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Cosa si guadagna a cosa si perde con il semipresidenzialismo @DomaniGiornale


Il semipresidenzialismo è una forma di governo a se stante. Non è un misto, una combinazione variabile di parlamentarismo e presidenzialismo. Tuttavia, ce ne eravamo accorti per tempo (Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1997) nel suo funzionamento può, di volta in volta, vedere grande potere per il Presidente, comunque, non “iperpresidenzialismo” oppure il potere di governo quasi tutto nelle mani del Primo ministro e della sua maggioranza parlamentare, comunque non “parlamentarismo” poiché il Presidente è più che un freno e un contrappeso. Il Presidente è eletto con voto popolare separatamente dal Parlamento. Ha poteri esecutivi e soprattutto può, entro certi limiti, decidere se e quando sciogliere il Parlamento. Nomina il Primo ministro che deve godere della fiducia del Parlamento e che, dunque, è il capo della maggioranza parlamentare che, talvolta, non coincide con la maggioranza che ha eletto il Presidente.
A loro insaputa, i grandi giuristi, fra i quali Hugo Preuss, e politici che nel 1919 scrissero la Costituzione tedesca disegnarono una forma di governo semipresidenziale ante-litteram. Dovendo sostituire un imperatore la cui legittimità discendeva dalla tradizione e dalla storia, decisero di investire il Presidente della Repubblica, poi nota come Weimar, con la legittimità derivante dall’elezione popolare diretta. Notevoli poteri di governo furono riconfermati nel Cancelliere di Weimar. Quello che cambiò profondamente fu la competizione fra i partiti, del tutto democratica grazie anche ad una legge elettorale proporzionale. Weimar crollò, ma la causa non fu certamente la proporzionale e neppure il tanto vituperato articolo 48 che concedeva poteri eccezionali in stato di emergenza al Presidente della Repubblica. La causa incontrollabile fu la polarizzazione estrema fra due partiti antisistema: il Nazionalsocialista e il Partito comunista staliniano.
Non immediatamente compreso nella sua complessità e nella sua strutturazione, il semipresidenzialismo fece la sua ricomparsa dopo il crollo della Quarta Repubblica francese (1946-1958), forma di governo parlamentare debole e inefficiente, fin dall’inizio duramente contrastata e delegittimata da de Gaulle che le aveva subito contrapposto le sue idee costituzionali formulate nel discorso pronunciato nel giugno 1946 a Bayeux. Per uscire dalla “eterna palude”, definizione da lui data della politica nella Quarta Repubblica, Maurice Duverger, noto studioso di Diritto Costituzionale e Scienza politica, nelle pagine del quotidiano “Le Monde”, proponeva l’elezione popolare diretta del Primo Ministro (poi goffamente ripresa da alcuni italiani anche nostri contemporanei). Tenendo conto delle preferenze espresse dal Generale, i consiglieri costituzionali di de Gaulle procedettero nel senso della concessione di notevoli poteri esecutivi al Presidente della Repubblica inizialmente nel 1958 eletto dall’Assemblea Nazionale, poi, dal 1965, direttamente dal popolo: legittimità democratica ineccepibile accompagnata da un mandato settennale per porlo al di sopra dell’Assemblea nazionale e dei rappresentanti eletti per cinque anni.
Contro le régime des partis, quei partiti responsabili della palude della Quarta Repubblica, de Gaulle volle una legge elettorale maggioritaria in collegi uninominali con una soglia di passaggio al secondo turno per i candidati del 5, poi 10, poi 12.5 per cento degli aventi diritti. L’intento, chiaramente riuscito, era quello di rendere ininfluenti i piccoli partiti, i cui ricatti avevano prodotto molti governi instabili, e di spostare l’attenzione degli elettori sui candidati, su una nuova classe dirigente che i gaullisti in primis dimostrarono di saper selezionare. Per 23 anni, metà dei quali, senza de Gaulle, nel sistema politico francese non ci fu alternanza, ma notevole competizione politica sì e la nascita del Parti Socialiste. La vittoria di François Mitterrand nel 1981 fu il primo test di un fenomeno/rischio forse neppure immaginato da de Gaulle e dai suoi consiglieri: una maggioranza parlamentare di un colore, centro-destra vittorioso nel 1978, e Presidente del colore opposto, ma dotato del potere di sciogliere l’Assemblea Nazionale purché avesse almeno un anno di vita. Richiamati alle urne subito gli elettori affidarono al Presidente Mitterrand la maggioranza che desiderava e che era essenziale per governare. Ma nel 1986 nuovamente gollisti e Repubblicani indipendenti conquistarono la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale nonostante Mitterrand avesse introdotto una legge PR che, fenomeno di enorme impatto, consentì l’affermazione di 35 esponenti lepenisti, loro capo compreso.
