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La scienza politica come cultura politica, ieri e domani. Pasquino ricorda Sartori @formichenews

Verso la fine della sua lunga e produttiva vita, riflettendo sul suo lascito culturale, Sartori esprimeva la preoccupazione di essere (già) stato dimenticato. Per fortuna è possibile suggerire perché i suoi scritti non solo mantengono grandissima rilevanza, ma non hanno perso quasi nulla della loro carica esplicativa, propulsiva, persino eversiva. Gianfranco Pasquino ricorda Giovanni Sartori a 100 anni dalla sua nascita a Firenze, il 13 maggio 1924
Nato cent’anni fa a Firenze, Giovanni Sartori è stato uno dei quattro/cinque più importanti studiosi di politica del XX secolo. Tutt’altro che autore di un solo grande libro, ha dato contributi fondamentali, non superati in tre settori: l’analisi della democrazia, lo studio dei sistemi di partiti, l’ingegneria costituzionale, vale a dire l’applicabilità/applicazione delle conoscenze politologiche alla riforma delle istituzioni. Talvolta, verso la fine (2017) della sua lunga e produttiva vita, riflettendo sul suo lascito culturale, Sartori esprimeva la preoccupazione di essere (già) stato dimenticato. Non bastano qualche sparsa citazione e interviste pop a smentire i suoi timori. Per fortuna, senza fare ricorso alla classica ricerca di “ciò che è morto e ciò che è vivo”, è possibile, a mio modo di vedere, suggerire perchè gli scritti di Sartori non solo mantengono grandissima rilevanza, ma non hanno perso quasi nulla della loro carica esplicativa, propulsiva, persino eversiva. Collloco a fondamento di qualsiasi analisi e proposta il principio metodologico formulato da Sartori e contenuto nella frase che segue: “Chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”. Senza (saper) comparare non potremo mai dire ciò che è valido e perchè e ciò che è fuori norma e perchè. Né, meno che mai, saremo in grado di proporre cambiamenti migliorativi nel senso desiderato.
Facendo sua una cruciale considerazione di Karl Popper che è preferibile avere una teoria anche sbagliata a nessuna teoria (sulla prima, correggendo, si può, costruire; sul nulla, no), Sartori, anzitutto, diffidava e rigettava le “narrazioni” e proponeva la elaborazione di teorie probabilistiche. “Ogniqualvolta si presentano le condizioni a, b, e c è probabile che ne derivino le conseguenze x, y, z”. Ovviamente, cambiando le condizioni è molto probabile che le conseguenze siano differenti. Due altri fondamentali principi stanno alla base delle analisi e degli insegnamenti di Sartori: la conoscenza profonda dell’argomento in oggetto, vale a dire, nel suo lessico, “avere la bibliografia in ordine”, e la pulizia concettuale. I concetti hanno una etimologia e una storia che non debbono essere né “stiracchiati” (su espressione) e stravolti né cancellati. No, i “novisti” non erano i suoi interlocutori preferiti, e neppure i cultori e i divulgatori del politicamente corretto.
Da ultimo, voglio ricordare quella che è stata ed è rimasta, sottovalutata e sostanzialmente incompresa, la sua aspirazione civile: fare della scienza politica il fulcro di una cultura politica liberaldemocratica che sconfiggesse il pensiero del cattolicesimo sociale e il marxismo nelle sue varianti, gramscismo compreso. Quelle due culture politiche sono affondate nelle loro contraddizioni e nella loro incapacità di rinnovamento, ma la scienza politica non è (ancora?) riuscita a colmare il vuoto nel quale galleggiano populisti, sovranisti e altri brutti tipi. Il compito che Sartori si era posto mantiene tutta la sua validità. Gli direi che il suo lascito esiste, è imponente, contiene risposte. I suoi libri, Democrazia. Cosa è; Parties and party systems; Ingegneria costituzionale comparata, sono letture essenziali e gratificanti che mantengono assoluta validità. Le considero fra le letture migliori, oggi e domani.
Pubblicato il 12 maggio 2024 su Formiche.nethttps://formiche.net/2024/05/sartori-scienza-politica-pasquino-ricordo/#content
La scienza politica come lavoro intellettuale @SapienzaRoma #8marzo
Department of POLITICAL SCIENCES
Room D, Ground floor
March 8, 2023
4 – 5.30 pm
S P R I N G 2 0 2 3 Robert Elgie’ brown bag seminars on politics
La scienza politica come lavoro intellettuale
Gianfranco Pasquino
Rosa Mulè
Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).
