa si difende con una politica condivisa e un esercito comune @DomaniGiornale

Lentamente, gradualmente, senza volerlo, ma inesorabilmente, l’Ucraina è diventata la cartina di tornasole di quello che è bene e che è male nelle conoscenze, nelle interpretazioni e nelle azioni concrete dei capi dei governi e dei partiti, delle opinioni pubbliche, degli intellettuali e, non da ultimi, degli elettorati, occidentali e no. Sono prepotentemente (ri)emersi i grandi temi di un ordine internazionale giusto, della guerra e della pace, della democrazia e degli autoritarismi, dei rapporti fra potere politico e potere economico, e della sovranità delle nazioni e dell’unificazione politica dell’Europa. Rispetto a nessuno di questi temi è accettabile rimane indifferenti e neppure dichiararsi equidistanti. Chi lo ha fatto e continua a farlo, da un lato, dimostra di avere conoscenze inadeguate, dall’altro, tenta di manipolare il dibattito e l’opinione pubblica.

Sostenere che la Russia non ha aggredito l’Ucraina oppure che l’ha fatto perché provocata significa non conoscere i precedenti comportamenti russi con i paesi confinanti e mettere sullo stesso piano eventuali provocazioni (la Nato che “abbaiava” ai confini russi) con la pesante riposta armata russa. Non capire che la Russia può impegnarsi in una guerra e continuarla praticamente senza restrizioni significa non sapere che i regimi autoritari non trovano nessun freno nella loro opinione pubblica la quale, in effetti, non può liberamente formarsi in quanto tale e, meno che mai, esprimersi.

Chiedere la pace, come semplice cessazione delle ostilità e, probabilmente, riconoscimento delle posizioni acquisite sul territorio, non è tanto un comportamento realistico quanto piuttosto un premio all’aggressore-invasore. Non è una pace giusta. Non è neppure una pace duratura. L’aggressore non si fermerà e coloro che subiscono lo stato di oppressione/repressione vi si opporranno appena e ogniqualvolta ne avranno l’opportunità.

Qualsiasi ordine internazionale si basa anche sulla possibilità del ricorso, in ultima istanza, all’uso delle armi. Il pacifismo individuale personale è una posizione nobile per chi è disposto pagarne il prezzo. Nessuna nazione può permettersi il lusso del pacifismo nel mondo contemporaneo (e in quello che verrà prossimamente). I dirigenti politici che lucrano qualche voto ponendosi su posizioni pacifiste insostenibili da qualsiasi governo europeo indeboliscono consapevolmente anche l’azione di coloro che cercano la pace.

Non sono sicuro che quanto proposto dalla Presidente della Commissione dell’Unione Europea debba essere definito “riarmo”. So che i due cardini della sovranità delle nazioni sono storicamente stati simbolizzati dalla feluca degli ambasciatori e dalla spada dei militari. Autonomia della politica estera e autosufficienza della politica di difesa. La nazione Europa, di cui troppo spesso vengono denunciati ritardi talvolta inesistenti, deve muoversi in entrambe le direzioni. Sta riprendendo un cammino, quella della difesa comune, drammaticamente interrotto nel 1954 quando nell’Assemblea nazionale francese i sovranisti gollisti sommarono i loro voti con quelli dei comunisti stalinisti per affondare la Comunità Europea di Difesa.

Sicuramente, è lecito argomentare modalità diverse con le quali reclutare, formare, finanziare e sostenere un esercito comune europeo, ben oltre la sommatoria di qualche soldato “nazionale” in più. Sarebbe preferibile che i gruppi parlamentari europei argomentassero e esprimessero posizioni condivise, non come hanno fatto i rappresentanti dei Democratici italiani sparsi su “sì”, “no”, astensione, e la loro segretaria che prende le distanze dalla posizione della maggioranza che è ufficialmente a sostegno della Presidente della Commissione. Infine, sarebbe auspicabile che, a dimostrazione che la Presidente del Consiglio italiana vuole una pace giusta in Ucraina, non sembrasse neppure lontanamente credere che un accordo Trump-Putin andrà nella direzione desiderabile, rispettosa dei diritti dell’Ucraina.

