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Il disordine politico nei regimi e nelle democrazie #Disordine @AgenziaAREL 1/2022


Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei. Ha scritto numerosi libri fra i quali Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021) e Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).
Il disordine politico nei regimi e nelle democrazie
“Bellum omnium contra omnes”
(Thomas Hobbes, Leviatano, 1651).
“The wealthy bribe; students riot; workers strike; mobs demonstrate; and the military coup.”
(Samuel P. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven and London,
Yale University Press, 1968, p. 196).
Quello che apprezzo maggiormente in queste due definizioni di disordine politico è la loro icasticità. Entrambe colgono la sostanza in maniera fulminea, esemplare. In una guerra civile, quella sotto gli occhi di Hobbes, tutti combattono contro tutti. Nel corso di un processo di modernizzazione socio-economica e di sviluppo politico che non riesce a dare frutti, che delude le aspettative crescenti, che si inabissa in frustrazioni, tutti fanno ricorso alle risorse di cui dispongono. Il disordine politico non è solo insostenibile; diventa insuperabile. Per Hobbes sarà lo Stato nelle sembianze del Leviatano, grande mostro marino dotato di forza spaventosa, a porre fine alla guerra civile e a imporre l’ordine politico. Per Huntington, quell’ordine politico potrebbe nel lungo periodo riuscire ad affermarsi attraverso alcuni complessi processi di istituzionalizzazione di regole, procedure, organizzazioni. Nel breve periodo può essere imposto da un partito unico di stampo leninista oppure, come è evidente nella citazione, da un governo militare esito di un colpo di stato. Tuttavia, che i militari golpisti riescano poi a trasformarsi in costruttori di istituzioni e di ordine politico, rimane/è rimasto tutto da vedere. Troppi casi latino-americani smentiscono le aspettative ottimiste. Altrove, la democrazia seguita al lungo dominio dei militari in Indonesia (1965-1998), per quanto resa possibile dai loro comportamenti, non è stata da loro costruita. I regimi militari pluridecennali in Egitto e in Birmania hanno prodotto un ordine politico talvolta sfidato, basato su repressione e oppressione.
Che gli uomini (e le donne) abbiano cercato nel corso del tempo di ridurre i rischi e di dominare le incertezze della vita nella polis (e fra le città diventate sistemi politici: il bellum omnium contra omnes nel sistema internazionale) è accertabile e accertato. Rimando ai due notevoli libri scritti sulla scia di Huntington da Francis Fukuyama: The Origins of Political Order From prehumnan times to the French Revolution e Political Order and Political Decay. From the industrial revolution to the globalization of democracy (entrambi New York-London, Farrar, Straus and Giroux, rispettivamente 2011 e 2014). Che siano sempre esistite situazioni di più o meno grande disordine politico è facile constatarlo. Mi ci cimenterò fra breve. Per iniziare ritengo sia indispensabile procedere ad alcune distinzioni analitiche cruciali. Prima distinzione: il dissenso, comunque espresso, a meno che si manifesti con la violenza, non deve essere considerato disordine. Seconda distinzione: repressione e oppressione, che abitualmente comportano l’uso della violenza, non configurano ordine (politico). Anzi, spesso sono addirittura intese a mantenere il disordine politico creando angoscia e terrore nella popolazione. Terza distinzione: oltre al disordine politico cattivo, distruttivo, hobbesiano, può esistere un disordine politico buono, ovvero creativo, quello che sprigiona energie e spinge al cambiamento. Ovviamente, deve sapere conseguire quel cambiamento inserendo quelle energie in regole e istituzioni che diano sicurezza e si traducano in prevedibilità e ordine. Infine, quarta e ultima distinzione: molti disordini politici nazionali co-esistono insieme al disordine politico internazionale. Esplorarne le connessioni e comprenderne le condizioni è un compito tanto difficile quanto necessario (e viceversa).
Non sono in grado di risolvere il dilemma se in principio sia stato il verbo oppure il caos. Però, tutti sappiamo che Babele fu uno straordinario crogiolo di disordine, non soltanto per la pluralità delle lingue. Colgo l’occasione per segnalare che il pluralismo, soprattutto quello competitivo sul quale si reggono le democrazie, anche quelle che non funzionano in maniera eccellente, sempre comporta una modica dose di disordine politico. Per temperare, mai distruggere questa dose di disordine politico, mi pare imperativo guardare alle fonti. Un sistema politico (A Systems Analysis of Political Life, New York, John Wiley & Sons, 1965), scrisse e argomentò più di cinquant’anni fa David Easton, professore di Scienza politica nell’Università di Chicago, ha tre componenti fondamentali: le autorità, il regime, la comunità. Ciascuna è soggetta a cambiamenti più o meno frequenti e profondi che possono causare squilibri e quindi produrre disordine politico.
