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Pasquino: “Schlein e Conte discutono su tutto. E Meloni governa…” #intervista @ildubbionews


Il professore critica l’atteggiamento della segretaria del Pd e del leader del M5S: “Sono entrati in uno stallo dal quale è difficile uscire, perché servirebbe una fantasia che non hanno”. Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, commenta i recenti screzi tra Pd e M5S e spiega che «nessuno si sta impegnando affinché gli elettorati dei due partiti capiscano che o si mettono insieme o resteranno all’opposizione per i prossimi dieci anni».
Professor Pasquino, Calenda lamenta la fine del dialogo con Pd e M5S sulla sanità, dopo le convergenze sul salario minimo: l’opposizione riuscirà a trovare altre punti d’incontro?
Da quello che vedo mi pare che né Schlein né Conte né gli altri, tra cui Calenda, abbiano una strategia. Operano giorno per giorno reagendo in maniera non particolarmente brillante a quello che fa il governo. La battaglia sul salario minimo è stata una cosa buona, visto che sono giunti a una specie di accordo di fondo ponendo il tema sull’agenda governativa, ma poi non si è visto altro.
Pensa che sia una questione di posizionamento in vista delle Europee?
C’è sicuramente competizione tra i partiti, ma è anche vero che i loro elettorati sono diversi e nessuno si sta impegnando affinché quegli elettorati capiscano che o ci si mette insieme o si è destinati, come dice la presidente Meloni, a restare all’opposizione per i prossimi dieci anni.
Come finirà la partita sul salario minimo?
Il Cnel farà una proposta che assomiglia a quella che ha ricevuto, con alcune variazioni. Giorgia Meloni la accetterà cambiando alcune cose ma rimanendo nel solco del salario minimo e dicendo che la sua è una proposta migliorativa rispetto a quella delle opposizioni. Non si chiamerà salario minimo, ma la presidente del Consiglio se lo intesterà.
Non pensa che, soprattutto tra Pd e M5S, ci siano terreni sui quali giocare le stesse partite?
Il punto è che non vedo le modalità con le quali possano convergere. Sono entrati in uno stallo dal quale è difficile uscire, perché servirebbe una fantasia che non hanno. Una volta contatisi alle Europee vedremo cosa succederà, ma anche lì non mi aspetto sorprese. L’unica potrebbe essere lo sfondamento del Pd attorno al 25 per cento, che mi auguro, o un declino del M5S. Ma quest’ultimo evento non sarebbe positivo perché la diminuzione dei voti farebbe aumentare la radicalità di quel partito, allontanando ancora di più le possibilità di un’alleanza con i dem.
A proposito di dem, crede che Schlein abbia impresso quella svolta al partito che tanto predicava o gli apparati del Nazareno impediscono qualsiasi tentativo di rivoluzione?
Gli apparati non sono sufficientemente forti da impedire nulla, ma ho l’impressione che l’input di leadership che arriva da Schlein non sia adeguato. Non si è ancora impadronita della macchina del partito e questo segnala un elemento di debolezza che ha poco a che vedere con le politiche che propone. Sono le modalità con le quali le propone a essere sbagliate. Insomma vedo molto movimento e non abbastanza consolidamento.
Uno che si muove molto è Dario Franceschini, che sta dando vita a una nuova corrente di sostegno alla segretaria: servirà?
Non mi intendo abbastanza di queste cose perché ho sempre detestato le correnti. Detto ciò, il punto fondamentale è che sostenere la segretaria è utile al partito, contrastarla fa male a tutti. Fare un correntone contro la segretaria è sbagliato, ma lo è anche fare una correntina a favore della leader. Se le correnti agissero sul territorio per accogliere nuovi elettori sarebbe positivo, ma devo dire che vedo poco movimento sul territorio.
Beh, le feste dell’Unità non sono certo quelle di una volta…
Per forza, continuano con la pratica di invitare sempre gli stessi senza cercare qualcosa di nuovo e creare così un dibattito vero che catturi l’attenzione della stampa.
Un tema di cui si dibatte molto è l’immigrazione: pensa che su questo Pd e M5S possano trovare una strategia comune di contrasto alle politiche del governo, che proprio su di esse fonda parte del suo consenso?
Il tema è intrattabile. Non so se il governo raccoglie consensi con le strategie sull’immigrazione ma di certo non sta risolvendo il problema. È intrattabile perché nessuno ha una strategia e tutti, maggioranza e opposizione, pensano che sia un’emergenza congiunturale quando invece è strutturale. Per i prossimi venti o trent’anni uomini, donne e bambini arriveranno in Europa dall’Africa e dall’Asia perché non hanno possibilità di mangiare o perché scappano da regimi autoritari. L’unica cosa da fare è agire in Europa senza contrastare le visioni altrui e andando in una direzione di visioni condivise e obiettivi comuni. E su questo il governo mi pare carente.