Costruire la pace, non solo in quella zona, ma anche nel tormentato Medio-Oriente, è un compito arduo al quale soltanto un’Europa credibilmente capace di provvedere autonomamente alla sua difesa potrà contribuire. Entrambi i piedi dei fautori dell’Europa che preserva la pace debbono stare sul territorio europeo.

Pubblicato il 12 marzo 2025 su Domani

Dalla Germania ottime notizie. L’Ue unita fa paura a Trump @DomaniGiornale

Troppo semplicistico sostenere che l’Unione Europea si trova fra due fuochi: uno, quello amico, che viene da un leader democraticamente eletto, Trump, che spara a casaccio; l’altro, sicuramente nemico, che viene da un autocrate repressivo e sanguinario, Putin, che ha una strategia di corto respira, ma chiara e pericolosa.  Poi, dentro i singoli Stati-membri dell’Unione Europea covano altri fuochini e fuocherelli, nazionalisti, sovranisti, xenofobi, che mirano ad indebolirla fino a disgregarla, con qualche recupero di sovranità nazionali, magari nella difficile forma di una Confederazione, comunque un passo indietro.

Liste, fronti, partiti che, esibendo obiettivi autoritari che discendono da un passato che non è mai passato, sfidano apertamente, come solo in contesti democratici è lecito e possibile fare, sono stati finora, con qualche eccezione, esclusi dalla partecipazione al governo. Brandmauer, firewall, cordone sanitario, ma non bisogna dimenticare l’italica conventio ad excludendum, sono le parole usate per giustificare il rifiuto che i partiti democratici oppongono a chi le regole e i valori democratici dichiara di volere sfidare e schiacciare. Secondo alcuni commentatori sarebbe un errore non dare spazio agli oppositori, non dei governi, ma della democrazia in quanto tale. Ho un qualche ricordo che l’addomesticamento attraverso l’accesso al governo dei fascisti e dei nazisti non funzionò, produsse disastri. D’altronde, le coalizioni di governo, come dimostrerà anche il prossimo cancelliere tedesco, non sono un banale affare di numeri, ma si formano con riferimento alla vicinanza politica, almeno sui valori, alle esperienze vissute, e alla compatibilità programmatica.

Nell’Unione Europea si entra soltanto se il sistema politico rispetta le regole democratiche e, requisito non disprezzabile, se il sistema giuridico non contiene, non consente e non applica la pena di morte. No, gli USA di Trump non potrebbero diventare il 28ottesimo Stati della UE, ma il Canada sì (e l’Ucraina anche). Certo, un regime duramente autoritario come la Russia e una repubblica presidenziale possono mostrare capacità decisionali, ovvero di prendere decisioni in tempi brevi, superiori a quella di una federazione di Stati, ma, come già emerge nel contesto trumpiano, l’applicazione e l’attuazione di decisioni frettolose, talvolta di dubbia legalità, sono difficili e controverse. Certamente e inevitabilmente più lenta, l’Unione Europea ha comunque finora dimostrato, quando era necessario, di saper ergersi all’altezza della sfida. Se necessario, la pratica democratica, che non ha nulla a che vedere con diktat imperiosi, imperiali, imperialisti, consentirà di aprire trattative con Putin e con Trump.

Molto, adesso, dipende dalla rapidità con cui il democristiano Merz, prossimo cancelliere tedesco riuscirà a rilanciare quell’accordo con la Francia, già cruciale nel passato, per il quale il non ancora troppo debole Presidente Macron è tanto inevitabilmente quanto convintamente disponibile. Con più ampio, più esteso e più approfondito coordinamento in una pluralità di settori, a cominciare dagli armamenti a proseguire con la tecnologia e l’industria, con il sistema di tassazione fino al completamento del mercato unico, per il quale le proposte di Mario Draghi e Enrico Letta hanno risposte decisive, l’Unione Europea ha grandi inesplorate opportunità. Non sarà nessuna autonominatasi pontiera, s’illudono i sostenitori di Giorgia Meloni, con gli USA di Trump e delle sue politiche commerciali, a fare sfruttare al meglio queste opportunità. Sovranismi, anche soft, nazionalismi, xenofobie sono tutti palle al piede di un’Unione che può correre e crescere. Una Unione più veloce è possibile grazie alle sue risorse e allo snellimento delle sue procedure democratiche. Hic Bruxelles hic salta.

