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Continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi #SintomiMorbosi” di Donald Sassoon
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Donald Sassoon, professore emerito di Storia Europea Comparata alla Queen Mary University di Londra, ha scelto questa molto nota frase di Gramsci come l’epigrafe del suo più recente libro (Sintomi morbosi, Milano, Garzanti 2019, pp. 322). Il sottotitolo: Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, mi pare poco appropriato poiché, in effetti, ieri , vale a dire, tanto nel lungo dopoguerra di sviluppo, di miracoli economici, di costruzione dell’Unione Europea quanto nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Berlino e, quindi, alla democratizzazione dell’Europa centro-orientale, le cose non sono poi andate così male. Le tre sfide problematiche annunciate dalla fascetta del libro: nazionalismo, immigrazione, populismo sono davvero fenomeni dell’oggi. È qui, infatti, che situerei i sintomi morbosi brillantemente evidenziati e spesso sarcasticamente stigmatizzati dall’autore. Peraltro, Sassoon scoraggia subito qualsiasi tentativo di comparazione dei nostri anni con un eventuale ritorno del fascismo né vecchio, che in molti luoghi non è morto e mantiene tracce, né nuovo che non riesce a rinascere compiutamente.
Purtroppo, il vecchio che sta morendo è probabilmente la più grande conquista dell’Europa occidentale nel corso della sua storia: lo Stato sociale diventato economicamente insostenibile e politicamente sfidato con persin troppo successo dal neo-liberalismo. C’è anche un vecchio che rinasce e avanza: una miscela fastidiosa e pericolosa di xenofobia, antisemitismo compreso, e di nazionalismo, che neppure il processo di unificazione politica dell’Europa è riuscito a mettere sotto controllo. Al proposito, Sassoon si esercita in severe critiche a quelle che chiama “narrazioni europee” fino a porre l’interrogativo cruciale: L’Europa implode? “… il progetto europeo non è riuscito a conquistare i cuori e le menti di molti. Per diventare centrale nella vita politica, in effetti, l’Unione Europea avrebbe bisogno di maggiori poteri, che non potrà mai avere senza il sostegno degli europei, che non glielo daranno prima che l’Unione abbia conquistato i loro cuori e le loro menti: ecco il palese circolo vizioso in cui si trova l’Unione Europea” (p. 241). Opportunamente, Sassoon mette in evidenza che “gli europei sanno poco gli uni degli altri. … L’unico paese che ciascun cittadino europeo conosce meglio di tutti gli altri sono gli Stati Uniti” (p. 247). Creata intorno alla decisione di sfruttare al meglio le risorse economiche, secondo Sassoon, l’Europa ha sì fatto grandi passi economici avanti, ma attraverso notevoli squilibri cosicché “solo quando il gap economico tra i paesi più avanzati e i ritardatari si sarà ristretto potrà esserci un’Europa sociale più equilibrata. Quel giorno è lontano” (p. 250).
L’altro vecchio che sta morendo e in qualche caso, nella maniera più evidente in Italia, è effettivamente scomparso è un sistema di partiti relativamente stabili, rappresentativi, efficienti. Molto brillantemente Sassoon offre al lettore un excursus sui sistemi di partiti europei evidenziando la comparsa di partiti xenofobi e populisti un po’ ovunque sul territorio europeo e, in particolare, l’indebolimento della socialdemocrazia “tradizionale”. Se, come sostiene, a mio modo di vedere, in maniera molto convincente, una corrente di pensiero politologico, i partiti nascono con la democrazia e le democrazie sono inconcepibili senza i partiti, allora se i vecchi partiti muoiono e i nuovi sono oscuri grumi di xenofobia, nazionalismo, neo-nazismo, le preoccupazioni per le sorti dei diversi sistemi politici democratici non possono che essere enormi.