In Slovacchia ha vinto le elezioni Robert Fico, iscritto al Pse ma pronto ad allearsi con l’ultradestra e smettere di inviare armi a Kyiv. È un problema per la sinistra europea?
Sono rimasto stupito dall’incapacità dei Socialisti europei di trattare con i sedicenti socialdemocratici di Fico. La sua espulsione doveva avvenire già tempo fa. Mi pare che siano 4 gli europarlamentari del suo partito e dovevano essere cacciati. Perché non si può stare nel Pse se non si condividono i valori del partito, e Fico non li condivide. Valeva la stessa cosa per il Ppe con Orbán, e questo potrebbe far perdere voti agli uni e agli altri.
In caso di crollo di Popolari e Socialisti ci sarà spazio per maggioranze diverse a Bruxelles?
Meloni dice che è in grado di portare sufficienti seggi a Strasburgo per far sì che ci sia un’alleanza tra Popolari, Conservatori e Liberali e quindi fare a meno dei Socialisti. Io non credo che questi numeri ci saranno, a meno che non siano i voti degli stessi Popolari a spostarsi verso i Conservatori. È più facile pensare che ci sarà continuità nelle alleanze, dopodiché vedremo chi siederà al vertice dell’Ue. Ma è ancora presto per parlarne.
Eppure Salvini scalpita e tira per la giacchetta Tajani tutti i giorni sognando il “centrodestra europeo”. Ci sono possibilità?
Le destre son quelle che sono e non credo che l’Europa possa permettersi di accettare Salvini e Le Pen all’interno della maggioranza che governerà nei prossimi cinque anni.
Pubblicato il 3 ottobre 2023 su Il Dubbio
Slovacchia: non stracciarsi le vesti, contrastare l’evitabile @formichenews

Non so come si dice in slovacco “Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”, ma so che un mieloso soft power non ha finora ottenuto i risultati necessari. Meglio un not so soft power congegnato e concordato con gli slovacchi democratici e europeisti. Ora. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza politica
Comincio con le attenuanti. Fico non ha propriamente “vinto” le elezioni, ma il suo partito ha avuto il maggior numero di voti con una percentuale, 23,37, che segnala che per lui non ha votato neanche un quarto degli slovacchi. Secondo, c’è stata una massiccia opera di disinformazione russa, sottovalutata e non contrastata. Terzo, anche il Partito Socialista Europeo porta la responsabilità di non avere espulso, indirettamente legittimandoli, Fico e i suoi sedicenti europarlamentari socialdemocratici per usufruire di un pugnetto di voti. Infine, ultimo ma non infinitesimo, Fico deve dare vita ad una coalizione che raggiunga la maggioranza assoluta nel Parlamento slovacco e che, comunque, qualora vi riuscisse, sarà abbastanza eterogenea.
Ciò detto, la Slovacchia del patriota Fico, così definito nelle frettolose congratulazioni del “compagno” di banco Orbán, pone un problema non particolarmente nuovo. In alcuni Stati-membri dell’Unione Europea, situati nell’Europa centro-orientale già comunista, le regole, i comportamenti, le concezioni democratiche non sono propriamente vitalissime e vivacissime. L’allargamento del 2004, pur probabilmente necessario per agganciare quei paesi ad una Unione democratica, non è stato seguito con sufficiente attenzione e cura dagli altri Stati-membri, dall’Europarlamento e dalla burocrazia europea. Semplicistico mi sembra attribuire all’aggressione russa quel che potrebbe succedere in Slovacchia.
La sfida dei migranti e la risposta degli Stati del gruppo Visegrad avevano già suonato più di un campanello d’allarme. D’altronde, non è che gli “altri” Stati dell’Unione abbiano già saputo dare una risposta comune e condivisa, concordata e solidale e, soprattutto, efficace e strutturale ai migranti e ai problemi socio-economici da cui originano e di cui sono portatori.
Adesso è il tempo della congiuntura: sventare un governo Fico filo russo e di stampo orbaniano, operando probabilmente con un ventaglio di avvertimenti soffici resi credibili dalla non disponibilità dei fondi europei se verranno oltrepassate certe linee sui diritti. Impegnarsi da parte dell’Unione a contrastare i disinformatori russi e i loro alacri sostenitori, imparando e impartendo lezioni che serviranno anche in non pochi altri contesti. Sviluppare una propaganda ampia, battente, trasparente, esplicita per chiarire all’opinione pubblica slovacca vantaggi e pregi di cui ha già goduto, di cui usufruisce e che potrebbe perdere. Non so come si dice in slovacco “Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”, ma so che un mieloso soft power non ha finora ottenuto i risultati necessari. Meglio un not so soft power congegnato e concordato con gli slovacchi democratici e europeisti. Ora.