“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?
Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.
Perché, professor Pasquino?
Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.
Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?
No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.
Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?
Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.
Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?
Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.
In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.
La Scienza politica racconta un’altra storia…
Quale?
Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.
Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista
Le aspettative esagerate sul ritorno al proporzionale @DomaniGiornale


Non sono riuscito a trovare in nessun libro di scienza politica che le leggi elettorali proporzionali ristrutturano i partiti e i sistemi di partito Forse dovevo cercare fra i gialli di Simenon o nella collezione di Urania. E poi dovremmo ristrutturare i partiti esistenti o cambiarli molto più profondamente? Le eleggi elettorali proporzionali, ha sempre sostenuto, correttamente, Giovanni Sartori, “fotografano” i partiti esistenti. Talvolta, se c’è una sana soglia di accesso al Parlamento, per esempio, del 5 per cento, escludono dalla fotografia partiti che hanno percentuali di voto inferiori. Talvolta, a questo proposito i verbi contano, se soglia non c’è, le PR consentono la frammentazione, addirittura facilitano, se non incoraggiano, le scissioni. Ciò detto ci sono buone leggi elettorali proporzionali, come quella tedesca nella sua interezza, e il Voto Singolo Trasferibile dell’Irlanda. Tutte, però, consegnano inevitabilmente ai dirigenti di partito la delega alla formazione del governo. È una constatazione, non una critica, ma che non significa affatto che nelle democrazie sia possibile e neppure auspicabile “eleggere il governo”. Chi ha un minimo di conoscenza del sistema tedesco, che pure giustamente ammiriamo per la sua stabilità di governo e efficacia politica, sa che nel 2017 gli elettori non votarono affatto per la grande Coalizione CDU/CSU-SPD e che nel 2021 nessuno, ma proprio nessuno, poteva prevedere e meno che mai scegliere/votare per un governo Socialdemocratici-Verdi-Liberali. Prima viene posta la parola fine sulla chimera del “governo eletto dai cittadini” meglio sarà.
Adesso, comunque, i soloni elettorali annunciano che torniamo alla proporzionale. Ci sono due, forse tre problemi con questo avventuroso viaggio di ritorno. Primo che il luogo dal quale partiamo, la vigente legge Rosato, non è un maggioritario, ma due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria. Quindi, il viaggio di ritorno sarebbe breve. Secondo problema è che non esiste “la” proporzionale, ovvero un’unica, semplice, chiara variante di sistema proporzionale. Ce ne sono molte con elementi diversi, variabili, nel bene e nel male manipolabili, a cominciare dalla soglia di accesso al Parlamento, a continuare con la dimensione delle circoscrizioni (numero dei parlamentari da eleggere) e dal recupero o no dei resti, a finire con l’esistenza o no di premi in seggi. Un sistema elettorale proporzionale che prevede un premio di maggioranza non per questo diventa “il” o “un” maggioritario. Di sistemi elettorali maggioritari in collegi uninominali ne esistono almeno tre varianti: l’originale, inglese; l’australiano, che è davvero majority; e il francese a doppio turno (che non significa ballottaggio). Chi sostiene di volere “il” maggioritario e mira a resuscitare l’Italicum oppure recuperare la legge porcella di Calderoli inganna gli elettori e i commentatori che hanno studiato poco e non sanno quasi niente.
Comunque, nessuna di queste leggi proporzionali, mi spingerei a sostenere meno che mai le varianti con premi di maggioranza, hanno una qualche possibilità di ristrutturare i partiti e i sistemi di partiti. Al contrario, quelle con i premi di maggioranza, nelle condizione date del sistema politico italiano conferirebbero, ricorro ancora alla terminologia di Sartori che se ne intendeva, un potere di ricatto a partiti anche piccoli i cui voti venissero considerati decisivi. Spesso, dimostrerebbero di esserlo. Allora, no, e basta.
P.S. Il Direttore mi ha chiesto con qualche titubanza se potesse ripubblicare questo articolo ogni tre/quattro settimane. Ho graziosamente (sic) accettato.
Pubblicato il 2 febbraio 2022 su Domani
Ingegneria costituzionale comparata. Come applicare le conoscenze alla trasformazione dei sistemi politici. Sapere per fare #IlRaccontodellaPolitica
IL RACCONTO DELLA POLITICA
Lezione 8Ingegneria costituzionale comparata
Come applicare le conoscenze alla trasformazione dei sistemi politici
Sapere per fare.“L’ingegneria costituzionale comparata può riuscire a migliorare il funzionamento e anche i meccanismi delle strutture di molti sistemi politici. Le teorie probabilistiche dicono: “se esistono determinati fattori allora è probabile che si producano queste conseguenze”. Cambiando alcuni fattori ne conseguirà il cambiamento di alcune conseguenze. Questo è l’insegnamento della Scienza politica applicata, e applicabile.”