La comunità, ovvero tutti coloro sottoposti al principio essenziale dell’osservanza delle decisioni formulate dalle autorità, è raramente soggetta a cambiamenti sostanziali. Tuttavia, proprio perché i cambiamenti nella comunità sono infrequenti è probabile che, se e quando avvengono, rivelino di essere tanto l’esito quanto il prodromo di disordine politico. Tralascerò di riferirmi a tutti i casi nei quali la comunità è fin dall’inizio “in disordine” poiché composta, come in molti casi africani, dalla Nigeria al Kenya, dal Congo al Sudan, nel Rwanda Burundi, dimostrano, da gruppi etnici in contrasto fra loro. Prendo come esempio assolutamente significativo quello della (cosiddetta!) Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Il suo stato di evidente disordine politico, mai posto sotto controllo nonostante l’alto livello di irreggimentazione e repressione, simboleggiato dalla costruzione del Muro, sfociò nella emigrazione di massa. I tedeschi orientali votarono, avrebbe detto Lenin, con i piedi abbandonando il paese. Exit secondo l’interpretazione formulata molti anni prima dal grande studioso ebreo antinazista emigrato negli USA Albert O. Hirschman (Exit, Voice, and Loyalty, Cambridge, MA, Harvard University Press 1970, trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Milano, Bompiani, 1982). Quel disordine venne ricomposto nella praticamente fulminea riunificazione tedesca (ottobre 1990) a dimostrazione tanto della capacità delle autorità della Repubblica federale tedesca, a cominciare dal cancelliere Helmut Kohl, che merita di essere ricordato, quanto della solidità del regime della Repubblica federale tedesca (v. infra).
Appena, ma in maniera più che interessante, diverso è il discorso sulla nascita della Quinta Repubblica francese. Classico esempio di democrazia parlamentare, la Quarta Repubblica francese (1946-1958) ebbe fin dall’inizio un serio problema di legittimità delle autorità e del regime. Approvata, come subito dichiarò ruvidamente il Gen. De Gaulle, à la minorité des faveurs (contrari e astenuti furono ben più dei favorevoli nel referendum popolare del 1946), la sua Costituzione divenne preda del régime des partis (cito ancora de Gaulle) e si rivelò ampiamente inadeguata. Per quanto non (ri)compresa nei termini che vado a evidenziare, la drammatica questione algerina toccava in pieno la comunità politica francese. Infatti, l’Algeria non era una colonia, ma faceva parte della Francia Metropolitana. Nella Quarta Repubblica, quindi, il disordine politico riguardò tutt’e tre le componenti del sistema politico, in un ordine di importanza mutevole e mutato nel corso del tempo: regime, autorità, comunità con quest’ultima che dal 1956 andò ad occupare il primo posto come produttiva e responsabile del disordine politico che finì per travolgere la Quarta Repubblica. Concessa l’indipendenza all’Algeria, non potevano essere le autorità della Quarta Repubblica a produrre un nuovo ordine politico per il quale il regime esistente era palesemente inadeguato. Il gravoso compito toccò a de Gaulle che seppe svolgerlo in maniera egregia dando vita a una Repubblica, la Quinta, chiaramente migliore, più funzionale, capace di produrre e mantenere ordine politico. In questa chiave è anche opportuno ricordare che la sfida del Sessantotto, più o meno festoso esempio di disordine politico, venne risolta da de Gaulle con il ricorso anticipato alle urne che nel giugno 1968 consegnarono alla coalizione fra i gollisti e i Repubblicani Indipendenti una tanto rara quanto ampia maggioranza parlamentare assoluta.