Fra i morituri Sassoon colloca, se ho capito bene, con qualche riserva, anche l’egemonia americana. Nel passato, “in realtà nessuno ha mai ‘guidato il mondo” e i poteri egemoni lo erano, al massimo, in una regione determinata” (p. 193). Inoltre, l’egemonia richiede leadership politiche all’altezza e Sassoon ritiene che nessuno dei Presidenti USA del dopoguerra abbia avuto le qualità necessarie. “Kennedy fu un presidente di notevole incompetenza” e “Eisenhower … fu un mediocre presidente” (p. 201). Lyndon Johnson fu un disastro in politica estera. “Ultimo, ma non meno importante in questa triste sequela [di incompetenti, in particolare in politica estera], è Donald Trump, che non capisce nemmeno i limiti del potere presidenziale e resterà uno zimbello universale a meno che non scateni la terza guerra mondiale” [eccolo il pericolo adombrato da Papa Bergoglio] (p. 207). Talvolta nel suo irrefrenabile slancio critico, Sassoon va forse troppo in là. Per esempio, quando afferma “gli interventi militari americani, quasi tutti inutili dal punto di vista dell’interesse nazionale del paese, si sono risolti quasi sempre … in disastri” (p. 210), dimentica, credo sbagliando, i due interventi decisivi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Lungo tutto il libro corrono valutazioni durissime e senza sconti ai leader, capi di governo, Presidenti di Repubbliche, ministri di un po’ tutti i paesi. Prevalentemente ignorati, gli unici che se la cavano sono i comunisti cinesi. Per quel che riguarda l’Europa si salva,ovvero Sassoon salva, Jeremy Corbyn che finisce per essere l’unico lodato non soltanto in quanto persona di principi, ma anche per le sue proposte che si collocano in una versione moderata di socialdemocrazia. Naturalmente, al suo confronto, tutti i leader inglesi dai laburisti Tony Blair e Gordon Brown, ma anche Ed Miliband, ai Conservatori, in particolare David Cameron e Theresa May, e soprattutto l’ex-sindaco di Londra e ex-ministro degli Esteri, il Brexiter Boris Johnson (un “buffone”) fanno una figura pessima che non è finita proprio perché la Gran Bretagna continua a sprofondare nella confusissima liquidissima Brexit e non si sa quando e quanto tristemente e costosamente ne emergerà. Fatto un lungo elenco di vecchi leader che ritiene grandi, fra i quali, obietto fortemente all’inclusione di Giulio Andreotti in una compagnia che va da Willy Brandt e Felipe Gonzalez a Helmut Kohl e François Mitterrand, mentre mi spiace di non scorgere Alcide De Gasperi, Sassoon ne trae una considerazione condivisibile: “bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta”e una valutazione durissima e centrata: “questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria” (p. 240).
Giunto alle ultime pagine di questo libro spumeggiante e stimolante mi sono ritrovato con un interrogativo giustificato anche dalla citazione fatta da Sassoon di un giornalista inglese: “L’ordine internazionale globale sta crollando in parte perché non soddisfa i membri della nostra società” (p. 282). Confesso (mi pare il verbo più appropriato) che i pontefici non sono i miei politologi di riferimento. Papa Bergoglio non fa eccezione neppure quando annuncia, come se fosse un esperto di relazioni internazionali, che “siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Sassoon dà pochissimo spazio, quasi nullo ai rapporti fra gli Stati. Però, la sua valutazione della mediocrità, del narcisismo, dell’ignoranza dei dirigenti politici contemporanei fa temere che fra i “sintomi morbosi” si annidi anche quello che potrebbe inopinatamente portare per futili motivi ad un conflitto devastante dal quale non riesco proprio a intravedere quale “nuovo” farebbe la sua comparsa. Comunque, accetto l’invito conclusivo, fra il Sessantottismo francese e l’attualissimo gramscismo, di Sassoon: “continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi” (p.283).
Pubblicato il 19 marzo 2019 su casadellacultura.it
Karl Marx duecento anni dopo #KarlMarx #Marx200 #Marx2018 VIDEO @FondCorriere
Il marxismo è (stato) una ideologia nel senso migliore della parola: una visione del mondo, una prospettiva sul futuro. Ha creato una cultura politica anche nel dibattito/scontro “rivoluzione vs riforme”. Grandi partiti di sinistra si sono formati nella riflessione e nel superamento di quella antinomia, anche senza, inconveniente grave, elaborare una teoria dello Stato. Scomparso il marxismo su quali basi si ricostruisce una cultura politica? È lecito sostenere che il declino dei partiti di sinistra si accompagna, ma forse è anche la conseguenza, della scomparsa della loro cultura politica, e viceversa?
Sala Buzzati
via Balzan 3, Milano
Giovedì 3 maggio 2018In occasione della presentazione di
Karl Marx vivo o morto?
Il profeta del comunismo duecento anni dopo,
a cura di Antonio Carioti, Solferino – I libri del Corriere della Sera
Non c’è traccia di populismo in nessuna variante del marxismo. Non il popolo, non la nazione, ma la classe e il proletariato internazionale occupano il centro del pensiero dei marxisti. Laddove i populisti vogliono dividere il popolo buono e puro, che li sostiene, dai traditori del popolo, ovvero chiunque rappresenta altre preferenze e si oppone a loro, il marxismo vuole offrire ai proletari l’opportunità di liberarsi delle sue catene guardando oltre e fuori i confini delle nazioni. Il populismo non libera nessuno.
