Home » Posts tagged 'Sofia Ventura'
Tag Archives: Sofia Ventura
INVITO Tra scienza e politica. Una autobiografia @UtetLibri #16maggio ore 18 Recensioni & Presentazioni @Stroncature1

Il 16 maggio 2022 alle ore 18 Stroncature ospita la presentazione del libro di
Gianfranco Pasquino
Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2022)
Con l’autore dialogano Marco Valbruzzi e Sofia Ventura.
Per partecipare è necessario registrarsi.

“La lezione francese” Il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali #DemocraziaFutura Anno I n4
Il sistema elettorale francese maggioritario a doppio turno in collegi uninominali ha una storia lunga e interessante. Da non pochi punti di vista, ad esempio, il potere degli elettori e la rappresentanza politica ad opera degli eletti, è una storia di successo.
In Francia il sistema elettorale a doppio turno è stato utilizzato, con qualche breve interruzione, durante tutta la Terza Repubblica (1871-1940). Fermo restando che in ciascun collegio uninominale il seggio era attribuito al primo turno al candidato che aveva ottenuto il 50 per cento più uno dei voti espressi, come avviene dal 1958 in poi (purché abbiano votato almeno il 25 per cento degli elettori aventi diritto), quel doppio turno non conteneva clausole restrittive. In assenza di un vincitore al primo turno, al secondo turno non soltanto potevano passare tutti i candidati già presentatisi, ma venivano ammessi anche altri candidati.
Questa possibilità consentiva ai dirigenti dei partiti e ai candidati stessi di valutare le chances di vittoria di ciascuno e di tutti. Non furono rari i casi nei quali, ad esempio, i candidati socialisti al primo turno erano tre o addirittura quattro. Valutata la loro prestazione, rimaneva in lizza al secondo turno il candidato che aveva ottenuto più voti, ma talvolta il secondo piazzato se ritenuto più idoneo a sommare tutti i voti socialisti e qualche voto in più di candidati “vicini” che desistessero. Addirittura, preso atto che nessuno dei candidati dava adeguata garanzia di riuscire a ottenere la vittoria al secondo turno, il ritiro di tutti apriva le porte ad una nuova candidatura non presente al primo turno.
A chi (si) chiede quale sia la logica di questa variante del doppio turno, è possibile e utile offrire una risposta generale e alcune considerazioni specifiche. La risposta generale, a mio parere convincente, è che, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, il doppio turno in sé è portatore sano di abbondanti informazioni politiche importanti. Le informazioni riguardano i candidati, i dirigenti dei partiti, i mass media (allora, essenzialmente la molto letta stampa locale) e, ovviamente, i cittadini elettori. Ciascuno dei protagonisti a vario titolo riceve conoscenze significative e può farne tesoro:
- I candidati sono in grado non solo e non tanto di valutare la loro prestazione e quella dei concorrenti dentro e fuori del proprio partito, ma anche la validità della propria campagna elettorale oltre all’apprendimento delle preferenze e degli interessi degli elettori tutti e di coloro ai quali hanno fatto riferimento privilegiato.
- A loro volta i dirigenti dei partiti acquisiscono tutte queste informazioni che consentono loro di risolvere eventuali diatribe interne e, come già anticipato, di cambiare tutti e/o tutto con minori resistenze e con fondate giustificazioni.
- L’attenzione dei mass media è “catturata” dal complesso gioco delle valutazioni dei candidati e dei dirigenti dei partiti e degli eventuali negoziati per il ritiro di alcuni, le desistenze, e l’ingresso di nuovi candidati.
- Pertanto, tra un turno e l’altro verrà messo a disposizione degli elettori una considerevole quantità di materiale conoscitivo utile alla formazione delle loro opinioni e alla decisione di voto.
La parentesi proporzionale durante la Quarta Repubblica (1946-1958)
Nel 1946 la Quarta Repubblica francese si dotò di un sistema elettorale proporzionale che, manipolandolo in più occasioni anche al fine di fabbricare maggioranze parlamentari, utilizzò fino al 1958. Non mi riesce di ricostruire la storia dei passi con i quali si pervenne alla decisione di “tornare” ad un sistema elettorale maggioritario a doppio turno.
