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Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.
Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.
Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.
Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano
La democrazia imperfetta #Recensione Minima Politica @UtetLibri su @lasiciliait
Il libro. ”Minima politica” di Gianfranco Pasquino analizza conoscenze politiche che dovrebbero avere tutti i cittadini. La recensione di Paolo fai
«Laddove le persone hanno poco potere sulla politica e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico»
Gianfranco Pasquino, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, ha da poco licenziato alle stampe un libro «Minima politica – Sei lezioni di democrazia», Utet 2019, pp. 175, euro 14,00, il cui titolo – spiega Pasquino – «intende essere il mio modesto omaggio a Theodor Adorno, “Minima moralia” (1951) […], nel convincimento che per arrivare a grandi cose bisogna cominciare dalle piccole cose, impararle e farle il meglio possibile. “Minima politica” contiene, analizza e, spero, illumina il minimo di conoscenze politiche che i cittadini dovrebbero acquisire se desiderano adempiere efficacemente ai loro doveri civili e democratici».
Innervato di rigore scientifico e insieme meritoriamente divulgativo, il libro attraverso sei sezioni (Leggi elettorali, Rappresentanza politica, Presidenti della Repubblica, Deficit democratico, Governabilità, Non liberali, non democrazie) offre al lettore un’analisi, chiara e puntuale, delle problematiche attinenti al funzionamento della forma di governo, la democrazia, in cui, quanto meno per forza di etimologia, il popolo, ovvero la comunità degli individui-cittadini, è il detentore del potere politico.
Intanto, Pasquino non è tra i politologi che cantano la messa funebre alla democrazia. Né è pessimista sul futuro della democrazia. Perché, alle lamentazioni degli apocalittici, per i quali «alle democrazie manca sempre qualcosa», egli ribatte che «le democrazie sono imperfette ed è giusto così. Forse è persino meglio così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello che manca, spesso trovandolo».
Allora, dovendo scegliere fior da fiore, troveremo che a Pasquino «pare che, in maniera più appropriata, il deficit democratico meriti di essere riferito al potere dei cittadini, etimologicamente: deficit di potere del popolo. Laddove i cittadini hanno poco potere sulla politica e sui politici e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico». Spesso, tale deficit si avverte quando vanno al potere governi neoconservatori (Tatcher, Reagan, ma anche Trump, che per Pasquino non ha «la benché minima infarinatura di liberalismo»), il cui obiettivo è «comprimere la partecipazione politica, scoraggiare i movimenti collettivi, disincentivare la mobilitazione sociale e reprimerla», al fine di ridurre il “sovraccarico” ovvero «l’accumularsi di un numero eccessivo di domande» da parte dei cittadini, che, secondo Richard Rose, sarebbe la causa della crisi di governabilità.
Il libro si apre e si chiude, ad anello, con due capitoli che si illuminano l’un l’altro: “Leggi elettorali” e “Non liberali, non democrazie”. Le democrazie si fondano sul voto dei cittadini. Ne consegue che «il rapporto tra elettori, da un lato, e rappresentanti e governanti, dall’altro, è accertatamente influenzato dalla legge elettorale che viene utilizzata». Pasquino classifica le riforme elettorali in “partigiane” e “sistemiche”. Fu sistemica quella elaborata nel 1946 dalla Costituente, che riguardava il funzionamento del sistema politico. Tutte quelle venute dopo sono state partigiane, compresa la cosiddetta “schiforma” Renzi-Boschi, su cui Pasquino, caustico, osserva: «Che la stabilità del governo […] dovesse essere affidata al premio di maggioranza ricorda la legge truffa [del 1953], la riabilita e la redime».
Se vengono meno, sostiene con forza Pasquino, i capisaldi delle democrazie liberali moderne, cioè, «da un lato, il riconoscimento, la protezione, la promozione dei diritti dei cittadini, delle persone, e, dall’altro, la separazione delle istituzioni e dei poteri», avremo solo «sistemi politici in cui si tengono elezioni intrinsecamente poco libere», quindi non liberali, non democrazie. Tra i fini di quelle pseudo-democrazie (la Turchia di Erdoğan e l’Ungheria di Orbán, ma anche la Russia di Putin), che Pasquino definisce “democrazie elettorali”, «non si trova praticamente mai quello di dar vita e senso alla “rule of law” (“governo della legge”), o (“stato di diritto), o “nomocrazia”), di tenere separate le istituzioni, di approntare freni e contrappesi, di creare canali e strutture di responsabilizzazione (“accountability”) dei governanti e dei rappresentanti. Questo è il catalogo al quale debbono attingere coloro che vogliono costruire uno stato, una democrazia compiutamente liberale». Da solo, però, il “governo della legge” non basta. Occorre anche una libera stampa e, principalmente, una forte consapevolezza politica nei cittadini. «Le (non) democrazie illiberali –conclude Pasquino – si fondano su cittadini, più o meno consapevolmente, illiberali». E sul silenzio imposto agli oppositori e ai giornalisti. Come nel «caso, esemplarmente tragico, della giornalista Anna Politkovskaja».