Pur potendo, Mitterrand preferì non sciogliere l’Assemblea nazionale in attesa della riconferma, che ottenne, alla Presidenza nel 1988. La coabitazione successiva ebbe luogo dal 1993 al 1995 quando, vecchio e malato, il Presidente preferì completare il suo mandato senza nessuno scioglimento. Un enorme errore, ovvero una scommessa rischiosa del Presidente Chirac che sciolse l’Assemblea nella quale godeva di una sostanziosa maggioranza, portò alla più lunga delle coabitazioni, 1997-2002, fra Chirac e il socialista Jospin e pose le premesse per una riforma costituzionale di notevole importanza che, ritengo, de Gaulle non avrebbe assolutamente gradito. Riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, elezioni presidenziali da svolgersi prima di quelle parlamentari, con il Presidente eletto in grado di esercitare un effetto di trascinamento a favore dei candidati al parlamento del suo schieramento. Così è finora stato. Mi sono dilungato sul modello capostipite, ma la storia politico-costituzionale del semipresidenzialismo in Portogallo offre un esempio di successo con non poche coabitazioni, una attualmente in corso: governo di sinistra, Presidente del centro-destra.
La temuta e inizialmente molto criticata coabitazione non è in nessun modo assimilabile al governo diviso nel presidenzialismo USA. Nella coabitazione c’è sempre chi governa: il Presidente se ha la maggioranza nell’Assemblea oppure il Primo ministro che diventa e rimane tale proprio perché ha e fintantoché mantiene la maggioranza che ha tutto l’interesse a rimanere compatta e a mostrare efficienza per rendere quasi impossibile/ingiustificabile lo scioglimento ad opera del Presidente. Negli USA, quando compare il “governo diviso”: Presidente di un partito, almeno una camera con maggioranza assoluta dell’altro partito, nessuno governa. Ne conseguono stallo decisionale e pratiche diffuse di scaricabarile, buckpassing, che impediscono all’elettore di valutare le responsabilità politiche, sempre evidenti nella coabitazione del semipresidenzialismo.
Nel corso del tempo, il semipresidenzialismo è stato importato e fatto funzionare in non pochi sistemi politici: del Portogallo nel 1975 ho detto; in buona parte delle ex-colonie africane francofone e sorprendentemente a Taiwan (Semi-presidentialism outside Europe, a cura di Robert Elgie e Sophia Moestrup, Londra e New York, Routledge, 2007); in diversi sistemi politici post-comunisti: Polonia, Romania, Bulgaria, Ucraina (Angelo Rinella, La forma di governo semipresidenziale. Profili metodologici e “circolazione” del modello francese in Europa centro-orientale, Torino, Giappichelli, 1997).
La transizione da una Repubblica parlamentare, come quella italiana, a una Repubblica semipresidenziale, richiede anzitutto una discussione non allarmistica e non apodittica, ma anche la presentazione non apologetica e non esagerata dell’esito finale come se potesse risolvere tutti i problemi politici italiani, molti dei quali non dipendono affatto dalle istituzioni. L’esperienza francese, ma non solo, è decisamente positiva. Ricca di insegnamenti, rivela che il semipresidenzialismo presenta qualche inconveniente, ma è certamente in grado di offrire notevoli opportunità istituzionali e politiche.
Pubblicato il 18 marzo 2023 su Domani
Parlamentarismi e (semi)presidenzialismi. Rappresentanza, decisionalità, responsabilizzazione #2marzo #Pavia #CollegioGhislieri @ilGhislieri
“Giovedì 2 marzo, il celebre politologo Gianfranco Pasquino affronta un tema di grande attualità con la conferenza Parlamentarismi e (semi)presidenzialismi. Rappresentanza, decisionalità, responsabilizzazione
introduce e modera Ernesto Bettinelli
Per quarantatré anni Professore di Scienza politica all’Università di Bologna, Gianfranco Pasquino è al momento Professore emerito nell’Ateneo felsineo, dopo avere insegnato anche a Washington e a Los Angeles; è fellow del Christ Church College di Oxford e del Clare College di Cambridge; attualmente insegna al Dickinson College, Bologna Program, ed è James Anderson Senior Adjunct Professor alla SAIS-Europe di Bologna. L’incontro, in programma alle ore 18 in Aula Goldoniana, è introdotto dal nostro Alunno Ernesto Bettinelli, Professore emerito di Diritto costituzionale all’Università di Pavia.