Mi sono deliberatamente soffermato su due casi europei, a mio parere di straordinaria importanza, che hanno riguardato il disordine politico a partire dalla comunità e il ristabilimento dell’ordine politico anche, Francia, con un fondamentale cambio di regime. Pertanto è giusto e opportuno che l’attenzione vada ora indirizzata al regime. A formare un regime concorrono le regole, le procedure, le istituzioni, tutto quanto può anche essere definito la Costituzione. Non è, naturalmente, vero che qualsiasi dibattito e qualsiasi critica e neppure qualsiasi violazione delle regole, delle procedure, delle modalità di funzionamento delle istituzioni configuri automaticamente una situazione di disordine politico. Per aversi disordine politico è necessario che quelle violazioni siano frequenti, che vengano attuate deliberatamente e rivendicate orgogliosamente, ad opera di una pluralità di gruppi/attori che affermano di ritenere il regime inadeguato e intendano sfidarlo con l’obiettivo di sostituirlo. Si caratterizzerebbero, nel lessico di Giovanni Sartori, come attori anti-sistema i quali, se fosse loro possibile, per l’appunto cambierebbero il sistema. Sono l’intensità e l’insistenza delle critiche e delle violazioni, ampiamente pubblicizzate a produrre difficoltà nel funzionamento del regime e quindi ad aprire la strada all’avvento e al prolungamento del disordine politico. Alla individuazione di casi di effettivo disordine politico non sono sufficienti votazioni parlamentari numerose e inconcludenti, scontri fra sostenitori delle parti contrapposte, critiche al limite del vilipendio delle istituzioni e dei detentori delle cariche istituzionali, tutto deprecabile, ma controllabile e riconducibile nei binari della, ancorché brutta, politica.
La politica degli USA aveva già mostrato un volto inquietante con il Watergate (1972-1974) quando il Presidente repubblicano in carica Richard Nixon operò per manipolare l’opinione pubblica e in seguito anche il sistema giudiziario. Quei due anni di pericoloso disordine politico impallidiscono se messi a confronto con la sfida alle regole del gioco elettorale e istituzionale portata dai sostenitori di Donald Trump con il clamoroso, sconvolgente assalto al Campidoglio di Washington, D.C., il 6 gennaio 2021. Tentare di stravolgere con la violenza le regole del gioco elettorale dalle quali deriva la legittimità della carica più alta di Stato e di governo in una Repubblica presidenziale comporta la produzione del massimo livello di disordine politico, in questo caso, al limite del sovvertimento costituzionale. Avrebbe avuto come conseguenza immaginabile una lunga fase di altrettanto disordine politico dalla conclusione quanto mai incerta e imprevedibile nei tempi e nei modi. In generale, il disordine politico scatenato dalle autorità è abbastanza raro poiché le autorità sono spesso in condizione di strumentalizzare in maniera più soft il disordine esistente per determinare i cambiamenti voluti. Molti dei crolli delle democrazie negli anni Venti dello scorso secolo a cominciare dal fascismo furono sostanzialmente e colpevolmente (come argomentano i saggi raccolti commissionati e raccolti da Juan Linz e Alfred Stepan, The Breakdown of Democratic Regimes, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1978) agevolati dalle elites non solo politiche, per l’appunto le autorità, dei rispettivi paesi. La strumentalizzazione del disordine politico, prodotto dai fascisti e dai nazisti, era funzionale al mantenimento del potere sotto mentite spoglie oppure, comunque, ad un suo spostamento il meno rilevante possibile, non duraturo e non irreversibile, con la cooptazione dei violenti. Gravissima illusione.
Talvolta, il disordine politico è il prodotto di una resa dei conti all’interno delle autorità stesse. Il caso più clamoroso è quello della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese, 1966-1972 (la data di conclusione è incerta), scatenata da Mao Tse-tung contro lo stesso gruppo dirigente comunista cinese. La sua citatissima frase: “grande è la confusione sotto il cielo. Quindi, la situazione è eccellente”, è giustamente apprezzata da tutti coloro che vedono nel disordine politico un fenomeno necessariamente distruttivo come premessa alla creazione che seguirà. Le Guardie rosse furono incoraggiate a “sparare contro il quartier generale” e lo fecero per diversi anni. Mao, già responsabile dello spaventoso fallimento del Grande Balzo in Avanti (1958-1961), un processo di industrializzazione forzata che provocò milioni di vittime, riuscì a mantenersi al potere fino alla sua morte nel 1976. I regimi comunisti, a partire dall’Unione Sovietica con le purghe staliniane, presentano numerosi esempi di disordine politico voluto, iniziato, sostenuto da alcuni settori delle autorità e brandito contro gli oppositori a tutti i livelli.