Pubblicato il 25 Marzo 2020 sul quotidiano La Sicilia
INVITO Minima Politica. Sei lezioni di democrazia #12febbraio #Bologna @UtetLibri
Mercoledì 12 febbraio 2020 ore 18 La Feltrinelli Libreria Piazza ravegnana - Bologna
Gianfranco Pasquino presenta Minima politica (Utet). Con il cuore e la testa ai Minima moralia di Theodor Adorno, Gianfranco Pasquino impartisce sei nitide lezioni sui nodi cruciali della politica contemporanea: i meccanismi elettorali, gli speculari spettri di governabilità e rappresentanza, il ruolo e i compiti delle istituzioni nella complessa architettura della democrazia.
Ecco come funziona una legge elettorale con il doppio turno
Non si può parlare di doppio turno di collegio e di doppio turno di lista come se fossero quasi intercambiabili. L’intervento di Gianfranco Pasquino
Non si deve permettere neppure ai più acrobatici interpreti dei sistemi elettorali di scrivere, à la D’Alimonte, di doppio turno indifferentemente, che sia di collegio (uninominale) oppure fra partiti/coalizioni come quello previsto nell’Italicum. Faccio, non completamente, grazia ai lettori sottolineando, per l’ennesima, ma non ultima, volta che da nessuna parte al mondo esiste un meccanismo come quello del defunto, da non compiangere e meno che mai resuscitare, Italicum.
I sistemi elettorali servono a tradurre voti in seggi per dare vita a un Parlamento, non, da nessuna parte, tantomeno nelle democrazie parlamentari, a un governo. Il doppio turno francese applicato in collegi uninominali elegge i parlamentari. Al primo turno, giova ripeterlo e sottolinearlo, gli elettori votano in maniera prevalentemente sincera, vale a dire, per il/la candidato/a preferito/a che riuscirà a passare al secondo turno soltanto qualora riesca a superare una certa soglia percentuale (in Francia, attualmente, il 12,5 per cento degli aventi diritto). Pur nella consapevolezza che il suo preferito non supererà la soglia, l’elettore decide di votarlo per rafforzarne il potenziale di contrattazione al secondo turno. Quei suoi voti, una volta contati, potrebbero essere decisivi per fare vincere il seggio a un altro candidato di un partito con il quale è possibile, da un lato, contrattare i voti in un altro collegio, dall’altro, eventualmente, formare una coalizione di governo. Al secondo turno, che è sbagliato definire ballottaggio poiché nella grande maggioranza dei collegi vi saranno più di due candidati, alcuni elettori avranno la possibilità di votare il loro candidato preferito, altri finiranno per scegliere il candidato meno sgradito. Fra il primo e il secondo turno, tutti gli elettori avranno avuto l’opportunità di acquisire un numero aggiuntivo di informazioni politicamente rilevanti prodotte e diffuse dai candidati, dai partiti, dai mass media.
Invece, il doppio turno previsto dall’Italicum avrebbe dovuto svolgersi fra due partiti e/o coalizioni (il significato di “lista” non fu mai furbescamente precisato). Dunque, era sostanzialmente un ballottaggio. In maniera molto accondiscendente e supponente, i suoi laudatores riconoscevano che il premio attribuito al vincitore, anche qualora fosse stato soltanto del 15 per cento, distorceva la rappresentanza politica a favore di quella che, impropriamente, chiamavano governabilità. Certo, quel premio avrebbe dato modo allo schieramento maggioritario di godere di una confortevole maggioranza assoluta in Parlamento. Che questa fosse governabilità, se quella maggioranza non avesse poi avuto la capacità di prendere decisioni e di farle applicare, è evidentemente tutto da dimostrare.
Ad ogni buon conto, rimane la differenza verticale fra il doppio turno di collegio e il doppio turno Italico. Il primo serve a eleggere i parlamentari, il secondo a dare vita a un governo. Sono, palesemente, incomparabili e, altrettanto palesemente, non sono affatto intercambiabili. In particolare, il doppio turno Italico incide sulla forma di governo fuoriuscendo dalla democrazia parlamentare ed entrando in terra incognita.
Al di là delle preferenze personali, meglio se sorrette dalle conoscenze scientifiche, le differenze fra i due doppi turni sono profonde. Chiunque le cancelli sta manipolando, più o meno consapevolmente, a spese di tutti, il dibattito pubblico e non dà nessun contributo alla formulazione di una legge elettorale migliore, non è difficile, della pessima Legge Rosato.