Noto al grande pubblico come opinionista politico per Il Sole 24 Ore, l’Europeo e Repubblica, oltre che per la competenza negli interventi nei dibattiti televisivi, il prof. Pasquino è stato anche senatore della Sinistra indipendente dal 1983 al 1992, facendo parte della Commissione Bozzi per le riforme istituzionali, e dei Progressisti dal 1994 al 1996. Ha pubblicato numerosi volumi di politologia, a partire dal classico Modernizzazione e sviluppo politico (Il Mulino, 1970). Fra i suoi ultimi saggi segnaliamo Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader (Bocconi, 2018), Minima politica. Sei lezioni di democrazia (Utet, 2020) , Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani, 2022), Italian Democracy. How It Works (Routledge 2020), Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, UTET 2021, Tra scienza e politica. Una autobiografia, UTET 2022
Particolarmente significativo un pamphlet sulla sua esperienza diretta di candidato alla carica di primo cittadino a Bologna (Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010), reso disponibile gratuitamente online.”

Democrazia Futura Semipresidenzialismo con sistema elettorale maggioritario a doppio turno @Key4biz
Le ragioni per le quali il sistema francese è più dinamico
In prospettiva della riapertura del dibattito sulle riforme del sistema politico istituzionale, Democrazia futura ha chiesto al professor Pasquino se sia ancora valida la sua proposta per un sistema semipresidenziale[1] alla francese con elezione diretta del Presidente della Repubblica e sistema maggioritario uninominale a doppio turno di collegio. Il contributo presentato dall’illustre scienziato della politica costituisce un’anteprima del prossimo numero, l’ottavo della rivista.
Le ragioni per le quali il sistema francese è più dinamico #DemocraziaFutura
Le ragioni per le quali il sistema francese è più dinamico
Semipresidenzialismo con sistema elettorale maggioritario a doppio turno
In prospettiva della riapertura del dibattito sulle riforme del sistema politico istituzionale, Democrazia futura ha chiesto al professor Pasquino se sia ancora valida la sua proposta per un sistema semipresidenziale[1] alla francese con elezione diretta del Presidente della Repubblica e sistema maggioritario uninominale a doppio turno di collegio. Il contributo presentato dall’illustre scienziato della politica costituisce un’anteprima del prossimo numero, l’ottavo della rivista.
Contro le destre non basta dire soltanto no @DomaniGiornale


Il quadro è l’Unione Europea più l’Europa che verrà con la sconfitta dell’aggressione russa all’Ucraina. Nessuna proposta programmatica ha senso se non parte dal ruolo e dal posto dell’Italia in Europa. Tornare indietro è costato moltissimo alla ben più potente Gran Bretagna. Non sarebbe un pranzo di gala neppure per l’Italia. Su questo terreno il PD anche grazie all’alleanza con +Europa e Emma Bonino ha le carte in regola e le deve giocare. Non è mai sufficiente, talvolta neppure convincente, dire rumorosi no alle proposte degli avversari. Non c’è bisogno di concedere che il semipresidenzialismo non è autoritarismo. Ai semipresidenzialisti nostrani bisogna, da un lato, chiedere con quale legge elettorale verrà formato il Parlamento, dall’altro, contrapporre un parlamentarismo rinnovato: voto di sfiducia costruttivo e legge elettorale proporzionale con soglia d’accesso per evitare la frammentazione dei partitini. La tassa piatta non ha funzionato da nessuna parte. Non ha dato slancio a nessuna economia. Comunque, è iniqua. Ancora più iniqua quando non solo è piatta, ma è anche bassa. Le destre “giocano” sulle aliquote e faranno debito pubblico. Le tasse sono un rapporto di fiducia che i cittadini stabiliscono con lo Stato in cambio di sicurezza e di servizi tanto più necessari per le fasce deboli della società. Pagare tutti con progressività. Le tasse sono l’impegno che lo Stato assume con i cittadini. Offrirà sanità, istruzione, lavoro, pensioni in maniera efficiente e giusta. Senza privilegi, senza esenzioni, senza corruzione con amministratori pubblici che hanno piena e orgogliosa consapevolezza che i cittadini sono i loro datori di lavoro, meritevoli della massima attenzione e cura.
