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Apprendisti riformatori sul palco
Le approssimative conoscenze costituzionali del Movimento 5 Stelle, del loro fondatore Grillo, del loro guru Casaleggio si accompagnano a proposte improvvisate. Possono anche sembrare gravi, come l’impeachment che Di Maio voleva lanciare contro il Presidente Mattarella sicuramente “reo” di rispettare e imporre il rispetto della Costituzione anche nella fase di formazione del governo. Poi è venuto Casaleggio a dichiarare la probabile futura inutilità del Parlamento che sarà essere sostituito da qualcosa tecnologicamente più avanzato e più moderno, per esempio, perché no?, dalla sua piattaforma Rousseau. Infine, Grillo ha scoperto come domare il Presidente della Repubblica: togliendogli la Presidenza del Consiglio Supremo di Difesa e del Consiglio Superiore della Magistratura nonché il potere di nomina dei Senatori a vita. Sono subito insorti i difensori della Costituzione, ma, francamente, non ne vale proprio la pena anche perché l’abolizione dei senatori a vita, frequentemente e variamente proposta, non sarebbe certo una diminuzione della democraticità del sistema politico italiano. Grillo ha forse voluto mandare un avvertimento al Presidente Mattarella: “non ti mettere di traverso alla manovra”. Infatti, è proprio autorizzando o no i disegni di legge del governo e promulgandoli o no che il Presidente della Repubblica italiana esercita in maniera visibile reale potere istituzionale e politico. La maniera non visibile, ma non meno efficace, consiste nelle comunicazioni informali fra i Palazzi. Il Presidente italiano, in quanto rappresentante (art. 87) della “unità nazionale” ha il dovere, oltre che il diritto, di valutare nelle sue linee generali se quanto il governo fa o si propone di fare va o no a scapito dell’unità nazionale, della coesione, del benessere. L’ha fatto sapere più volte in questi mesi nei suoi discorsi ufficiali con riferimenti felpati, ma limpide alle avventurose politiche di Di Maio e Salvini. A proposito di queste politiche, non è affatto detto che, solo perché le loro linee generali sono contenute nel “Contratto di governo”, debbano necessariamente essere accettate anche danneggiano l’economia e violano impegni presi con l’Unione Europea.
Più di tutte le parole di Di Maio, Grillo, Casaleggio, comunque criticabili per faciloneria e esasperazioni, contano le proposte ufficiali che il Movimento ha concretamente avanzato: riduzione di un terzo dei parlamentari e introduzione del referendum propositivo. Di quest’ultimo, utile potenziamento di democrazia diretta, esistono tracce nelle Commissioni Riforme Istituzionali fin dal 1983. La riduzione del numero di parlamentari andrebbe motivata, non solo con esigenze risparmiose: ridurre i costi della politica, ma anche con riferimento a miglioramenti nel funzionamento del Parlamento e della rappresentanza politica per la quale, però, ci vorrebbe una riforma decente dell’attuale legge elettorale indecente. Ma, forse è già chiedere troppo a riformatori pentastellati, non stellari.
Pubblicato AGL il 23 ottobre 2018
I nodi. Dal Senato al Cnel: cosa c’è da cambiare
Una delle argomentazione sulle quali puntano i corifei del SI’ è che se vincesse il NO rimarremo nella palude, in mezzo al guado, oppure, addirittura, retrocederemmo nel Medioevo (ben preparati grazie alle previsioni dell’Ufficio Studi di Confindustria). Dicono che le posizioni costituzionali (e elettorali) del variegato schieramento del NO non riuscirebbero mai ad approdare a qualsiasi riforma, neppure la più necessaria. Sono convinto che non sarà affatto così. Senza arrogarmi nessun diritto di parlare a nome di un comitato del NO, provo a fare qualche suggerimento operativo che svuoterebbe le critiche dei si(sic)dicenti riformatori. I destinatari dei miei suggerimenti sono, in primo luogo, tutti i parlamentari che ritengono che le riforme fatte sono sbagliate, pasticciate, confuse e, probabilmente, controproducenti.