La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia* #KarlMarx #Marx200 #Marx2018
*La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia, in A. Carioti (a cura di), Karl Marx. Vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo, Milano, Solferino, pp. 175-185
Presentazione 3 maggo 2018 ore 18 Fondazione Corriere, Sala Buzzati via Balzan 3 Milano
Il pensiero e gli scritti di Karl Marx, la sua analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori, la prospettiva del superamento dello stadio nel quale la borghesia era/è stata la classe dominante fino alla situazione nella quale non sarebbe più esistito il governo degli uomini sugli uomini in quanto sostituito dall’amministrazione delle cose hanno costituito il patrimonio iniziale di tutti, o quasi, i partiti che si definivano socialdemocratici. Tuttavia, fin dall’inizio delle esperienze socialdemocratiche, già ai tempi di Marx e Engels, si sono prodotti contrasti di non poco conto sulle modalità con le quali fare transitare la teoria di Marx all’azione nella concretezza della lotta politica per conseguire obiettivi che non tutti i socialdemocratici condividevano a cominciare dall’alternativa, a lungo protrattasi, fra riforme e rivoluzione. Se le riforme “di struttura” portassero ad esiti rivoluzionari oppure addirittura rafforzassero il capitalismo in sostanza rimandando e impedendo l’emergere della società socialista è un dilemma che ha attraversato i socialdemocratici in tutti i luoghi fino a tempi relativamente recenti. La rottura più profonda e duratura nel mondo delle socialdemocrazie avvenne quando nel Secondo Congresso della Terza Internazionale Lenin impose ai partiti socialdemocratici e socialisti di accettare 21 condizioni che li avrebbero trasformati in comunisti. Da allora il marxismo fu per molti decenni l’ideologia al tempo stesso sia del maggior numero dei partiti socialdemocratici sia di tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Le loro strade si divaricavano, ma per lungo tempo il riferimento a Marx non venne meno né, faccio due soli esempi, per i socialisti italiani guidati da Turati né per i cosiddetti austromarxisti. Nella pure tragica contrapposizione durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) fra i socialdemocratici e i comunisti, il marxismo come ideologia e teoria non fu messo in discussione dai primi pure tacciati dai comunisti staliniani di essere diventati socialfascisti.
Ieri. L’abbandono del marxismo da parte dei socialdemocratici tedeschi fu effettuato più di un decennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Congresso di Bad Godesberg nel 1959. Quella decisione ebbe un impatto enorme. Aprì la strada ad una molteplicità di richieste, talvolta intimazioni, indirizzate soprattutto ai comunisti, in particolare quelli italiani, di “andare a Bad Godesberg” (ridente cittadina termale) e procedere ad un lavacro di tipo revisionista. Sette anni dopo i socialdemocratici tedeschi arrivarono al governo della allora Germania Ovest, la Repubblica Federale Tedesca, in una Grande Coalizione, per rimanervi poi con i Liberali fino al 1982. Per l’importanza della Germania e della SPD stessa e per le conseguenze politiche irreversibili che Bad Godesberg ebbe, l’avvenimento ha segnato uno spartiacque nella storia delle socialdemocrazie. Tuttavia, i percorsi dei vari partiti socialdemocratici e socialisti europei, dopo Marx, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il fascismo e il nazismo erano già stati molto differenziati. Oserei applicare a tutti quei partiti una famosa frase di Marx sostituendo la parola uomini appunto con partiti, come segue: “i partiti fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Anche se già nel 1951 fu fondata l’Internazionale Socialista, che oggi conta circa 150 partiti aderenti, soltanto i pure molto importanti principi generali sono condivisi. Non solo le tattiche politiche contingenti, ma le strategie di lungo periodo dei diversi partiti sono fortemente condizionate dallo stato dei paesi e delle società in cui operano, dalle loro tradizioni e dal contesto partitico stesso.
Per cominciare con il caso in qualche modo ai margini delle socialdemocrazie continentali, più che alla lunga operosa presenza di Marx a Londra, città nella quale morì (nel 1883) ed è sepolto, la storia del laburismo inglese è debitrice di fatti e tradizioni specifiche della Gran Bretagna, della forza del pur variegato e frammentato movimento sindacale, dell’eredità del pensiero illuminista scozzese e liberale, degli intellettuali della Fabian Society e della dinamica complessiva del sistema politico a cominciare dall’estensione graduale, ma significativa, del diritto di voto. Tutto questo plasmò un partito laburista nel quale i marxisti furono sempre una piccola e non influente minoranza, e nel quale la cifra dell’azione politica fu regolarmente il riformismo senza nessuna ambizione rivoluzionaria. Sicuramente i Laburisti britannici debbono essere considerati parte integrante delle socialdemocrazie europee, ma le loro specificità hanno continuato a contare nel corso del tempo e nelle numerose esperienze di governo. Sono state trasferite ovvero recepite e nutrite anche in alcuni paesi della diaspora anglosassone come Australia e Nuova Zelanda dove i partiti laburisti hanno spesso governato dando rappresentanza e potere alle classi popolari.