Pubblicato il 26 febbraio 2025 su Domani

Il disordine mondiale e le chance dell’Europa @DomaniGiornale

Il problema del nuovo disordine politico internazionale è che, per fattori strutturali e fattori contingenti, non esiste nessuno in grado di prendere l’iniziativa. In subordine, ma di poco, i due conflitti più gravi sono nelle mani di uomini che sanno che il loro futuro politico dipende dal quando e dal come le “loro” guerre (operazioni militari speciali, però, non dello stesso tipo) termineranno. Per quanto sostenere che gli USA sono una potenza oramai declinata sia eccessivo (e prematuro), non c’è dubbio che il fattore strutturale più importante nel disordine mondiale è l’incapacità degli USA di tornare a svolgere un ruolo quasi egemonico. Il fattore contingente, ovvero la campagna elettorale presidenziale, una volta conclusasi, fa poca differenza chi vincerà, non avrà comunque quasi nessun effetto strutturale risolutivo. Neppure ridurrà l’incertezza.

   La Cina è e sembra voler rimanere un attore importante senza assumersi nessun ruolo “ricostruttivo”. La sua espansione è lenta, continua, ma non ha di mira un nuovo ordine, semmai un riequilibrio di potere più marcato a scapito degli USA. Potremmo cercare di gettare la croce sull’Unione Europea, ma significherebbe credere, sbagliando, che l’UE abbia risorse tali da farne una Superpotenza, oggi e domani. Prendere atto che non è e non potrà essere così non condanna all’impotenza. Al contrario, suggerisce la necessità di un maggiore e meglio coordinato impegno comune fra gli Stati-membri. Stigmatizzare l’ordine sparso degli europei deve accompagnarsi alla prospettazione di iniziative diplomatiche rapide e vigorose.

Netanyahu non porta la responsabilità di avere scatenato una guerra di aggressione come quella di Putin contro l’Ucraina, ma tutti sanno che non potrà rimanere capo del governo un minuto dopo la cessazione del conflitto con Hamas e con i suoi troppi sostenitori in Medio-Oriente e dintorni. È anche lecito pensare che, per quanto difficilissima, la sua sostituzione in corso d’opera avvicinerebbe una tregua produttiva. La, al momento assolutamente improbabile, sostituzione di Putin potrebbe condurre all’apertura, voluta da quella parte del gruppo dirigente russo che teme la satellizzazione in corso a vantaggio della Cina, di una nuova fase diplomatica (lo scambio di uomini e donne fra Russia e USA non è stato accompagnato da nessun tipo di riflessione aggiuntiva? Non è stata seguita da nessuna presa d’atto che si può andare oltre, con vantaggi reciproci?) con esiti imprevedibili, vale a dire tutti da scoprire e fronteggiare.

Vedremo presto se la nuova Alta Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione, Kaja Kallas, già primo ministro dell’Estonia, riuscirà a dare vigore alla voce e alla presenza dell’Unione, dei suoi ideali e dei suoi interessi, nel sistema internazionale. Gli ostacoli sono molti a cominciare da quelli che in modo diverso frappongono alcuni capi di governo europei: Orbán che si esibisce in una sua personale diplomazia, Macron con la sua interpretazione del ruolo insubordinabile della Francia, Giorgia Meloni che punta molto, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, su rapporti bilaterali che le danno più visibilità che sostanza (e lei lo sa).