I regimi totalitari contemplano una enorme concentrazione di potere nelle mani di un ristretto gruppo di autorità spesso ossequienti ad un leader massimo. Possenti, ma rigidi, i regimi totalitari crollano e non lasciano successori attrezzati, ma macerie di disordine politico. Germania Anno Zero (1948), il bellissimo film di Roberto Rossellini, racconta più e meglio di qualsiasi libro di sociologia e scienza politica il disordine politico, lo squallore della vita nella Germania post-nazista nella quale, però, gli Alleati contribuirono ad una rapida ricostruzione. Ancora più consistente (e richiese più tempo (1945-1955), fu il contributo degli americani alla ristrutturazione del Giappone, alla costruzione di un ordine politico democratico. Invece, nessuno ebbe abbastanza potere per rimediare al disordine politico prodotto dal crollo e dallo smembramento dell’Unione sovietica dopo il 1991. Gli oligarchi non hanno voluto e non sarebbero sicuramente stati in grado di essere costruttori di un qualsivoglia ordine politico. Quanto è riuscito a Vladimir Putin, comunque, è un ordine politico repressivo la cui solidità non è accertabile. Inoltre, è certamente dipendente dalla personalità dello stesso Putin, dalle sue relazioni con gli oligarchi, dalla capacità di sventare sistematicamente le sfide degli oppositori. La guerra contro l’Ucraina per annetterne le regioni russofone è la rivendicazione del suo potere di autocrate dissoluto. Non mi pare il caso di ipotizzare un gesto “disperato” per dissimulare problemi interni. Con il ricorso alla forza e al potere militare tutte le autocrazie si illudono di produrre ordine politico fino al momento del disvelamento. Per lo più, non funziona.
Sono le regole, le procedure e le istituzioni, vale a dire, il regime, che nei sistemi politici democratici fanno sì che il livello di disordine politico si mantenga costantemente basso, che la maggior parte del tempo sia assolutamente fisiologico. Il dissenso non viene considerato disordine tranne che quando, presumibilmente in casi molto infrequenti, si traduce in violenza. Anche i conflitti fra comunità linguistiche e culturali, Scozia verso Inghilterra e, molto più preoccupante, Catalogna verso Spagna, si svolgono nel quadro del regime. Gli scontri fra governo e opposizione hanno il loro luogo privilegiato nel Parlamento cassa di risonanza che serve a diffondere informazioni e conoscenze. Le campagne elettorali sono o possono diventare il momento di massima divaricazione politica nelle quali spesso alcuni attori pensano di trarre profitto dalla produzione di disordine politico. Le modalità di trasferimento del potere politico, altrove, in specie nei regimi autoritari sono momenti/fasi nelle quali il disordine politico procurato trova opportunità di manifestazione concreta. Però, in democrazia tutte le autorità sanno che, vincenti o perdenti, avranno modo di ripresentarsi alla prossima occasione in condizioni migliori se non si saranno rese responsabili di disordine/i politico/i. Pertanto, per lo più, se ne astengono.
Un rapido sguardo comparato rivela che, almeno in Europa, la frequenza e la gravità dei fenomeni di disordine politico sono stati a partire dal secondo dopoguerra chiaramente inferiori a quelli dei precedenti 50 anni. Anzi, le non molte fattispecie di disordine politico europeo dal 1945 ad oggi sono in larga misura attribuibili ai processi di democratizzazione prima in Portogallo, Grecia e Spagna, poi nei paesi ex-comunisti. Quindi, si tratta di disordine politico che si è rivelato creativo anche grazie all’Unione Europea dimostratasi in grado di accogliere e sostenere tutte quelle nuove democrazie, ancorché con problemi sia persistenti sia emergenti.
Nel frattempo, però, stiamo assistendo ad un fenomeno che rischia di provocare conseguenze negative, di disordine politico internazionale. Responsabile non è tanto, ma anche, la globalizzazione, processo al quale appare enormemente difficile imporre e fare rispettare regole condivise. Si tratta, invece, soprattutto del venire meno dell’ordine politico internazionale, spesso definito liberale. Questo indebolimento, causato sia dalla perdita di capacità e forse di leadership degli Stati Uniti come superpotenza “benevola”, disposta a investire risorse e capace di fare rispettare le regole di collaborazione a vari livelli sia dalla crescita della Cina, ovviamente tutt’altro che una superpotenza con inclinazioni liberali, rischia di introdurre nell’ambiente internazionale germi di un disordine politico che nel caso estremo resusciterebbero un bellum omnium contra omnes. I necessari approfondimenti non sono un discorso “altro” dal disordine politico, ma richiederebbero necessariamente un altro discorso. Another time (another place?).