Sul continente è possibile rilevare tre, forse quattro varianti di socialismi. Le prime due varianti sono relativamente facili da individuare e definire. Sono, rispettivamente, quelle dei partiti – laburisti, socialisti, dei lavoratori – dei paesi nordici e quelle dell’Europa meridionale, più precisamente, della Francia e dell’Italia. Nei paesi nordici i socialisti non hanno dovuto, con l’eccezione parziale della Finlandia, affrontare la sfida di un forte partito comunista alla loro sinistra. Hanno a lungo goduto dell’appoggio ovvero di una relazione stretta e fondamentalmente collaborativa con un forte sindacato unitario. Giunsero al governo del loro paese, in special modo, il Partito Socialista dei Lavoratori svedese, già all’inizio degli anni trenta. Hanno plasmato in maniera indelebile, “nelle circostanze che trova(ro)no immediatamente davanti a sé”, la vita politica, sociale e economica come non è stato possibile in nessun altro sistema politico. Lo hanno fatto procedendo alla virtuosa combinazione fra una politica economica all’insegna del keynesismo e una politica sociale improntata al welfare. Hanno formulato e spesso attuato accordi e addirittura assetti definiti neo-corporativismo basati sulla solida relazione tripartitica fra un governo di sinistra (sorretto dal partito socialdemocratico), il sindacato unitario e le organizzazioni imprenditoriali, sorretta dalla fiducia reciproca che gli impegni presi saranno mantenuti e attuati. Non può suscitare nessuna sorpresa che, come direbbero gli inglesi, at the end of the day, tutte le classifiche internazionali, a cominciare da quella autorevole dell’Indice dello Sviluppo Umano (reddito, livello di istruzione, stato di salute) vedano regolarmente ai primi posti Norvegia e Svezia, Danimarca e Finlandia.
Le esperienze socialdemocratiche di governo nei paesi nordici sono spesso state giudicate in maniera molto severa, comunque considerate non meritevoli di imitazione nei due maggiori paesi latini, vale a dire Francia e Italia. Sia i politici socialisti e, con maggiore acrimonia, comunisti sia i loro intellettuali di riferimento hanno rimproverato a quei socialdemocratici di non avere saputo cambiare, sconfiggere, superare il capitalismo quanto, piuttosto, di averlo “salvato”, rendendolo persino più efficiente e più forte. In seguito, quei politici e quegli intellettuali hanno sostenuto che le esperienze socialdemocratiche si erano logorate ed erano entrate in crisi. Dunque, non valeva la pena né studiarle né, tantomeno, imitarle. Certamente non entrarono in crisi le esperienze socialdemocratiche in Francia e in Italia poiché in Francia non ebbero mai modo di prodursi tranne che, in parte, con la prima presidenza di François Mitterrand (1981-1988), in Italia sostanzialmente mai anche se, forzando un po’ la valutazione e gli esiti, il primo centro-sinistra italiano (1962-1964) costituì una fase di significativo riformismo. La debolezza dei partiti socialisti francese e, soprattutto, italiano a fronte della solidità dei corrispondenti partiti comunisti e della loro rappresentatività della classe operaia costituì l’ostacolo maggiore, ancorché non l’unico (vi si deve aggiungere quantomeno la divisione della rappresentanza sindacale), alla conquista del governo in un paese occidentale nel periodo della Guerra Fredda. La divisione a sinistra e il conflitto socialisti/comunisti hanno finito per rendere impossibile qualsiasi costruzione di un attore partitico unitario in grado di proporre politiche riformiste di stampo socialdemocratico. In nessuno dei due paesi, praticamente scomparsi i partiti che potrebbero richiamarsi alla socialdemocrazia, è ragionevolmente possibile ipotizzare una qualche ripresa di politiche riformiste, rese per di più ancora più difficile dalla dinamica complessiva della globalizzazione e dallo spirito del tempo.