Anche nelle relazioni internazionali la pur comprensibile fretta a fronte dei massacri è cattiva consigliera. Poiché, però, sappiamo che quel che cambierà a Washington dopo il 5 novembre imporrà a tutti i protagonisti di riposizionarsi, sarebbe molto opportuno se in Italia e nell’Unione Europea si manifestasse fin d’ora un forte impegno alla elaborazione di una pluralità di scenari alternativi. Meno lamentazione più immaginazione è il minimo che si possa chiedere.

Pubblicato il 7 agosto 2024 su Domani

Perché la CEI boccia il premierato? È tempo di confronto (anche pubblico) @formichenews

Quando il Papa e i vescovi esprimono le loro posizioni, non in materia di fede, ma nel campo largo della politica, non è solo opportuno, ma anche produttivo confrontarsi apertamente con quelle posizioni? La non solo mia idea di pluralismo è che il confronto fra più affermazioni, fra più posizioni, più soluzioni è essenziale, costitutivo e decisivo in qualsiasi regime democratico. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza politica

Molti nemici molto onore”. Fiera della sua tradizione così avrebbe già dovuto rispondere Giorgia Meloni alle dichiarazioni, “prudenza nel toccare gli equilibri costituzionali”, del Cardinale Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) da quasi tutti interpretate come fortemente critiche del premierato. Oppure, forse, il “chisseneimporta” pronunciato in tv ospite di Monica Maggioni relativamente al possibile esito negativo del referendum costituzionale vale anche per le opinioni dei vescovi.

    Qui non mi interessa tanto parlare della luna, ovvero del premierato, ma del dito, quello dell’attivissimo, presenzialista Cardinale Zuppi. Reduce dalla sua missione di pace in Russia, dove, presumo (ahi le mie “degenerazioni” professionali) avrà fatto valere le sue letture e conoscenze scientifiche su guerra e pace, mettendo in guardia Putin dal scivolamento verso la Terza Guerra Mondiale (lasciamo l’Ucraina alla Russia come abbiamo lasciato i Sudeti alla Germania nazista: appeasement), Zuppi e i suoi vescovi si fanno ingegneri costituzionali. No, no chiederò quali libri/articoli scientifici hanno letto in materia e neppure quali esperti hanno consultato, meglio non quelli, laici, progressisti, che dicono che il Papa è l’unico che capisce tutto, prima di tutti. Il problema che voglio porre è quello del dibattito pubblico, in pubblico.

   Quando il Papa e i vescovi esprimono le loro posizioni, non in materia di fede, ma nel campo largo della politica, non è solo opportuno, ma anche produttivo confrontarsi apertamente con quelle posizioni? Il silenzio è talvolta accettazione, più spesso indifferenza e servilismo. La non solo mia idea di pluralismo è che il confronto fra più affermazioni, fra più posizioni, più soluzioni è essenziale, costitutivo e decisivo in qualsiasi regime democratico. Quindi, se gli ecclesiasti si occupano di tematiche sociali, economiche, internazionali, Unione Europea compresa, politiche e costituzionali, le critiche a quanto esprimono sono non soltanto legittime, ma auspicabili e persino doverose. “Sia il nostro parlare ‘sì, sì’, ‘no, no’”. Nutro molti dubbi sulla chiusa: “il di più viene dal Maligno”. Al contrario, il Maligno preferisce il non detto nel quale fa proliferare per l’appunto l’indicibile, le più strane oscure e confuse commistioni.

   Sono andato troppo in là, inaccettabilmente? Attendo il contraddittorio che certamente servirà a chiarire le modalità e gli eventuali limiti alle dichiarazioni episcopali e papali. Personalmente, riservandomi il diritto di critica, di limiti non ne porrei. Chiedo chiarezza, confronto, argomentazione e trasparenza. Con spirito di servizio. Anche alla politica.