Pubblicato il 2 maggio 2018 su Formiche.net
Contro la politica degli analfabeti
Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”. I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni cinquanta, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo apertamente e esplicitamente fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia DC-PCI come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva moltissimo a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il “Corriere della Sera” (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta lo stato di consolidamento, davvero molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla “Rivista Italiana di Scienza Politica” (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.
Pubblicato il 3 aprile 2018
Come si valutano le leggi elettorali?
Avanti (e indietro), sale (e scende) il dibattito sui sistemi elettorali con politici (e si capisce) e commentatori (che dovrebbero studiare qualcosina) che fanno affermazioni faziose e sbagliate, anzi, del tutto scriteriate. Per (ieri) oggi e domani, –sì, grazie alle mie conoscenze di scienza politica vedo nel futuro–, ecco come giudicare le leggi elettorali in maniera elegante e parsimoniosa.
Dizionario di Politica Bobbio, Matteucci, Pasquino. Perchè le parole contano!
Intervista raccolta da Annamaria Abbate per la Casa della Cultura
Giunto alla sua quarta edizione, a quarant’anni dalla data della prima pubblicazione, il Dizionario di Politica di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino resta un’opera unica nel suo genere. Uscito per la prima volta nel 1976, negli anni Ottanta fu tradotto anche in spagnolo e portoghese, lingue parlate in molti Paesi allora nuovi alla democrazia. Diventato un “classico” della Scienza politica, ha accompagnato generazioni di studiosi e ora è riproposto dalla UTET in una nuova edizione aggiornata
Leggo dalle sue note bio-bibliografiche che lei, Prof Pasquino, si dice “particolarmente orgoglioso” di avere condiretto, insieme a Bobbio e a Matteucci, il Dizionario di Politica. Ci racconta perché e com’è successo?
Semplicissimo. Fui cooptato da entrambi, Bobbio, il docente con il quale mi ero laureato a Torino nel marzo 1965, e Matteucci, il docente che mi aveva “reclutato” come professore incaricato di Scienza politica nell’Università di Bologna nel novembre 1969. Svolsi il compito di Redattore capo della prima edizione, sette anni di lavoro, pubblicata nel 1976. Da Bobbio, filosofo della politica, e da Matteucci, storico delle dottrine politiche, ho imparato molto, a cominciare da come si scrive una voce di dizionario (di politica, non di scienza politica), a come si citano gli autori, tutti, anche quelli con i quali si è in disaccordo, a come si riscrive quello che collaboratori disinvolti e sicuri di sé, ma presuntuosi e irritabili, hanno consegnato. Sia Bobbio sia Matteucci, molto esigenti con se stessi, mi parevano, e qualche volta osai dirlo loro, fin troppo arrendevoli nei confronti di alcuni loro colleghi, diciamolo, rigidi. Fu, poi, nel corso della preparazione della seconda edizione, che uscì nel 1983, che Bobbio decise, con il beneplacito di Matteucci, di promuovermi condirettore: un premio straordinario. Ne fui felice e ne rimango, per l’appunto, “particolarmente orgoglioso”.
Che tipo di lavoro vi proponevate e ne siete stati soddisfatti?
Volevamo preparare uno strumento il più articolato possibile di analisi, storica, filosofica, politologica, dei concetti, dei fenomeni, dei movimenti politici più importanti, non solo italiani, di un’analisi che fosse precisa e compiuta, ma anche suggestiva, che offrisse il massimo di informazioni, ma anche prospettive per approfondimenti. Nessuno di noi tre pensava opportuno rincorrere l’attualità e le mode; tutt’e tre abbiamo cercato di illuminare i temi classici della politica. Al proposito, mi fa grandissimo piacere sottolineare che le non poche voci assolutamente fondamentali scritte da Bobbio e da Matteucci hanno retto al passare del tempo. Anzi, rimango convinto che chiunque voglia capire la democrazia e la teoria delle elites, farebbe molto bene a leggere le due voci di Bobbio così come chi vuole conoscere che cosa sono il costituzionalismo e il liberalismo deve assolutamente leggere le due voci di Matteucci. Entrambi scrissero diverse altre voci molto importanti. Vorrei segnalare Disobbedienza civile di Bobbio e Diritti dell’uomo di Matteucci. Naturalmente, tutt’e tre vedevamo problemi irrisolti, inconvenienti analitici, fenomeni insorgenti. Prima nel 1983 e poi, nella terza edizione, del 2004, abbiamo cercato di porvi rimedio. Faccio un solo esempio: la riscrittura delle voci comunismo e socialismo diventate in parte obsolete in parte inutili per chi leggesse il Dizionario nel 2004. Bobbio non poté vedere la 3a edizione poiché morì due settimane prima della pubblicazione, ma avevamo discusso insieme tutti cambiamenti (e gli alleggerimenti).