Nei paesi più propriamente mediterranei come Grecia, Portogallo, Spagna, dopo il crollo dei rispettivi autoritarismi, il compito dei partiti socialisti è consistito soprattutto nel creare e mantenere le condizioni di un regime democratico dando rappresentanza ai ceti popolari e guidando lo sviluppo dell’economia ed è stato coronato da sostanziale successo. La democrazia si è consolidata. Non era da quei partiti e da quei paesi che ci si potessero aspettare innovazioni di rilievo nelle politiche socialiste. L’abbandono del marxismo come ideologia e come guida alla prassi fu logica conseguenza dei tempi e, tranne che brevemente per il Partito Socialista Operaio Spagnolo, non implicò nessuna difficoltà né, tantomeno, traumi. Più complessa la situazione prodottasi nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale dopo il 1989. Ridotto il marxismo a mero rituale, a ideologia imbalsamata, a catechismo per gli aspiranti a far parte della nomenclatura, il fallimento dei regimi comunisti ha svelato il vuoto di cultura politica. Non poteva che essere bassa o nulla la credibilità dei partiti comunisti che trasformavano il loro nome in socialisti e i cui ceti politici traslocavano armi e bagagli nella neppur troppo nuova botte socialista che avevano in passato largamente screditato. La reazione profonda e di entità inattesa contro il comunismo “realizzato” ha chiuso ogni spazio a eventuali apparizioni di compagini socialiste che, infatti, tuttora, quasi vent’anni dopo la transizione, non esistono, con conseguenze gravi sullo spirito civico e sulla qualità della democrazia di ciascun paese. Non erano, forse, solo i partiti comunisti dominanti l’impedimento alla formulazione e attuazione di politiche riformiste neppure quelle vagamente di stampo socialdemocratico.
La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 cambiò ancora una volta “le circostanze” nelle quali si trovavano ad operare i partiti (e i governi) socialdemocratici. In verità, nell’Europa occidentale quelle circostanze erano già cambiate molto significativamente grazie alla prosperità economica diffusasi nel dopoguerra e soprattutto a mutamenti culturali più irreversibili di qualsiasi benessere economico. Quei vantaggi economici, di lavoro e di guadagno, che l’azione organizzata in partiti e in sindacati aveva consentito di conseguire a milioni di cittadini e che i partiti e i governi socialdemocratici avevano cercato di distribuire in maniera equa, semmai più favorevole ai ceti popolari, potevano oramai, almeno così sembrò ai figli e alle figlie di quei lavoratori, essere conseguiti individualmente, di persona attraverso il perseguimento dell’autorealizzazione (Inglehart 1977). I valori post-materialisti e i loro (giovani) portatori fecero irruzione sulla scena politica scompaginando in particolare la sinistra, le variegate organizzazioni socialdemocratiche nelle quali convivevano padri “materialisti” e figli e figlie che, proprio grazie ai loro genitori, potevano permettersi di avere e applicare valori post-materialisti. Naturalmente, alcuni paesi erano più avanzati sulla scala del post-materialismo e in questi paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paesi nordici, l’onda del post-materialismo colpì in misura considerevole le socialdemocrazie esistenti e governanti.
Oggi. Curiosamente, nello stesso anno, 1994, in cui Bobbio insisteva sulle ragioni della persistenza di ben distinte posizioni di destra e di sinistra, il sociologo inglese Anthony Giddens argomentava e spiegava perché fosse indispensabile andare Oltre la destra e la sinistra. I tumultuosi anni di governo dei conservatori, Thatcher (1979-1990) e Major (1990-1997), favoriti dalla scissione dei socialdemocratici nel 1981, avevano imposto ai laburisti un agonizing reappraisal (dolorosissima rivalutazione) della loro strategia, della loro stessa visione della Gran Bretagna. Più di altri Giddens contribuì alla formulazione della Terza Via (il sottotitolo inglese del libro omonimo pubblicato nel 1998 è The Renewal of Social Democracy) che divenne la formula con la quale il New Labour di Tony Blair approdò al governo nel 1997. Tra il liberismo estremo dei conservatori e il laburismo obsoleto, Blair e Brown si aprirono una Terza Via che doveva riformare il partito, le modalità di governo, le politiche, la stessa società britannica. È una Via nella quale neppure credono più la maggioranza dei dirigenti laburisti e i loro elettori che premiano il più tradizionale, classico, forse effettivamente socialdemocratico Jeremy Corbyn.
Non credo si possa collocare nella Terza Via l’Ulivo fortunosamente vittorioso alle urne nell’aprile 1996 anche se, indubbiamente, fra le motivazioni di alcuni protagonisti si trovava quella del superamento della socialdemocrazia classica (peraltro, mai concretamente comparsa nel contesto italiano). Con qualche forzatura fu inserita nella Terza Via l’esperienza del governo presidenziale del democratico Bill Clinton (1992-2000). Molto più appropriato è il riconoscimento che quanto volle fare il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), ovvero plasmare e ridefinire un nuovo centro (Die Neue Mitte), rappresentò effettivamente la Terza Via secondo modalità tedesche. Tuttavia, da allora è cominciato un significativo e persistente declino elettorale della SPD che, peraltro, è rimasta politicamente la migliore alleata di governo della Democrazia Cristiana tedesca (2005-2009; 2013-2017; ????-????). Infine, l’esperimento iniziato in Italia nel 2007 con la formazione del Partito Democratico è, comunque lo si valuti, la fuoriuscita da qualsiasi possibilità di recupero, di rilancio, di rielaborazione di un esperimento socialdemocratico. Nella vicina Francia, la clamorosa vittoria presidenziale (2017) di Emmanuel Macron ha con tutta probabilità posto fine a quel poco che era rimasto di socialdemocrazia francese trascendendo Parti Socialiste e Rèpublicains gollisti con lo slogan sia destra sia sinistra e relegandoli in un passato che non potrà tornare. Solo nei sistemi politici scandinavi le socialdemocrazie hanno lasciato tracce tanto profonde quanto positive, ma i duri dati elettorali dicono che, sì, potranno, nella logica delle democrazie dell’alternanza, tornare al governo, ma all’orizzonte non si vede nessun rilancio di un’età d’oro socialdemocratica.