Pubblicato il 2 ottobre 2023 su Formiche.net
C’è ancora poca Europa, troppo tiepido Juncker
Ha suscitato una fiammata di dibattito la preoccupazione espressa dal Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker che dopo il voto del 4 marzo l’Italia non sia/sarà in grado di darsi un governo “operativo”. Grande levata di scudi da tutti i protagonisti della campagna elettorale i quali, invece, di alleviare la preoccupazione di Juncker e dire a quale governo operativo daranno vita, hanno preferito gridare con toni e enfasi diverse all’interferenza dell’Europa nelle elezioni italiane. Juncker ha poi fatto una piccola marcia indietro, ma è immaginabile che lui, gli altri governi degli Stati-membri dell’Unione e, naturalmente, molti italiani siano davvero preoccupati dalla prospettiva di un non-governo dopo il voto, se non, peggio, di un governo non più europeista. Sarebbe sorprendente il contrario ovvero che Juncker dichiarasse che non gliene importa un bel niente di quel che succede in un paese che è uno dei sei Stati fondatori, che è la seconda economia manifatturiera dell’Unione Europea e che, nel bene, che c’è, eccome, e nel male, che pure fa capolino, sostiene una visione europeista federalista.
Occuparsi e preoccuparsi anche della politica negli Stati-membri sta nei doveri costitutivi della Commissione europea. Forse, guardando a quello che è successo e continua a succedere in Ungheria, Polonia e Slovacchia, la Commissione dovrebbe persino essere più intrusiva. Giustamente non è stata criticata quando ha espresso la sua critica alla Brexit e ai suoi protagonisti. Non lo è stata quando ha espresso il suo apprezzamento per la vittoria di Emmanuel Macron in Francia. È stata criticata per non avere più rapidamente e più incisivamente deprecato i tentativi secessionisti dei catalani che incidono anche sull’Unione Europea come la conosciamo e come vorremmo che diventasse, più “stretta”, più solida, più determinata.
È nell’interesse di tutti i cittadini degli Stati-membri che l’Unione Europea funzioni in maniera migliore e che, quindi, i governi di ciascuno Stato siano non soltanto stabili, ma per l’appunto operativi e che soddisfino fino in fondo i criteri della democraticità. Mi spingo più in là sottolineando che l’Unione Europea, la Commissione e il suo Presidente devono continuare a essere fortemente interessati agli sviluppi politici in ciascun paese anche perché sono troppo spesso accusati, soprattutto dai cosiddetti sovranisti di avere costruito strutture burocratiche e oligarchiche. Se vogliamo più politica e crediamo che il conflitto politico, ovviamente dentro le regole e le procedure, anche quelle elettorali, costituisca il sale delle democrazie, il parere e gli auspici di Juncker hanno un significato, contano, sono da prendere in seria considerazione.
All’insegna della non-interferenza, tutti i politici italiani e la grande maggioranza dei commentatori ne hanno approfittato per evadere la domanda implicita, ma chiarissima, di Juncker: “avrà l’Italia un governo operativo?” e, personalmente, aggiungo di quale caratura: europeista o sovranista? Nonostante i bene intenzionati sforzi di Emma Bonino, l’Europa non è nei primi posti dei punti programmatici e delle battaglie elettorali in corso. Senza esagerare in retorica, non sempre da disprezzare, sarebbe opportuno che i capipartito dicessero con grande limpidezza agli elettori che l’Europa è il destino dell’Italia e che starne fuori significa sprofondare nel Mediterraneo. Se vogliamo migliorare l’Italia dobbiamo cercare di essere più credibili come Stato-membro dell’UE grazie ad un governo in grado di assumere impegni e rispettarli ottenendo in cambio l’aiuto necessario all’economia e a problemi come, soprattutto l’immigrazione.
Stare fuori dall’Unione significa credere che l’Italia da sola saprà risolvere problemi che sono già difficili per l’Unione: pura, ma pericolosissima illusione. Insomma, Juncker ha peccato per difetto. Sarebbe stato molto preferibile che, candidamente, dicesse: “senza Europa voi italiani non andrete da nessuna parte e senza un governo operativo renderete difficile anche le importantissime attività dell’Unione”.