Comprensibilmente, socialisti e comunisti erano contrari perché consapevoli che la rappresentanza proporzionale “difendeva” meglio le loro posizioni che cominciavano a scricchiolare. Notoriamente contrario al régime des partis del quale socialisti e comunisti costituivano un pilastro, Charles de Gaulle vedeva nei collegi uninominali uno strumento potente per dare visibilità ai candidati, alle persone a scapito delle ideologie e delle organizzazioni.
Il combinato disposto del suo carisma con candidature spesso eccellenti, per le quali la frase “espressioni della società civile” era straordinariamente appropriata e calzante, fece il resto. I collegi uninominali avrebbero premiato le persone e svantaggiato le organizzazioni burocratiche. Socialisti e comunisti persero voti, ma, soprattutto, per la loro incapacità a padroneggiare la logica del doppio turno, soprattutto, come vedremo, l’imperativo di giungere ad accordi, finirono nettamente sottorappresentati in termini di seggi.
Alla logica del doppio turno è, dunque, opportuno dedicare la massima attenzione.
Al primo turno vince il seggio il candidato/a che ottiene il 50 per cento dei voti più uno purché abbia votato almeno il 25 per cento degli elettori aventi diritto. A titolo puramente indicativo, nel corso delle molte elezioni legislative francesi dal 1962 ad oggi raramente più di cento seggi sono stati assegnati al primo turno. Clamoroso nel 1968 fu l’esito per i gollisti e i giscardiani che presentarono candidati comuni fin dal primo turno eleggendo addirittura 144 candidati.
Al confronto i 2 seggi conquistati al primo turno nel 2017 dalla rampantissima La République en Marche di Emmanuel Macron appaiono un bottino davvero misero soprattutto alla luce della debolezza degli altri partiti. Qui a dimostrazione riporto i dati del collegio del secondo arrondissement di Parigi dove gli elettori che non gradivano il candidato del La République en Marche si sono numerosamente trasferiti sulla candidata gollista (più che le percentuali sono rivelatori i numeri assoluti).

Altrettanto, ancorché diversamente, clamoroso, fu l’esito delle elezioni legislative volutamente anticipate dal Presidente Jacques Chirac nel 1997. “In quell’anno, il Fronte nazionale supera la soglia del 12,5 per cento in addirittura 133 collegi, contro i 49 del 1933, e riesce ad essere presente in 56 duelli (31 con la destra moderata, 13 con il Pcf, 11 con il Ps, 1 con i verdi) e in 76 triangolari (5 con Pcf e destra moderata, 68 con Ps e destra moderata, 3 con verdi e destra moderata)”[1]. Molto importante è sottolineare che “nelle competizioni triangolari, in diversi collegi la presenza del Fronte nazionale ha favorito la vittoria della sinistra: la destra moderata è stata sconfitta in 47 collegi su 76”[2]. Nel 1997 è apparso in estrema evidenza quanto la chiusura dei gollisti, fermamente voluta da de Gaulle, all’estrema destra lepenista possa essere costosa e quanto il semplice mantenimento della candidatura lepenista al secondo turno, impedendo un flusso di voti a favore della candidatura gollista, vada a favore della candidatura di sinistra rimasta in campo[3].
Nelle elezioni legislative del 2007, l’exploit presidenziale di Nicolas Sarkozy portò l’Union pour un Mouvement Populaire (UMP) a conquistare 98 seggi al primo turno. I socialisti ne vinsero uno.
Complessivamente 110 candidati furono eletti al primo turno, effetto quasi unicamente del trascinamento della vittoria presidenziale di Sarkozy a favore dei candidati dell’UMP.
Tuttavia, è molto importante sottolineare un fatto reso possibile proprio dal doppio turno e prontamente evidenziato da Le Monde. Imbattibile nella presentazione dei dati elettorali collegio per collegio, in quell’occasione l’autorevole quotidiano francese evidenziò con preoccupazione che, con riferimento ai dati del primo turno, stava per prodursi un’ondata blu (il colore dell’UMP) di proporzioni massicce. Suonato l’allarme, certo non tutti gli elettori francesi leggono Le Monde!, al secondo turno si assistette a due fenomeni congiunti:
- la mobilitazione dello sparso elettorato di sinistra a favore dei candidati, per lo più socialisti, rimasti in lizza, che passarono da un deputato a 185,
- la mancata convergenza dei centristi sui candidati dell’UMP cosicché lo squilibrio nel numero dei parlamentari fra UMP/PS fu significativamente ridotto.