Bilancio per il domani. Abbiamo appreso dai bolscevichi la dura lezione della storia che il socialismo in un solo paese non può essere costruito. Non è possibile dimenticare che uno dei cardini del pensiero di Marx era l’internazionalismo sotto forma di solidarietà del proletariato di tutti i paesi: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Invece, ciascuno e tutti i partiti socialdemocratici hanno a partire dagli anni Trenta, ma ancor più nel secondo dopoguerra intrapreso e percorso, con maggiore o minore successo, le loro vie nazionali. Dappertutto c’è da qualche tempo ormai la consapevolezza che nessuna di quelle vie nazionali porta ai traguardi/esiti di mantenimento della prosperità e di riduzione delle diseguaglianze che le socialdemocrazie continuano a ritenere degni di essere perseguiti. Anzi, almeno per quel che riguarda la prosperità la sfida della globalizzazione può essere meglio affrontata in chiave sovranazionale nel quadro offerto dall’Unione Europea. Che le sfide della globalizzazione, del governo dell’economia, delle migrazioni possano essere vinte dai governi nazionali che operino senza accordi reciproci e senza cooperazione è l’illusione dei sovranisti. Che possa riaprirsi quella che, brillantemente analizzando le esperienze scandinave, Esping Andersen (1985) definì La via socialdemocratica al potere caratterizzata dalla capacità della politica di contrapporsi vittoriosamente ai mercati appare piuttosto improbabile.
I primi due punti di quello che circa centocinquant’anni fa era il Programma socialdemocratico minimo: 1. Rimuovere gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo; 2. Ampliare le libertà borghesi, democrazia e diritti civili, soprattutto il suffragio, sono stati conseguiti. Il punto 3. Accrescere il ruolo del proletariato industriale di fabbrica deve essere ridefinito con riferimento al ruolo dei lavoratori in un mercato del lavoro caratterizzato da enormi variazioni e squilibri. Il punto 4. Lottare contro i bastioni internazionali della reazione (la Russia zarista) mantiene la sua validità, ma i bastioni della reazione non si trovano all’interno di un solo Stato. Anche se l’Unione Europea non è in alcun modo definibile come socialdemocratica, la lotta contro la reazione non può che partire dalle sue istituzioni che delimitano il più grande spazio di libertà e diritti mai conosciuto. Quest’ultima affermazione mi consente di ricordare le parole di Bobbio che qualche decennio fa (per la precisione nel 1976) concludeva la sua splendidamente sintetica voce Marxismo del Dizionario di politica UTET sottolineando che la socialdemocrazia “ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall’interno”, mentre il marxismo afferma la necessità della distruzione dello Stato borghese affinché lo Stato stesso si estingua. Le esperienze dei comunismi realizzati hanno contraddetto l’imperativo marxista riguardante l’estinzione dello Stato potenziandolo e rendendolo totalitario. Le socialdemocrazie hanno di tanto in tanto conquistato non lo Stato, ma il governo di numerosi paesi trasformando in meglio il funzionamento e il rendimento complessivo dei sistemi politici nei quali hanno avuto ruoli importanti. All'”amministrazione delle cose” profetizzata da Marx le socialdemocrazie non sono pervenute, ma, è opinione diffusa che i loro governi hanno avuto successo. Eppure, è il paradosso, sono diventati meno probabili e meno frequenti. In Europa non si aggira lo spettro della socialdemocrazia.
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Riferimenti bibliografici
Bartolini, S. (2000) The Political Mobilization of the European Left, 1860-1980: The Class Cleavage, Cambridge: Cambridge University Press
Bobbio, N. (2016) Marxismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Novara, De Agostini, pp. 556-562.
De Waele, J.-M., Escalona, F., Vieira, M. (a cura di) (2013) The Palgrave Handbook of Social Democracy in the European Union, New York, Palgrave-Macmillan.
Esping-Andersen, G. (1985) Politics against Markets. The Social Democratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press.
Giddens, A. (1994) Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Il Mulino.
Giddens, A. (2001) La terza via, Milano, Il Saggiatore.