I diritti delle persone sono sempre una questione di libertà, detto anche per tutti coloro che lamentano la mancanza di liberalismo in Italia (forse non avendo ancora avuto il tempo di leggere la Costituzione). I diritti, a cominciare da quello di cittadinanza, possono essere acquisiti seguendo criteri sui quali è lecito avere opinioni e valutazioni diverse. Restringere i diritti è destra, ampliarli è progresso. Ai diritti si accompagnano i doveri che non sono optional, che non debbono essere né condonati né elusi, ma adempiuti (a cominciare dal voto il cui esercizio, art. 48, è dovere civico).
La campagna elettorale serve a delineare una visione di società desiderata e desiderabile, contrastando le altre visioni non solo perché diverse, ma perché carenti, inadeguate, improbabili da attuare, persino, come il sovranismo, pericolose. Non è questione di demonizzare la principale esponente dello schieramento avverso, ma di mettere in evidenza le contraddizioni e i costi, materiali e sociali, delle sue proposte contrapponendovi subito il fattibile e il credibile. Il tempo c’è.
Pubblicato il 14 settembre 2022 su Domani
Presidenzialisti, semipresidenzialisti e quant’altro
Al grido di presidenzialismo, presidenzialismo, Meloni, Berlusconi, Salvini, in quest’ordine, sfidano Letta e il PD che vedono, finalmente, rosso (sto scherzando) e lo respingono con sdegno e preoccupazione. In un cero senso, Giorgia Meloni ha le carte in regola. L’elezione popolare diretta del Capo dello Stato è stata sempre un vessillo del Movimento Sociale Italiano agitato contro il regime dei partiti. Anche Berlusconi lo ha spesso indicato come soluzione alla presunta debolezza, da lui, anche per incapacità, sperimentata, del Presidente del Consiglio italiano. Peraltro, da tempo, gli studiosi, costituzionalisti e politologi, sono giunti alla conclusione che i capi di governo nelle democrazie parlamentari, se sostenuti da partiti coesi, sono molto più forti dei Presidenti presidenziali. Se non sanno governare sono anche più facilmente sostituibili, mentre i Presidenti incapaci rimangono in carica tranne nei difficilissimi e rarissimi in cui i rispettivi parlamenti con maggioranze qualificate li spodestino. Gli oppositori italiani del presidenzialismo si aggrappano all’esistenza di una Costituzione che, magari non la più bella del mondo, ha disegnato una forma parlamentare di governo. Dunque, non basterebbe cambiare la modalità di elezione del Presidente e ridefinire i suoi, peraltro già molti e significativi, poteri. Sarebbe necessario intervenire anche sui poteri del Parlamento e sulle modalità con le quali viene eletto, cioè la legge elettorale. Curioso è che tutti, presidenzialisti e parlamentaristi, meno Meloni che ne vede i molti i vantaggi che ne derivano per lei, critichino la vigente legge elettorale e facciano proposte più o meno fantasiose di riforma, ma nessuno dica che anche il presidenzialismo all’americana e il semipresidenzialismo alla francese necessitano di una apposita legge elettorale. Il tema è complicato tecnicamente e divisivo politicamente. Allora i terribili semplificatori presidenzialisti hanno, probabilmente in maniera incauta, spostato l’attenzione su quel che succederà al Presidente che abbiamo affermando che, una volta approvata la riforma, Mattarella dovrebbe dimettersi e andarsene. I più maligni, che un po’ ne sanno e molto ne immaginano, hanno pensato che questa sia la strategia di Berlusconi. Fattosi eleggere presidente del Senato subentrerebbe automaticamente a Mattarella e avrebbe un punto di partenza privilegiato per la corsa presidenziale. Tutto questo potrebbe essere considerato eccessivamente futuribile, ma se, grazie alla Legge Rosato, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ottenessero, non è impossibile, due terzi dei seggi, sarebbero in grado di approvare la riforma presidenziale senza nessun rischio referendario. Questo pensiero agita le notti e i dì dei parlamentaristi e non solo. Quanto a me penso che non è il presidenzialismo a mettere a rischio la democrazia italiana, il suo funzionamento, la sua qualità, ma partiti malandati e personalistici, capaci di confusione e non di azione, che nessun presidenzialismo riuscirà a riformare.