Questo avvenimento, non inusitato, ma rilevante nelle sue proporzioni, richiede una spiegazione che si basi sulla logica di funzionamento del doppio turno e la espliciti approfondendone le notevoli potenzialità politiche e rappresentative.
Il comportamento degli elettori al primo turno
Come è stato spesso notato, al primo turno l’elettore/trice può permettersi di votare sincero, ovvero per la sua candidatura preferita, in particolare, se intrattiene due aspettative:
1. Nessuno vincerà al primo turno;
2. La sua candidatura preferita riuscirà a superare la soglia di accesso e passerà al secondo turno.
Tuttavia, è possibile, ma non frequente, che alcuni elettori votino fin dal primo turno in maniera strategica, vale a dire, non per la candidatura preferita, che temono abbia poche chances di superare la soglia con il rischio quindi di sciupare il loro voto, ma per la candidatura second best. Il punto merita una breve, ma assolutamente importante, digressione.
Di doppi turni ce ne sono diverse varianti, come scriverò, più avanti.
Il ballottaggio che è la modalità di doppio turno usato nelle elezioni presidenziali francesi (ma anche altrove) è da considerare distinto dal doppio turno legislativo, da non confondere con e da non assimilare a quel doppio turno.
Infatti, quando il vincitore scaturisce da una competizione alla quale sono ammessi soltanto i primi due candidati più votati, parte numericamente rilevante dell’elettorato avrà perso il suo candidato preferito, votato al primo turno, quindi, se decide di non astenersi, si troverà costretto a votare in maniera strategica al ballottaggio, prevalentemente contro la candidatura più sgradita.
L’esistenza del ballottaggio riduce la discrezionalità dell’elettorato, le sue opzioni di scelta e l’elasticità del doppio turno. Si giustifica nell’elezione delle cariche monocratiche poiché ha come obiettivo quello da dare al vincente la legittimità che deriva da una maggioranza assoluta (anche se, come in alcune elezioni presidenziali francesi, nient’affatto cospicua).
La soglia percentuale alta su accesso al secondo turno per ridurre la frammentazione
Al secondo turno in Francia possono (non necessariamente debbono) passare tutti i candidati che superano una determinata soglia percentuale. Nelle prime elezioni dopo la riforma la soglia fu fissata relativamente bassa: 5 per cento. Qualche anno dopo fu innalzata al 10 e nel 1976 definitivamente stabilita al 12,5 per cento degli elettori aventi diritto. È una soglia piuttosto alta poiché se i votanti sono l’80 percento in pratica diventa all’incirca il 17 per cento. De Gaulle e i suoi consiglieri miravano a contenere e ridurre la frammentazione e il numero dei partiti. In buona sostanza questo esito non è stato conseguito.
Come dimostrano i dati della tabella relativa alle più recenti elezioni legislative, quelle del 2017, nell’Assemblea Nazionale francese sono presenti rappresentanti di addirittura otto partiti che hanno dato vita a sette gruppi parlamentari.


Tralascio di interrogarmi su quanto questi numeri siano rassicuranti per i tanti, troppi, oppositori italiani del sistema elettorale maggioritario francese.
Credo, però, di fare un’operazione utile riprendendo una proposta di Giovanni Sartori, convinto (come me) della bontà del sistema francese. Per venire incontro ai critici e agli oppositori italiani del maggioritario francese, Sartori tentò di sventare l’obiezione al criterio della soglia percentuale di voti indispensabili per passare al secondo turno indicando una modalità diversa. Stabilendo una soglia percentuale tutti i dirigenti dei partiti piccoli erano/sono/si ritengono in grado di valutare quanto penalizzante potrebbe essere per le loro candidature. Per rendere i calcoli meno affidabili e meno influenti, Sartori suggerì che, invece, di definire una soglia percentuale, il criterio da utilizzare fosse che in tutti i collegi uninominali l’accesso al secondo turno venisse comunque consentito ai primi quattro candidati introducendo nel sistema maggiore elasticità complessiva.