Comincio dal metodo. La premessa è che alcune riforme mirate sono certamente necessarie e subito possibili. Debbono, al tempo stesso, essere il prodotto di una visione sistemica, vale a dire come migliorare il funzionamento del sistema politico e come dare più potere agli elettori, ed essere ciascuna a se stante. Lo spacchettamento che i renziani non hanno né saputo fare né voluto accogliere consentirà agli oppositori non immobilisti di dimostrare che molto si può cambiare in maniera tale da offrire agli elettori la possibilità di respingere o confermare separatamente ciascuna singola riforma.
Naturalmente, per quel che riguarda il CNEL, la sua abolizione può essere proposta negli stessi termini della riforma già approvata. La trasformazione del Senato, se non se ne vuole procedere all’abolizione tout court, che appare difficile, ma, secondo me, nient’affatto improponibile, merita di essere ridefinita secondo due direttrici. La prima è l’accompagnamento della riduzione del numero dei senatori con la riduzione del numero dei deputati. Cinquecento deputati, naturalmente, non nominati, ma davvero eletti con una legge che non sia l’Italicum, sono più che sufficienti a garantire efficace rappresentanza politica ai cittadini italiani. Pur privato del potere di dare e di togliere la fiducia al governo, il Senato può rimanere elettivo, dirò subito come, e il numero dei senatori dovrebbe essere esattamente 93. La seconda direttrice riguarda le modalità di elezione dei senatori. La Valle d’Aosta, la provincia di Bolzano e quella di Trento eleggeranno ciascuna un senatore. Abruzzo e Molise saranno (ri)accorpate in una sola regione. I cittadini di ciascuna delle 18 regioni eleggeranno cinque senatori at large, vale a dire su base regionale. Saranno i cinque candidati che ottengono più voti ad entrare in Senato. Grazie alla loro effettiva rappresentatività politica, i senatori potranno occuparsi di leggi costituzionali, dell’elezione di un giudice costituzionale (non due), partecipare all’elezione del Presidente della Repubblica, occuparsi della politica europea. Come si capisce immediatamente, suggerisco che un apposito disegno di legge costituzionale abolisca la davvero anacronistica figura dei senatori a vita, sia quelli di nomina presidenziale sia gli ex-Presidenti della Repubblica. Insisto sul punto fondamentale che la rappresentanza politica è elettiva.
L’abolizione delle province, con eventuali poche correzioni al testo del governo, può essere ripresentata unitamente a una migliore, più riequilibrata, più snella ridefinizione dei poteri delle Regioni e del governo.
Quanto ai referendum, se ne può ovviamente arricchire la batteria, anche con i referendum propositivi, ma non se ne deve rendere più difficile il ricorso alzando a 800 mila il numero di firme necessario per richiederli. Benvenuta è la ridefinizione del quorum con riferimento ai votanti nelle elezioni immediatamente precedenti quel referendum.
Infine, suggerirei ai parlamentari del NO di intervenire con un breve disegno di legge costituzionale che stabilisca che nessun giudice costituzionale potrà ricoprire al termine del suo mandato una carica pubblica e/o elettiva. La logica, di evidenza cristallina, consiste nel cercare di evitare che i giudici costituzionali, anche i migliori fra loro, si facciano influenzare nelle loro sentenze da qualche opportunità futura.
Questo è un mini-programma riformatore che i sostenitori del NO non dovrebbero avere difficoltà a condividere e che, prima che si tenga il referendum costituzionale, i parlamentari del NO potranno altrettanto facilmente e rumorosamente presentare in Parlamento, accompagnandolo da un solenne impegno a operare per tradurlo in singole separate revisioni costituzionali. L’accusa di immobilismo non ha nessuna cittadinanza nella grandissima maggioranza dei sostenitori del NO, fuori e dentro il Parlamento italiano.
P.S. Presentare un disegno di legge sinteticissimo che abolisca l’Italicum e faccia rivivere, con un paio di ritocchi, il Mattarellum, disinnesca anche le critiche di coloro che sostengono che la vittoria del NO condurrebbe ad un sistema elettorale (fin troppo) proporzionale.
Pubblicato il 10 luglio 2016
“Si rischia una deriva confusionaria”; Pasquino boccia le riforme del Governo
di Alessandro Francini per alessandrianews.it
ALESSANDRIA – Il professor Gianfranco Pasquino è un vero e proprio fiume in piena. La sua critica alle contraddizioni legate alle (poche) riforme già attuate dal Governo Renzi e a quelle in programma è appassionata e viscerale.