Pubblicato in DISORDINE 1/2022 (pp 101- 106)
La democrazia è viva #vivalaLettura
“Crisi della democrazia?” Non la pensa così il candidato Chamisa che ha appena perso le elezioni presidenziali in Zimbabwe. Anzi, sostiene che il vincitore ha manipolato le regole democratico-elettorali e che in un quadro effettivamente democratico non sarebbe riuscito a vincere. L’opposizione venezuelana combatte contro il Presidente Maduro proprio per (re-)instaurare uno Stato di diritto e la democrazia politica con la rigorosa osservanza della separazione dei poteri e il ritorno dei militari nelle caserme. Un po’ dovunque nel mondo, dalla Russia alla Turchia, dall’Africa all’Asia, persino in Italia, ci sono uomini e donne che combattono ostinatamente per e in nome della democrazia, sì, proprio quella definita “occidentale”. Sono spesso arrestati e condannati, ma non cessano la loro battaglia. No, per loro non c’è “crisi della democrazia”. Al contrario. Ci sono leader e movimenti autoritari, teocratici, sultanisti, populisti che comprimono e soffocano la democrazia. Tutti i dati disponibili segnalano che mai nel passato sono esistiti tanti sistemi politici che possono essere legittimamente e rigorosamente definiti democratici, nei quali la competizione politico-elettorale è libera e periodicamente conduce all’alternanza al governo, nei quali i diritti dei cittadini sono protetti e promossi, nei quali l’aspettativa di vita è superiore a quella di qualsivoglia regime autoritario.
Nel 2018 è stato conseguito un risultato storico, quello del più alto numero di sempre di persone che vivono in paesi liberi. Con il suo regime chiaramente e totalmente dominato da un partito e da una nomenklatura, è la Cina che fa da massimo contrappeso alle democrazie realmente esistenti. Nessuno dei paesi divenuti democratici dopo quella che Samuel Huntington definì la terza ondata di democratizzazione, dalla metà degli anni settanta dello scorso secolo al post-1989, ha perso le caratteristiche democratiche iniziali fondanti. Certo, dobbiamo preoccuparci dell’involuzione dell’Ungheria e della Polonia. Dobbiamo ritenere l’avanzata e la sfida dei variegati populismi pericolose per la vita democratica di un sistema politico, ma finora di regressi e crolli dovuti a populismi vittoriosi non se ne sono visti (in Venezuela è stata l’implosione del bipartitismo inaridito a aprire la strada a Chavez). Le democrazie “illiberali” sono una ferita all’ideale di democrazia, ma conservano potenzialità di trasformazione positiva. Ciononostante, la cosiddetta crisi della democrazia, non solo disagio e disincanto, è oggetto di seriose conversazioni fra intellettuali, meglio se in qualche ridente località sede di convegni accademici, e di allarmate discussioni nelle redazioni dei giornali.
In generale, la maggioranza dei cittadini sembra pensarla alquanto diversamente, soprattutto nelle democrazie europee, in particolare quelle di più lunga durata. In Italia, la percentuale di insoddisfatti è superiore a quella dei soddisfatti, ma il punto da sottolineare è che le critiche riguardano il “funzionamento”, non la “natura”, della democrazia. Già trent’anni fa Giovanni Sartori tracciò una linea distintiva chiara e netta fra la democrazia ideale e le democrazie reali, quelle realmente esistenti. Ciascuno di noi ha una visione di come vorrebbe che fosse la sua democrazia ideale e ciascuno di noi (e dei nostri concittadini) valuta il rendimento, le prestazioni della democrazia italiana anche alla luce della sua democrazia ideale. Le valutazioni negative non coinvolgono affatto automaticamente la democrazia in quanto insieme di regole, di istituzioni, di comportamenti. Anzi, proprio perché siamo esigenti nei confronti della democrazia diventiamo molto critici delle sue carenze, delle sue inadeguatezze, dei suoi deficit. Allora, meglio sarebbe se, seguendo le indicazioni di Sartori, da un lato, prendessimo atto che la democrazia ideale non è conseguibile, ma merita di continuare a essere l’insieme di criteri con i quali valutare le democrazie realmente esistenti, e, dall’altro, non negassimo che, sì, in effetti, non c’è “crisi della democrazia”, ma nelle democrazie esistono molti problemi di funzionamento che devono essere affrontati e risolti, mentre nuove sfide sorgono proprio perché le democrazie sono società vivaci e aperte.