Inglehart, R. (1977) The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press.
La crisi della socialdemocrazia in Europa
Intervista raccolta da Federico De Lucia per FBlab
1) Globalizzazione, depressione economica, marginalizzazione sociale, insostenibilità del Welfare state, flussi migratori incontrollati: sono tutti fattori strutturali che stanno mettendo a dura prova, ormai da un decennio, la sinistra socialdemocratica europea. Lo dimostrano sia i risultati elettorali degli ultimi anni in tutti i Paesi del vecchio continente, sia l’incapacità del PSE di opporsi alla linea politica rigorista messa in atto dall’Unione Europea negli ultimi anni di crisi.
Secondo Lei, il problema è davvero strutturale, o vi è invece un problema altrettanto grave di inadeguatezza di classe dirigente?
Risposta: Il problema è trasversale e strutturale. Trasversale poiché riguarda tutti i partiti e le organizzazioni di sinistra, in Europa, negli USA e, mi allargo, nel mondo. Possono anche vincere le elezioni, più spesso le perdono, ma non hanno più nessuna dominanza culturale. Non hanno capacità né di innovazione né di governo effettivo di tutte le sfide, vere, della globalizzazione. Il problema è anche strutturale, quindi, più preoccupante, poiché, per quasi tutti i partiti, in special modo quelli classici, socialdemocratici e laburisti, scandinavi e anglosassoni (includo anche Australia e Nuova Zelanda), è la conseguenza di successi importanti sia nella politica economica, il keynesismo, sia nelle politiche sociali, il welfare. Sono successi che, come scrisse, forse con qualche esagerazione, il grande sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, hanno fatto del XX secolo il secolo socialdemocratico. Quei partiti hanno cambiato i nostri mondi vitali, ma l’elettorato li ha lentamente abbandonati e sta cercando altrove sicurezza e qualche vantaggio economico. Non li trova. Di qui, l’aumento dell’insoddisfazione nei confronti della democrazia e il cedimento di troppi elettori agli appelli populisti che, noi lo sappiamo e quei cittadini impareranno, non portano da nessuna parte.
2) In tutti i Paesi europei la crisi della Sinistra si sta manifestando allo stesso modo: la contrapposizione culturale e programmatica tra le due anime interne, quella più liberal e quella più socialista. Ma i risultati sono negativi ovunque, a prescindere da chi riesce a prevalere. In Germania e Spagna, dove la corrente centrista ha accettato la Grande Coalizione con i Popolari, la crisi di consenso è evidente. In Inghilterra ed in Francia, dove al contrario è la sezione tradizionale ad aver avuto la meglio, i sondaggi sono ancora più impietosi, sia per il Labour di Corbyn che per il PS di Hamon. Quest’ultimo deve inoltre fronteggiare la concorrenza del liberale centrista Macron, che i sondaggi danno come principale candidato a sfidare la Le Pen al ballottaggio.
Secondo Lei, dividersi e/o perdere consensi (al centro o a sinistra) è davvero inevitabile per la sinistra europea? Quale strada dovrebbe intraprendere quest’ultima per superare questa fase di estrema difficoltà?
Risposta: Non è inevitabile né dividersi né perdere, al centro e/o a sinistra, consensi. Però, succede, spesso, con conseguenze ovviamente negative. La causa di fondo si trova, praticamente in tutte le situazioni, nella maggiore sensibilità della sinistra, dei suoi dirigenti, dei suoi elettori, dei suoi ideali per le tematiche più moderne (non post-moderne): i diritti, l’identità, la bioetica, persino le diseguaglianze, economiche e culturali. In termini tecnici, una parte, anche se, purtroppo, talvolta crescente, mai maggioritaria, è post-materialista: i diritti e l’autorealizzazione delle persone sono più importanti di qualsiasi tematica economica, lavoro e reddito. L’altra parte, per lo più, maggioritaria, vuole un lavoro stabile, sicurezza, ordine e, soprattutto, non apprezza nessuna, ma proprio nessuna, variante di multiculturalismo, comunque sia definito e attuato. Tenere insieme queste due sinistre è operazione complicatissima che richiede leadership intelligentemente empatiche, rarissime. Tuttavia, la sfida non è da darsi per definitivamente persa. Nel lungo periodo (sì, lo so che Keynes dice che nel lungo periodo saremo tutti morti), soltanto le sinistre potranno vincere la sfida della ridefinizione delle identità, del pluralismo, della dignità nel vivere e nel morire.
3) Il PD, costola italiana del PSE, è riuscito sinora a tenere assieme le due sensibilità interne, nonostante sia provato da lunghi anni di Governo e da frizioni sempre vive. Certamente, il successo elettorale del Renzi del 2013–2014 ha svolto un ruolo importante, attirandosi il favore di un elettorato piuttosto ampio. Ma con la sconfitta referendaria quella fase propulsiva sembra essersi conclusa, ed il Congresso anticipato appena convocato sembra addirittura volto a scongiurare una scissione a sinistra.