Pasquino, professore Emerito di Scienza Politica e politologo di fama internazionale, è stato ospite ieri sera, giovedì 26 marzo, dell’associazione Cultura e Sviluppo in qualità di relatore del convegno organizzato per il ciclo dei “Giovedì Culturali”. Obiettivo dell’incontro un’analisi approfondita sull’effettiva utilità delle nuove riforme istituzionali e costituzionali stabilite e discusse negli ultimi mesi di governo, argomento trattato da Pasquino nel suo ultimo libro “Cittadini senza scettro Le riforme sbagliate” (UBE 2015).
Una delle frasi spesso ripetute dal Presidente del Consiglio durante le prime settimane del suo insediamento è stata “questo sarà il Governo del fare”; non sempre però “fare” è sinonimo di “costruire”, perlomeno costruire qualcosa di realmente valido. Pasquino esprime chiaramente il suo giudizio sull’attuale azione di governo; “il Presidente del Consiglio e il Ministro per le Riforme Costituzionali e per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi non hanno alcuna visione complessiva; hanno semplicemente deciso che le riforme devono essere fatte in fretta e che le loro sono le uniche riforme possibili” dichiara il politologo. Un atteggiamento che per buona parte delle opposizioni sta assumento contorni antidemocratici; il professore in questo caso getta acqua sul fuoco affermando che non pensa sussista il pericolo “di derive autoritarie. Penso però che agli elettori vengano dette molte stupidaggini. Il Paese è in balìa di una gran confusione e una grande incompetenza”.
Sul fronte riforme, a detta dei renziani, prima di Renzi il nulla. Su questo argomento il professor Pasquino ha molto da obiettare. “Non è vero che il trent’anni non è stata fatta alcuna riforma. Per esempio nel ’93 abbiamo avuto il Mattarellum, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e di quattro ministeri; è stata inoltre fatta una buona legge sull’elezione diretta del sindaco, dei presidenti delle province e dei consigli comunali e provinciali. Nel 2001 sono state attuate importanti riforme del Titolo V sul rapporto tra Stato e Regioni; nel ’95 il Porcellum. Renzi – continua Pasquino – in più di un anno non ha ancora fatto la nuova riforma elettorale”. Le riforme, quindi, negli ultimi venti anni non sono certo mancate, il problema è che erano quasi tutte sbagliate.
Tra le riforme annunciate dal Governo spicca quella del bicameralismo. Certamente 945 parlamentari sono troppi, ma il nuovo Senato disegnato da Matteo Renzi al professor Pasquino non piace per niente; “se il Senato dovrà rappresentare le autonomie locali mantenere in carica i cinque senatori a vita non servirà a nulla. Perché, inoltre, sono previsti solo 21 rappresentanti dei sindaci? Con quali criteri verranno scelti?”. Anche per ciò che riguarda i rappresentanti delle Regioni scelti dai vari Consigli Regionali il giudizio di Gianfranco Pasquino è assai critico; “non è forse vero che la classe politica regionale è da almeno dieci anni la più screditata del Paese? E dovremmo consentirle di nominare 74 senatori? Questa è sicuramente una riforma che non andava presa in considerazione, almeno non in questo modo” spiega il professore.
Mattarellum, Porcellume e ora, o meglio, prossimamente, Italicum. La nuova legge elettorale, che secondo quanto dichiarato da Renzi verrà presentata a brevissimo, manterrà i capilista bloccati e ciò potrebbe portare ad un Parlamento composto per più di un terzo da deputati selezionati dalle segreterie di partito. “L’Italicum varia di pochissimo rispetto al Porcellum. Inoltre i capilista non rappresenteranno il collegio – sostiene Pasquino – dovrebbe quindi essere introdotto il requisito di residenza nel collegio in cui si è candidati. I capilista bloccati non garantiscono affatto la rappresentanza del collegio”. Una legge elettorale che in sostanza porterebbe all’abolizione delle coalizioni per premiare liste e partiti; peccato che in quasi tutta Europa siano presenti governi di coalizione; “non è un caso – spiega il professore – ma è una scelta. In primo luogo perché una coalizione interpreta meglio l’elettorato di un Paese e poi perché rappresentanza e moderazione sono le caratteristiche fondanti dei governi di coalizione”. Con questo sistema il partito che vince le elezioni può andare alla Camera beneficiando della maggioranza assoluta, potendo fare il bello e il cattivo tempo nella sostanza indisturbato.