Pubblicato il 28 maggio 2024 su Formiche.net

Pace e definizioni* #paradoxaforum

Che il 2024 sia l’anno della pace è tanto auspicabile quanto improbabile.  I due conflitti attualmente in corso: l’aggressione della Russia all’Ucraina e la risposta di Israele all’attacco terroristico di Hamas, non appaiono destinati a terminare in tempi brevi. E, poi, quale pace? Troppi parlano di pace avendo in mente e di mira la semplice cessazione dello scontro armato. Tacciano le armi. Ma, no. La pace che i generali di Napoleone gli comunicarono avere insediato a Varsavia era eretta sulle ceneri e sulle macerie di quella città. No, nessuno ha diritto alla sua definizione di pace.

   Talvolta, alcuni commentatori e persino, non sempre, il Papa aggiungono al sostantivo pace l’aggettivo giusta. Purtroppo, quasi nessuno si esercita nel dare contenuto a quell’importante, decisivo aggettivo, a definirlo con precisione. Però, la storia della riflessione su guerra e pace ha ricompreso anche come e quando una pace possa e debba considerarsi giusta. Neppur troppo paradossalmente, sembra molto più facile stabilire/definire quando la pace raggiunta è ingiusta. Chi vince impone le sue condizioni: controllo del territorio, dei perdenti e delle loro attività almeno per un certo periodo di tempo; risarcimento dei costi e dei danni di guerra; creazione di un governo amico, vassallo. Pace pagata a caro, spesso eccessivo prezzo da chi è stato sconfitto. Alcuni ricordano che il grande economista inglese John Maynard Keynes criticò nel suo libro Le conseguenze economiche della pace per l’entità irragionevole delle sanzioni economiche imposte ai tedesche. La rivolta contro quelle sanzioni costituì uno dei punti di forza del nazismo nel mobilitare e espandere i suoi sostenitori. Nel caso che riguarda Ucraina e Russia, la richiesta di non pochi “pacifisti” che gli ucraini accettino di cedere parte del loro territorio ai russi in cambio della fine delle ostilità configurerebbe certamente, non solo a mio modo di vedere, una pace ingiusta. Darebbe corpo e modo a un pericolosissimo precedente di cui si farebbero forti altri potenziali aggressori, in primis, la Cina di Xi riguardo a Taiwan.

Chiarita una delle possibili manifestazioni/definizioni di pace ingiusta, rimane da interrogarsi più a fondo sulle qualità indispensabili a configurare e conseguire una pace giusta (gli aggettivi, “giustificata” e “giustificabile” meriterebbero un approfondimento qui non possibile). Sarò assolutamente drastico: giusta può essere la pace che gli aggrediti sono liberamente disposti ad accettare. Comunque, qualsiasi compromesso deve partire dalle esigenze espresse dagli aggrediti e tenerle in grandissimo conto. Quella pace faticosamente conseguita deve essere tale da proiettarsi nel futuro, da diventare, secondo la memorabile espressione di Immanuel Kant, una pace perpetua.

Nel dibattito contemporaneo troppo spesso non vi è sufficiente attenzione al regime politico dei paesi che scatenano le guerre. Da almeno una cinquantina d’anni, gli studiosi di relazioni internazionali hanno accumulato abbastanza dati e prodotto riflessioni sufficienti a suffragare la generalizzazione che “le democrazie non si fanno la guerra fra loro”. Certo, anche le democrazie combattono guerre che non sono giustificabili, guerre coloniali e neo-coloniali. Però, risolvono le differenze di opinione, valutazione, aspettative e prospettive che intercorrono fra loro, non con le armi, ma con i negoziati. Dunque, l’implicazione è cristallina: per ridurre le probabilità che si proceda a conflitti armati è imperativo ampliare l’area delle democrazie. La pace perpetua di Kant comincia e si fonda sull’esistenza di Repubbliche (il termine allora prevalente per designare regimi “democratici”) che vogliono “federarsi” e sanno come farlo. Operando per la costruzione di regimi democratici in Russia e in Palestina si agisce anche per la comparsa e l’affermazione di quella pace che, sola, offre la garanzia di durare. Il resto sono vane parole, malvagia retorica.  

 *Il riferimento al titolo del libro di Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni (Bologna, il Mulino, 1957) è del tutto consapevole e voluto.