“Il Racconto della politica” In arrivo il #videocorso di Pasquino
Parlare di politica fa bene, a noi e agli altri. Studiare la politica è un’attività intellettuale preziosa. La politica condiziona i nostri comportamenti. Con le nostre conoscenze e i nostri comportamenti possiamo condizionare la politica e trasformarla in meglio.
I brevi video che ho realizzato per voi hanno proprio l’obiettivo di raccontare la politica in maniera semplice, di renderla attraente, in un certo senso di aiutarci a diventare buoni cittadini, informati e partecipanti.
A presto sui vostri schermi!
Dare i numeri per fare coalizioni
In politica i numeri contano, ma, come ha sempre convincentemente sostenuto Sartori, bisogna saperli contare. Nel contesto attuale, quelli che contano sono i numeri dei voti e i numeri dei seggi. Per formare un governo i numeri dei seggi debbono, abitualmente, raggiungere una maggioranza. Nel caso tedesco, ad esempio, la maggioranza che elegge il/la Cancelliere/a deve essere assoluta con riferimento al numero dei deputati. Nel caso italiano, lo scarno dettato costituzionale “il governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94) lascia ai regolamenti parlamentari di stabilire quale debba essere la maggioranza, non degli aventi diritto, ma dei votanti (i contrari potendo astenersi oppure, come al Senato, uscire dall’aula per non farsi contare). La teoria delle coalizioni, un campo di ricerca della scienza politica sviluppato con molto successo, ha chiarito che possono esistere tre tipi di coalizioni: di minoranza, minimo vincenti, sovradimensionate. Nel corso del tempo, l’Italia ha avuto governi di tutt’e tre i tipi, con una leggera prevalenza di governi che si reggevano su coalizioni sovradimensionate (come, per lo più, il centrismo, il centro-sinistra e, soprattutto, il pentapartito).
Sovradimensionata è qualsiasi coalizione che comprenda anche partiti non necessari per conseguire la maggioranza assoluta in Parlamento. Pertanto, le Grandi Coalizioni di stampo tedesco non appartengono alla categoria delle coalizioni sovradimensionate, essendo entrambi i partiti contraenti assolutamente necessari per conseguire la maggioranza assoluta dei seggi. La teoria delle coalizioni rileva poi come più plausibili siano le coalizioni fra partiti contigui, fra partiti programmaticamente compatibili, fra partiti che già abbiano formato una coalizione fra loro e che, di conseguenza, sono in grado di ridurre le incertezze sui rispettivi comportamenti e i tempi delle inevitabili contrattazioni sul programma di governo.
Le elezioni italiane del 2018 hanno consegnato un Parlamento nel quale dal punto di vista numerico sono possibili più coalizioni, nell’ordine: Movimento 5 Stelle più Centro-destra; Centro-destra più PD; Movimento 5 Stelle più Lega; Movimento 5 Stelle più PD, qui sotto presentate.
*Da aggiungere 4 Senatori e 14 Deputati di LiberieUguali. Non tengo conto delle affiliazioni dei cinque Senatori a vita.
Poiché, almeno temporaneamente, il Partito Democratico si è chiamato fuori affermando di volere fare un’opposizione (a un governo che ancora non esiste) seria e responsabile (anche se alcune posizioni già sembrano ridicole e irresponsabili), restano in campo, per usare il politichese, quella che sarebbe una coalizione notevolmente sovradimensionata (forse anche preoccupantemente tale poiché con i due terzi dei voti è possibile riformare la Costituzione senza correre il rischio di un referendum oppositivo) e una coalizione davvero minimo vincente: Cinque Stelle e Lega.
Toccherà al Presidente della Repubblica sciogliere la matassa che, in verità, non è neppure troppo ingarbugliata. E’ probabile che il Presidente ponga due condizioni: la compatibilità programmatica e l’operatività effettiva, condizioni che stanno insieme. Rimane aperto il problema della leadership della coalizione. Teoricamente, se tutto il centro-destra partecipa compatto alla coalizione, allora le quotazioni di Salvini crescono significativamente. Altrimenti nella coalizione Cinque Stelle-Lega il candidato naturale a Presidente del Consiglio è Di Maio. Tuttavia, il prezzo della coalizione potrebbe essere la rinuncia di entrambi alla carica più elevata e la loro convergenza, incoraggiata e favorita dal Presidente, su una persona terza accettabile da tutt’e due e magari tale da avere un consenso parlamentare persino più ampio. Sì, le democrazie parlamentari hanno un grande pregio: la loro flessibilità. Il resto dipende, ahivoi, dalla qualità della classe politica.