In conclusione il professor Pasquino dipinge un quadro a tinte fosche, affermando che “per governare serve esperienza maturata sul campo, non basta darla ad un neofita, che tra l’altro commette tanti errori. Non serve a nulla usare il criterio delle velocità, il solo criterio di cui l’Italia ha bisogno è quello dell’efficacia. Sono davvero preoccupato, perché riforme malfatte in un sistema già malfunzionante producono conseguenze potenzialmente disastrose”. Verrebbe da dire, e il professore chiude effettivamente così il suo intervento prima del dibattito con il pubblico in sala, che in Italia “più che di una deriva autoritaria si dovrebbe temere una deriva confusionaria”.
Pubblicata il 27 marzo 2015
Renzi, perché tutta questa fretta di approvare il “nuovo” Porcellum?
Intervista raccolta da Pietro Vernizzi per ilsussidiario.net
“Alla lucida follia di Berlusconi si è sostituita la non troppo lucida confusione del governo Renzi, i cui principali ministri non stanno facendo ciò cui sono chiamati perché sono privi di una vera esperienza politica”. Ad affermarlo è Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica alla Johns Hopkins University di Bologna.
Renzi vuole votare prima per l’Italicum e poi per il Quirinale, Berlusconi chiede che sia il contrario. Chi la spunterà?
A me i tempi interessano poco e mi interessa molto di più il merito. Questa è una brutta legge elettorale, e approvarla in tempi stretti non significa migliorarla. Invece che a gennaio, potremmo approvarla a maggio purché sia meglio di quella attuale. Capisco d’altra parte che Forza Italia voglia negoziare l’elezione del presidente della Repubblica prima di dare i suoi voti che sono decisivi per approvare la legge elettorale.
L’elezione del capo dello Stato può inasprire le tensioni fino a fare saltare l’accordo sull’Italicum?
No. Il punto però non è l’inasprimento delle tensioni politiche, dietro a cui ci sono ben altre motivazioni. La vera questione è che il Presidente della Repubblica deve essere scelto non perché piace a Renzi e a Berlusconi, ma perché è un uomo o una donna che sa fare rispettare la Costituzione, attuarla, ricordarsi che deve rispettare l’unità nazionale e che deve essere il punto di equilibrio del sistema.
Quali sono le vere ragioni dell’inasprirsi delle tensioni politiche?
Queste tensioni dipendono molto spesso dal linguaggio utilizzato dai leader. Ci troviamo in una politica parlata, e nessuno va a vedere che cosa contengono concretamente i provvedimenti del governo e le controproposte delle opposizioni che spesso non conosciamo. Le opposizioni si limitano a dire no e i loro emendamenti spesso sono presentati in modo folkloristico.
Perché ritiene che l’Italicum sia una brutta legge elettorale?
A non andare bene è l’impianto, che è esattamente quello del Porcellum con piccole variazioni. L’Italicum è un sistema elettorale proporzionale con un premio di maggioranza. In tutta Europa inoltre ci sono sistemi elettorali che incoraggiano la formazione di coalizioni, e non che le impediscono come nel caso di questa riforma. Il fatto che nell’Italicum si dica che un partito deve vincere un premio di maggioranza che gli consente di governare da solo documenta che la nuova legge elettorale è basata su un principio semplicemente sbagliato. Occorre una legge che consenta di rappresentare meglio questo Paese per evitare che troppi elettori si astengano.
Non ci sarà il Mattarellum come legge elettorale transitoria, ma l’Italicum sarà post datato al 2018. Che cosa ne pensa?
Questa è una follia, si fa una legge elettorale votata prima del 15 gennaio per farla entrare in vigore soltanto nel 2018. In Italia le norme entrano in vigore 15 giorni dopo la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L’idea di posticiparla di tre anni mi pare francamente assurda. Trovo inoltre assurdo rigettare il Mattarellum sul quale invece ci sarebbe una notevole convergenza parlamentare.