Pubblicato AGL il 9 settembre 2022
Per chi suona la fisarmonica del Capo dello Stato @formichenews

Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare presidente del Consiglio e ministri. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Il commento di Gianfranco Pasquino Accademico dei Lincei e autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)
La fisarmonica (del Presidente della Repubblica) non è affatto, come ha perentoriamente scritto Carlo Fusi (28 agosto), un “funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto”. Al contrario, è una metafora delle modalità elastiche del funzionamento delle democrazie parlamentari che consentono di analizzare, capire, spiegare al meglio il ruolo del Presidente della Repubblica italiana ieri, oggi e, se non sarà travolto dal pasticciaccio brutto del presidenzialismo diversamente inteso dal trio Meloni-Salvini-Berlusconi, domani.
In sintesi, definiti dalla Costituzione, dalla quale non è mai lecito prescindere, i poteri del Presidente della Repubblica italiana, l’esercizio di quei poteri dipende dai rapporti di forza fra i partiti in Parlamento e il Presidente, la sua storia, il suo prestigio, la sua competenza. Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare Presidente del Consiglio e ministro. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Se ci saranno i numeri, ovvero una maggioranza assoluta FdI, Lega e FI, dovranno essere Salvini e Berlusconi a fare il nome di Meloni a Mattarella, aggiungendo che non accetteranno nessuna alternativa.
Certo, il Presidente chiederà qualche garanzia europeista, ma non potrà opporsi al nome. “Crisi di sistema in atto”? O, piuttosto, funzionamento da manuale di una democrazia parlamentare nella quale il governo nasce in Parlamento e viene riconosciuto e battezzato dal Presidente? Verrà anche sostenuto dalla .sua maggioranza parlamentare e sarò operativo quanto il suo programma e i suoi partiti vorranno e i suoi ministri sapranno. Quel che dovrebbe essere eclatante è la constatazione che nessun presidenzialismo di stampo (latino) americano offre flessibilità. Anzi, i rapporti Presidente/Congresso sono rigidi. Il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso che, a sua volta, non può sfiduciare e sostituire il Presidente. Nel passato, spesso, l’uscita dallo stallo era un golpe militare.
Nessuna legge elettorale, nemmeno l’apprezzatissima Legge Rosato, può rendere elastico il funzionamento del presidenzialismo che, come abbiamo visto con Trump, ha evidenziato molti degli elementi più eclatanti di una crisi di sistema. Altro sarebbe il discorso sul semipresidenzialismo, da fare appena i proponenti ne chiariranno i termini e accenneranno ad una legge elettorale appropriata. Nel frattempo, sono fiducioso che in vista del post-25 settembre il Presidente Mattarella stia diligentemente raccogliendo tutti gli spartiti disponibili e facendo con impegno e solerzia tutti i solfeggi indispensabili per suonare al meglio la sua fisarmonica. Altri saranno i cacofoni.
Pubblicato il 30 agosto 2022 su Formiche.net
Dizionario per capire il confuso dibattito politico di questi giorni @DomaniGiornale


Caro Direttore,
mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate e estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della Scienza Politica.
Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington, D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia). Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui Sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso. Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere “Rinascita”). Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985 ho fatto parte della Commissione Bozzi per le Riforme Istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della DC, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la Relazione di Minoranza della Sinistra Indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei. Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il NO al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.
Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa. Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il Presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento libitum il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.
Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi. Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della Sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e. Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.
L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti. Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della Repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea. Esultano le cancellerie degli Stati-membri dell’Unione Europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione “mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania”, di Giovanni Toti (forse un omonimo, Professore di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università della Liguria, non certamente il Presidente della Regione, ma non ho visto smentite).
Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare. Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della Legge Rosato il cosiddetto diritto di tribuna ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra Italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma, chi sa, talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali. I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai. Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.
Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli USA, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla Presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli Stati. Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e, comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.
So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.
GIANFRANCO PASQUINO
Accademico dei Lincei
Pubblicato 7 agosto 2022 su Domani
Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino
“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.
Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.
Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.
Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.
Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net