Pubblicato AGL il 25 febbraio 2018
Il braccio di ferro della Merkel
Premesso che le Grandi Coalizioni non sono il male assoluto, ma una modalità di formazione dei governi nelle democrazie parlamentari, CDU e SPD hanno perso voti non perché protagonisti della Grande Coalizione 2013-2017, ma per le politiche che hanno attuato/sostenuto, in materia d’immigrazione e di politica economica e sociale nell’Unione Europea. Immediatamente ripudiata dal molto sconfitto Martin Schulz, candidato della SPD, la Grande Coalizione è tuttora numericamente possibile. Potrà persino diventare politicamente praticabile. Su un punto, però, Schulz ha ragione da vendere: non si può lasciare il ruolo di opposizione parlamentare (e sociale) ad Alternative für Deutschland. Sbagliano la maggioranza dei commentatori quando molto sbrigativamente etichettano l’AfD come movimento/partito populista. No, primo, non tutto quello che non piace ai democratici sinceri e progressisti è populismo, brutto, cattivo e irrecuperabile. Secondo, la piattaforma programmatica di AfD comprende almeno tre tematiche: i) la difesa dei tedeschi, quelli che parlano il tedesco, hanno precisato alcuni dirigenti del partito, contro l’immigrazione eccessiva e incontrollata accettata/incoraggiata dalla cancelliera Merkel; ii) una posizione più dura in Europa contro gli Stati-membri che sgarrano, ma anche minore disponibilità ad andare a soluzioni quasi federaliste; iii) qualche, talvolta eccessiva, pulsione che non accetta tutta la responsabilità del passato nazista e che, talvolta, ne tenta un (odioso, l’aggettivo è tutto mio) recupero.
Facendo leva solo sulle “pulsioni”, nel passato, partiti di stampo neo-nazista erano riusciti ad arrivare nei pressi della soglia del 5 per cento, rimanendo esclusi dal Bundestag. Insomma, almeno l’8 per cento degli elettori dell’Afd, che ha ottenuto quasi il 13 per cento dei voti, è contro l’Unione Europea com’è e i migranti. Questa posizione è condivisa dai quattro di Visegrad, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Poiché due terzi dei voti di AfD provengono dai Länder della Germania orientale è lecito dedurne che non è stato fatto abbastanza per superare democraticamente culture nazionaliste e xenofobe che i regimi comunisti avevano superficialmente mascherato. Non si cancelleranno quegli infausti retaggi colpevolizzando gli elettori di AfD quanto, piuttosto, premendo sulle contraddizioni interne al movimento/partito. Con ogni probabilità, Angela Merkel farà una coalizione con i Verdi, affidabilmente europeisti, e con i Liberali, blandamente europeisti, direi europeisti à la carte, inclini a sfruttare tutti i vantaggi di cui la Germania già gode pagando il prezzo più contenuto possibile. Qui, rientra in campo, la Cancelliera con il suo potere istituzionale, con il suo appena intaccato prestigio politico, con la sua ambizione personale mai sbandierata a entrare nella storia.
Il lascito del suo mentore, Helmut Kohl, cancelliere per 16 lunghissimi e importantissimi anni 1982-1998, è consistito sia nel successo della quasi fulminea riunificazione sia nella sua infaticabile azione europeista della quale il Trattato di Maastricht e l’Euro sono i due più luminosi risultati. Vorrà la Cancelliera uscire a testa alta dal suo lungo periodo di governo avendo operato per spingere l’Unione Europea ancora più avanti in termini economici e sociali, se non anche politici? L’asse franco-tedesco non può in nessun modo essere messo in discussione. Allora, l’interrogativo è se, consumata la Brexit, Italia e Spagna sapranno cogliere l’opportunità di inserirsi costruttivamente nei rapporti fra la Germania della Merkel e la Francia di Macron. La consapevolezza che nessuno dei grandi problemi, economici e sociali, può essere risolto dagli Stati nazionali e dai “sovranisti” più o meno populisti potrà costituire l’elemento comune per inaugurare le politiche europee necessarie. È un compito per il quale la Merkel, politicamente indebolita, ma oramai liberata dall’esigenza di prossime campagna elettorali, è in grado di attrezzarsi e di svolgere.
Pubblicato AGL il 26 settembre 2017
Liste bloccate? ma mi faccia il piacere!
Il voto di preferenza è, come sostengono alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, “un’anomalia tutta italiana”?
Sbagliato!
Come dimostra chiaramente la tabella preparata dal mio allievo Marco Valbruzzi, soltanto quattro paesi su ventuno condividono quella che non è “un’anomalia”, ma una scelta politicamente e elettoralmente rilevante.
Per non consegnare i prossimi parlamentari nelle mani di Renzi e di Berlusconi, la battaglia per almeno una preferenza è cosa buona e giusta.
clicca sulla tabella per espanderla
Se escludiamo i casi in cui la “rappresentanza personale” deriva dal collegio uninominale (Francia, Regno Unito, in parte Germania e Ungheria) o dal ricorso al Voto Singolo Trasferibile (Irlanda e Malta), i paesi che restano fuori, a far compagnia all’Italia, sono: Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Croazia.