La “lucida follia” era uno dei motti di Berlusconi. Renzi lo ha fatto proprio?
La follia la vedo, la lucidità un po’ meno. A gennaio il presidente del consiglio aveva presentato tre proposte di legge elettorale per poi sceglierne una quarta, che nel corso del tempo è notevolmente cambiata su punti non marginali. Si reintroducono le preferenze, si prevede il ballottaggio e le soglie si abbassano dall’8% al 3%.
All’orizzonte vede una nuova sentenza di incostituzionalità della Consulta?
Il presidente della Repubblica qualche tempo fa ha dichiarato che la legge elettorale avrebbe dovuto essere sottoposta a “opportune verifiche di costituzionalità”. Lo stesso Napolitano aveva sollevato dubbi, e non so se a diradarli siano state sufficienti queste piccole modifiche. Personalmente mi sembra che I dubbi di costituzionalità restino ancora tutti, anche se innanzitutto questa legge è un pasticcio.
Dal 31 gennaio alla Camera torna la riforma costituzionale. Che cosa accadrà?
Renzi si vanta di avere i voti e quindi staremo a vedere. Alcune parti di quella riforma, che però non sono sottoposte all’attenzione dell’opinione pubblica, sono sacrosante: mi riferisco in particolare all’abolizione del Cnel, che proposi già 30 anni fa quando ero senatore. Anche la riforma del rapporto tra Stato e Regioni, checché ne dica Renzi, era già stata attuata nel 1999.
Che cosa ne pensa della modifica del Senato?
E’ giusto modificare il bicameralismo paritario, ma continuo a credere che i senatori nominati per sette anni dal presidente della Repubblica non abbiano nulla a che vedere con un’autentica riforma di Palazzo Madama. E continuo a pensare che sarebbe un gesto nobilissimo da parte di Napolitano affermare che una volta terminato il suo mandato non intende fare il senatore a vita.
Sel ha attaccato Renzi affermando che l’agenda delle riforme la detta il Parlamento e non il governo. Lei che cosa ne pensa?
Il governo deve avere un’agenda e i parlamentari che sono stati eletti per sostenere il governo devono tradurla in pratica. Se Renzi è quindi in grado di fare funzionare la sua maggioranza parlamentare sui provvedimenti del governo, che riflettono l’agenda elettorale e le proposte fatte agli elettori, su questo ha il diritto di andare avanti. Ma sulle riforme costituzionali che riguardano il Paese è il parlamento che rappresenta compiutamente il Paese, mentre il governo rappresenta solo una parte e cioè la maggioranza che ha vinto le elezioni.
L’agenda del governo sta risentendo negativamente della fretta di fare le riforme?
L’agenda risente anche del problema della fretta, insieme a quello dell’ignoranza e della superficialità di alcuni dei componenti della squadra di governo, incluso il presidente del consiglio.
E di chi oltre a lui?
Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è una persona capace, eppure manca la sostanza. Il suo ruolo non è solo quello di fare fronte alle emergenze, come è il caso di Mafia Capitale, ma anche di dare risposte al fatto che la giustizia civile italiana funziona malissimo. Mi domando se il ministro Orlando darebbe un voto di sufficienza all’attività che egli stesso ha svolto finora.
Il ministro Orlando è l’ultimo della classe?
Non è affatto così, anzi ne ho grande stima. Ho stima anche per il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ma anche nel suo caso mi domando se lei si promuoverebbe. Il ministro non è riuscita a rilanciare l’attività di istruzione pubblica e di ricerca.
Perché abbiamo dei bravi ministri, come Orlando e la Giannini, che però non fanno le cose per le quali sono stati scelti?
Perché i ministri non sono stati scelti sulla base delle loro competenze e di una qualche pregressa attività parlamentare. Un politico che si dedica all’attività parlamentare ha molto da imparare. Nel Regno Unito e in Germania non si diventa ministri se non si è stati parlamentari per diversi anni. Invece in Italia sembra che i migliori ministri siano quelli che vengono dalla società civile, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Pubblicata giovedì 18 dicembre 2014