Pubblicato il 8 gennaio 2024 su PARADOXAforum

L’arma decisiva delle opinioni pubbliche @DomaniGiornale

Le opinioni pubbliche da sole non vincono le guerre. Possono, però, farle perdere. Senza il sostegno dell’opinione pubblica ucraina e delle opinioni pubbliche europee e degli USA, il Presidente Zelenski avrebbe già dovuto cedere all’aggressione russa. Se in Russia fosse possibile la formazione di un’opinione pubblica, Putin avrebbe incontrato fin dall’inizio molte difficoltà a lanciare la sua “operazione militare speciale”; ancora più numerose difficoltà avrebbero fatto la loro comparsa nel mantenerla di fronte agli evidenti insuccessi. Da parte di Putin impedire e bloccare le informazioni su quel che (non) succede sul territorio ucraino è la logica conseguenza tanto del suo autoritarismo quanto del timore di reazioni ad opera dell’opinione pubblica che ricevesse quelle informazioni.

   Prima dell’assalto di Hamas, l’opinione pubblica in Israele era profondamente divisa tra sostegno e critiche al governo Netanyahu e allo stesso Primo ministro. La guerra ha prodotto un riallineamento immediato, ma temporaneo, a sostegno delle attività militari con le quali punire Hamas e garantire la sicurezza dello stato di Israele e la vita dei suoi cittadini. Rimane o, meglio, è emerso anche un dissenso su fino a che punto debba arrivare la rappresaglia israeliana, parte dell’opinione pubblica obiettando a misure contro i civili ritenute eccessive e molto criticate non solo da intellettuali di prestigio. Non sono esclusivamente quelle misure, che continuano e non è possibile prevedere quando finiranno a quale prezzo per la popolazione civile di Gaza, ad avere spinto larga parte delle opinioni pubbliche non europee, ma pure occidentali, ad esempio, in America latina, a schierarsi fondamentalmente a favore dei palestinesi, spesso ricomprendendovi, non a torto, il braccio armato Hamas, e maggioritariamente contro Israele. Al proposito, la distinzione che, pure, bisogna sapere e volere fare fra antisionismo e antisemitismo viene sostanzialmente meno.

 In buona parte quelle opinioni pubbliche, più o meno non-democratiche, ma, ad esempio, Brasile, India, Sudafrica sono regimi democratici, si sono espresse a favore dei palestinesi e di chi lotta per loro anche con le armi. Militarmente è molto probabile che Israele consegua i suoi obiettivi in tempi che forse avrebbe preferito più brevi. Tuttavia, ristabilire la situazione, tutt’altro che ottimale, che esisteva prima del 7 ottobre non garantisce affatto la sicurezza e la vita degli israeliani e del loro Stato. Quelle opinioni pubbliche “internazionali”, nelle quali, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, serpeggia sempre una notevole dose di antiamericanismo, non dismetteranno le loro valutazioni negative su Israele, se non addirittura le rafforzeranno. In vista di qualcosa che sia più, molto più delle tregue e degli armistizi spesso serviti e seguiti da conflitti più sanguinosi, il governo di Israele dovrebbe, forse, procedere ad una de-escalation accompagnata da una offensiva diplomatica estesa e di grandi dimensioni.

   L’autocontrollo sul campo nell’attacco a Gaza e quindi il favorire tutte le operazioni umanitarie necessarie debbono essere rivendicati molto più che come semplici segnali, ma come azioni concrete per aprire la strada ad un dopoguerra di accordi. Agli israeliani non manca l’intelligenza politica per capire che questo ennesimo conflitto è di tipo superiore ai precedenti e che la vittoria sul campo non sarà sufficiente. L’obiettivo deve essere, con l’aiuto degli europei e, in misura reale, ma meno visibile, degli USA, riuscire ad influenzare profondamente, in maniera decisiva le opinioni pubbliche occidentali e soprattutto fuori occidente. Sarebbe/sarà un esito positivo anche in un’ottica globale.

Pubblicato il 25 ottobre 2023 su Domani