Pubblicato AGL 5 aprile 2018
Contro la politica degli analfabeti
Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”. I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni cinquanta, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo apertamente e esplicitamente fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia DC-PCI come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva moltissimo a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il “Corriere della Sera” (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta lo stato di consolidamento, davvero molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla “Rivista Italiana di Scienza Politica” (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.
Pubblicato il 3 aprile 2018
Con Sartori. Dalla parte dei cittadini
Pessima tempora. Con tutta probabilità, questo sarebbe il severo commento di Giovanni Sartori alla fase attuale della politica non solo italiana. Però, sbaglierebbe di molto chi pensasse, evidentemente avendo letto poco e male i suoi incisivi editoriali sul “Corriere” (molti dei quali raccolti nel volume Mala tempora) e per niente i suoi libri, che Sartori si sia limitato a critiche aspre e sprezzanti (peraltro quasi sempre giustificatissime). In maniera puntuale e costante, Sartori combinava le critiche, da un lato, con le sue conoscenze comparate relative al funzionamento dei sistemi politici democratici, dall’altro, con suggerimenti e indicazioni operative e applicative. La scienza politica di Sartori, nutrita di storia, di filosofia, di logica, ha voluto essere lo strumento per trasformare i sistemi politici, per costruire democrazie migliori. A un anno dalla sua scomparsa è giusto chiedersi che cosa Sartori scriverebbe, quali commenti farebbe, quali errori vorrebbe correggere, quali strade suggerirebbe di percorrere. Nessuna risposta sarebbe scontata poiché Sartori aveva grande fantasia e notevole originalità, ma molto è possibile ipotizzare prendendo lo spunto dai suoi libri e dai suoi numerosi articoli scientifici.
È certo che Sartori insisterebbe sulla assoluta necessità di un’analisi sistemica, vale a dire di tenere conto che qualsiasi cambiamento, ad esempio, della legge elettorale, produce una molteplicità di effetti sui partiti e sui sistemi di partiti, su chi viene eletto e sul parlamento, indirettamente anche sulla formazione dei governi. Nessun governo nelle democrazie parlamentari è eletto dai cittadini né deve esserlo pena la rottura del pregio maggiore di quelle democrazie: la loro flessibilità, con i governi che possono mutare composizione in Parlamento anche tenendo conto dei mutamenti nei rapporti di forza, nelle preferenze, nella società. Questa flessibilità, sottolineerebbe Sartori, può esistere e riprodursi soltanto nella misura in cui i parlamentari non abbiano nessun vincolo di mandato e non siano debitori della loro elezione a gruppi di pressione o ai dirigenti dei partiti, ma solo ai loro elettori. Migliore è quella legge elettorale, ne esiste più di una, che consente agli elettori esercitare potere effettivo sull’elezione dei rappresentanti parlamentari e che, di conseguenze, incentiva gli eletti a mantenersi in contatto con coloro che li hanno votati.
La rappresentanza politica, tale solo se elettiva, implica, anzi, impone la accountability. In politica rappresentare è agire con competenza e con responsabilità. Nulla di tutto questo viene meno neppure in un mondo nel quale la comunicazione politica passa attraverso internet e piattaforme di vario genere. Sartori denunciò mirabilmente le distorsioni che la televisione e, a maggior ragione, i social network, possono produrre nella formazione dell’opinione pubblica. Vide rischi e pericoli della democrazia elettronica, ma sostenne anche che la grande forza delle democrazie, quelle reali, da tenere distinte da quelle ideali, è la loro capacità di autocorrezione. Le democrazie che ciascuno di noi intrattiene come ideali sono utili a disegnare gli obiettivi da perseguire purché, ha sostenuto Sartori, ci si attrezzi con gli strumenti più adeguati, a cominciare dalle indispensabili conoscenze comparate. Il dialogo con Sartori merita di essere continuato non tanto perché nella sua produzione scientifica e pubblicistica si trovino tutte le risposte, ma perché la lezione di metodo della sua scienza politica è tuttora in grado di offrire grandi ricompense culturali, intellettuali, politiche.
Pubblicato il 29 marzo 2018