Come si spiega l’assenza di Giovanni Sartori, il suo “secondo” maestro? Come mai non gli avete affidato nessuna voce?
In quegli anni Sartori, che si trasferì a Stanford nell’estate del 1976, era impegnatissimo a scrivere il suo fondamentale Parties and party systems (pubblicato nel 1976 e del quale celebreremo opportunamente il 40esimo anniversario). Interpellato, ci fece notare che Bobbio e Matteucci potevano scrivere ottimamente le voci, Costituzionalismo, Democrazia, Liberalismo, Scienza politica, sulle quali lui aveva già scritto molto. Quanto ai Sistemi di partiti disse che potevo provarci io stesso che, insomma, dovevo pure avere letto quanto lui aveva scritto. Per le edizioni successive acconsentì a mandarci qualche riga di apprezzamento di cui, conoscendolo, siamo tuttora molto lieti e grati!
E lei, prof Pasquino, di quali voci si sente “particolarmente orgoglioso”?
Premetto che mi è sempre piaciuto cercare di formulare le definizioni più precise dei concetti politici, rintracciando quel che serve nella storia e collegandolo alle trasformazioni avvenute e alle nuove interpretazioni. Potrei dire che tutte le mie voci mi sono care, ma non è così (anche perché, talvolta, mi capita persino di avere un po’ di senso critico nei miei confronti). Sono piuttosto soddisfatto delle voci Forme di governo, Militarismo e Rivoluzione. Nella nuova edizione ho scritto, in maniera che mi pare efficace, le voci Accountability, Deficit democratico e Scontro di civiltà. Mi pongo costantemente in un dialogo ideale con i lettori, le loro curiosità e i loro interessi. Cerco di scrivere in maniera tale da soddisfare i lettori senza ridurre il tasso di inevitabile tecnicismo che ciascuna voce deve contenere. Lo faccio osservando la lezione di Bobbio e di Luigi Firpo: la chiarezza espositiva è una conquista che giova sia a chi scrive sia a chi legge.
Il Dizionario è oramai arrivato alla quarta edizione che esce quarant’anni dopo la prima. Potrebbe dirci che tipo di interventi ha fatto, ha suggerito, ha incluso?
Anche per non produrre un testo troppo voluminoso e non più maneggevole, ho fatto cadere alcune voci di esclusivo interesse storico che si trovano in molti repertori. Abbiamo proceduto al rinfrescamento di diverse voci e alla riscrittura specifica in chiave comparata della voce Mafia (Federico Varese, cervello italiano, brillante studioso, da quasi vent’anni a Oxford), di Terrorismo politico (Luigi Bonanate) per includervi anche il terrorismo cosiddetto internazionale, e di Unione Europea (Roberto Castaldi) perché l’UE cambia, purtroppo, non sempre in meglio, ma merita di essere analizzata con grande attenzione. Poi ci sono diciassette voci del tutto nuove che vanno, ne cito solo alcune, da Alternanza a Capitale sociale, da Cittadinanza a Patriottismo, da Consociativismo a Governance, da Narrazione a Primarie (non poteva mancare!). Tutte le volte che analizzo la politica e che commissiono analisi ai colleghi mi rendo conto quanto sia importante essere attentissimi e chiarissimi nelle definizioni, articolati nelle interpretazioni, non-ideologici nelle valutazioni. Tre qualità che è tuttora possibile apprezzare e tentare di imparare da due maestri come Bobbio e Matteucci.
Conoscendola, prof Pasquino, e avendola spesso ascoltata parlare e, come dice lei, “predicare”, non posso credere che lei non voglia niente di più che definizioni, interpretazioni, valutazioni, dal Dizionario di Politica.
Certamente, conoscendomi, anch’io so che desidero molto di più. Mi piacerebbe che il Dizionario fosse ampiamente utilizzato e diventasse indispensabile non soltanto (la prego di notare l’ordine) ai colleghi e agli studenti, ma anche agli operatori dei mass media, sì, i giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione, magari diventasse, come sento che si dice, “virale” in rete (sic) e a un’opinione pubblica che rifiuti di farsi ingannare dagli affabulatori. Ciò detto, chiudo il mio piccolo libro dei sogni. Il predicatore che è in me rinsavisce; si disincanta; torna al realismo, alla politica che c’è; si rimette a studiare, a scrivere, a criticare, cercando di migliorare il linguaggio e le analisi politiche, e si rallegra nel dedicare questa nuova edizione alla memoria di Norberto Bobbio e di Nicola Matteucci (anche loro “predicatori” di una politica esigente e migliore).
Pubblicato il 28 aprile 2016