Secondo Lei, le difficoltà che in questo momento sta vivendo il PD sono più di natura culturale e programmatica, come altrove, o sono al contrario il frutto delle rivalità interne alla classe dirigente del partito, esacerbate da tre anni di renzismo? E di conseguenza, anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, la figura di Renzi rappresenta più un problema da risolvere o una risorsa da utilizzare per la sinistra italiana?
Risposta: Il Partito Democratico è, come disse memorabilmente Massimo D’Alema, “un amalgama mal riuscito” senza arte senza parte senza cultura politica. Infatti, è stato conquistato da un leader assolutamente a digiuno, come tutti i suoi collaboratori, che non sono affatto interessati, di qualsiasi cultura, meno che mai politica. Quel leader, Renzi, poca cosa rispetto agli altri dirigenti dei partiti di sinistra europei, ha sconfitto un vecchio leader, Bersani, che non ha saputo rinnovare la sua cultura politica di comunista in transizione. Da allora, negli ultimi quattro anni, non c’è stato un solo momento nel quale nel Partito Democratico, nei suoi organismi dirigenti, nelle sue articolazioni locali, si sia discusso di cultura politica, di identità, di valori, di etica. Il massimo dello svago è stato raggiunto, con qualche recente sofferenza, nelle kermesse di una piccola stazione di Firenze: la Leopolda. Niente a che vedere con Bad Godesberg 1959, la grande svolta della socialdemocrazia tedesca. Niente a che vedere con Epinay-sur-Seine, dove nel 1971, Mitterrand unificò le sparse membra delle sinistre francesi non comuniste. Quando per definirsi e caratterizzarsi un partito fa riferimento alle primarie e ai gazebo, ogni speranza di rilancio ideale e culturale è destinata a spegnersi. Rottamati e rottamatori cessano di meritare qualsiasi attenzione.
Pubblicato il 27 febbraio 2017 su FBlab
Una storia da ricostruire. Il PCI sotto le Due Torri
Chi non conosce la storia è condannato a riviverla”. Magari, commenterebbero alcuni vecchi comunisti italiani, orgogliosi della storia del PCI e della loro storia personale di impegno, di azione, di cultura politica. Forse, più che riviverla, quella storia bisognerebbe, non rottamarla, ma insegnarla nelle sue luci e nelle sue ombre, in quello che fu positivo, anche per la democrazia italiana, e in quello che fu negativo e che ha portato all’inadeguata trasformazione del PCI che non riuscì mai a imboccare la strada difficile, ma promettente, della socialdemocrazia. Naturalmente, una storia è fatta di azioni e di interpretazioni, si (ri)costruisce su documentazioni e riflessioni, anche su critiche e autocritiche. Una buona storia è recupero di un patrimonio culturale costituito anche da immagini, simboli, effigi. Nulla di tutto questo parla da solo, ma tutto può essere interrogato da chi ne abbia gli strumenti per farlo.
Curiosamente, sappiamo molto della città di Bologna, della sua storia recente, dall’avvento del fascismo alla liberazione, dei governi comunisti, dell’alleanza fra PCI e PSI, della leggendaria campagna elettorale del 1956: “Dossetti contro Dozza”, dei sindaci. Non esiste, però, una vera e propria storia del Partito Comunista Bolognese. Adesso, dalla bella indagine di Pier Paolo Velonà apprendiamo che colui che fu anche il tesoriere del PCI, ovvero Mauro Roda, adesso presidente della Fondazione 2000, possiede un vero tesoretto di oggetti che fanno parte della storia del PCI e che sarebbero essenziali per chiunque volesse ricostruire quella storia con appropriati metodi di indagine che la illuminino anche nel vissuto quotidiano del partito, dei dirigenti, dei militanti.
Forse un simile patrimonio, integrato da elementi che altri comunisti posseggono, dovrebbe trovare una sua sede ampiamente accessibile. Qui torna la storia con la necessità di una rivisitazione per capirne di più sulla costruzione della democrazia a Bologna e dintorni e sul modo con il quale il PCB mantenne un livello di consenso molto elevato per un lungo periodo di tempo. Qualcuno potrebbe anche giungere a pensare che documenti e oggetti, azioni e trasformazioni poggiavano tutte su una base solida: una cultura politica di fondo, anche ideologica, non priva di difetti, ma omogenea e capace di indicare obiettivi. Al proposito, guardando a quanto è successo negli ultimi quindici-vent’anni, una qualche forma di nostalgia appare più che giustificata.
Pubblicato il 14 febbraio 2017