Chi sceglie questa strada che, a mio parere, non soltanto è quella giusta, ma è anche quella più produttiva, vedrà probabilmente che i problemi di funzionamento, da un lato, affondano le loro radici nelle istituzioni e nelle regole e, per quel che riguarda il caso italiano, clamorosamente nelle leggi elettorali e nei rapporti Parlamento/ governo, ma, dall’altro, dipendono moltissimo dai cittadini stessi. Norberto Bobbio ha scritto che questa è la promessa che la democrazia non ha mantenuto: non è riuscita a educare politicamente i cittadini. I problemi della democrazia, se si preferisce le “crisi nelle democrazie”, sono la conseguenza dell’esistenza di cittadini che non s’interessano di politica, non sono informati sulla politica, partecipano poco alla politica (per i quali il voto è spesso l’unica modalità di partecipazione in tutta la vita) e, magari, se ne vantano, pur godendo di tutte le cose buone, a cominciare dal cambiare idee e preferenze, che solo la democrazia garantisce. Questi cittadini, disinformati e apatici, non sono in grado di innescare e fare funzionare il circolo virtuoso della responsabilizzazione di coloro che ottengono il potere di rappresentarli e di governarli. Non sapranno valutarne qualità e operato. Non manderanno a casa i peggiori. Non riusciranno a imporre la selezione dei migliori fra loro – meno che mai, naturalmente, se esistesse quello tremendamente semplificatrice mannaia burocratica che si chiama “limite ai mandati”. Fuori dalle carenze istituzionali e elettorali , che pure esistono, ma sono riformabili, i problemi delle democrazie contemporanee derivano dall’incompetenza, dalla disinformazione, dal mancato impegno, dal conformismo e dalla bassa qualità dei cittadini. Crisi dei cittadini “democratici”?
Pubblicato il 19 agosto 2018
Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Registrazione audio, a cura di Radio Radicale, dell’intervento pronunciato il 15 ottobre 2014 al convegno “Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica”. Roma, Università la Sapienza.
Ascolta IL FATTORE RELIGIOSO NELLA TERZA ONDATA DI HUNTINGTON RILETTO 25 ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO qui
http://www.radioradicale.it/swf/fp/flowplayer-3.2.7.swf?30207f&config=http://www.radioradicale.it/scheda/embedcfg/423529/2925293
Si ringrazia Radio radicale. Qui la registrazione integrale del convegno
Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica
Convegno
mercoledì 15 ottobre ore 15
Dipartimento di Scienze Politiche, Sala delle Lauree – Università la Sapienza
Piazzale Aldo Moro, 5 Roma
Introduce e presiede Fulco Lanchester, Direttore Dipartimento di Scienze Politiche
Relazione di Gianfranco Pasquino, Università di Bologna
Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Discussant: Oreste Massari, Università “La Sapienza”
Relazione di Marco Damilano, L’Espresso
Giovanni Battista Montini-Paolo VI e la Dc nella ricostruzione di Pietro Scoppola
Discussant: Umberto Gentiloni, Università “La Sapienza”
Relazione di Pamela Harris, John Cabot University
Gli influssi giuridici americani sulla libertà religiosa al Concilio Vaticano II e il discorso di Paolo VI all’Onu
Discussant Luca Diotallevi, Università di Roma 3
Relazione di Carlos Garcia de Andoin, Diocesi di Bilbao, Istituto di teologia e pastorale
Le conseguenze dell’opzione preferenziale per la democrazia del Concilio sulla transizione spagnola
Discussant Gianluca Passarelli, Università “La Sapienza”
Con Francesco si ritorna a Montini?
Confronto tra Gianfranco Brunelli, Il Regno, e Luigi Accattoli, Corriere della Sera
Conclusioni Stefano Ceccanti, Università “La Sapienza”.
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Traccia tematica della relazione Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Il libro di Samuel Huntington del 1993 su “La terza ondata democratica” (in particolare alle pagg. 951/08) segnala che essa è iniziata in Paesi cattolici (Spagna e Portogallo, poi Polonia e Ungheria, per non parlare di Cile, Brasile, Corea del Sud e Filippine) anche per influsso delle acquisizioni del Concilio Vaticano II (opzione preferenziale per la democrazia nella “Gaudium et Spes” e per la libertà religiosa nella “Dignitatis Humanae”). Gianfranco Pasquino, nell’Introduzione all’edizione italiana di due anni dopo, pur condividendo il giudizio, si chiede però se col nuovo pontificato e lo sviluppo concreto delle transizioni non ci sia stata una parziale regressione, una minore fiducia nella democrazie. Cosa dire a quasi vent’anni di distanza?