Timori, costrizioni e opportunità del sistema uninominale a doppio turno
Peraltro, i dirigenti dei partiti e i loro sedicenti consiglieri nutrono anche altri, più importanti timori: nei collegi uninominali si vince e si perde senza recuperi (l’elenco di candidati francesi di alta qualità sconfitti è molto lungo a cominciare dal socialista Michel Rocard Primo Ministro dal 1989 al 1991 e sconfitto nel 1993), non è mai consentito di candidarsi in più di un collegio uninominale. Non esistono pluricandidature truffaldine.
Rapidamente il doppio turno dimostrò di contenere sia costrizioni sia opportunità. Entrambe riguardano la necessità di trovare/costruire alleanze. Chi vuole vincere, candidato e partito, è consapevole che, salvo rari casi eccezionali, solo trovando voti aggiuntivi a quelli che può ottenere in quanto candidato di un partito riuscirà ad avere la maggioranza relativa nel suo collegio elettorale.
Pertanto, saranno i dirigenti dei partiti vicini/affini/coalizzabili che svolgeranno una indispensabile attività di coordinamento indicando quali candidati dovranno essere premiati e quali candidati dovranno desistere e in quali collegi.
Potranno trattarsi di accordi temporanei e di desistenze occasionali oppure di qualcosa di più organico.
Così fu in Francia con l’alleanza più che decennale fra i gollisti e i Repubblicani Indipendenti di Valéry Giscard d’Estaing (che addirittura lo portò alla Presidenza della Quinta Repubblica).
Così fu negli anni settanta fra socialisti e comunisti quando finalmente i comunisti si resero conto che l’opzione di “correre” da soli portava soltanto a ripetute sconfitte e, comunque, i loro elettori decisero che era doveroso mandare all’Eliseo il socialista François Mitterrand (1981 e poi, ugualmente, 1988).
Le opportunità vengono offerte proprio dal doppio turno in quanto tale che consente ai dirigenti di partito di valutare le opzioni in campo e di effettuare desistenze e convergenze in questo modo segnalando agli elettori che le alleanze nei collegi prefigurano, se confermate dai voti e premiate dai seggi, la coalizione di governo. Il doppio turno (mi) appare come la modalità migliore per costruire un “campo largo” (copyright Enrico Letta) grazie all’apprezzamento degli elettori per quanto viene loro offerto e prefigurato dai dirigenti dei partiti seriamente e credibilmente interessati a quel campo. Lo considero anche ottimo nell’accrescere la quantità e qualità di rappresentanza politica. Infatti, il candidato che vince grazie alla convergenza su di lui/lei dei voti provenienti dall’elettorato di altri partiti/candidati-e è perfettamente consapevole di dovere tenere conto e rappresentare anche quelle preferenze e quegli interessi [4]
Per quasi vent’anni la competizione elettorale e politica nella Quinta Repubblica francese è stata appannaggio di quello che i commentatori e gli studiosi francesi definirono “quadriglia bipolare”: a sinistra socialisti e comunisti (più i cosiddetti “divers gauche” aggiuntivi, quasi mai decisivi), nel centro-destra gollisti e repubblicani indipendenti.
L’estrema destra, il Front National di Jean-Marie Le Pen riuscì ad entrare in forze nell’Assemblea Nazionale solo perché nel 1986 il Presidente Mitterrand re-introdusse la proporzionale cercando opportunisticamente di impedire o quantomeno contenere la preannunciata vittoria di Chirac e di Giscard.
Con il doppio turno, prontamente recuperato da Chirac, il Front National non è mai andato oltre la conquista di pochi seggi. Infatti, il doppio turno incoraggia le convergenze sulle candidature moderate e punisce le ali estreme, il Front National, ma anche quel che rimane dei comunisti se non riescono a trovare alleati.
La fine non gloriosa della quadriglia bipolare è stata sancita, da un lato, dall’irrompere del ciclone Macron sullo scompaginamento già in corso dei socialisti e ancor di più dei comunisti e, dall’altro, dall’indebolimento dei gollisti, in parte erosi da Marine Le Pen.
In conclusione, anche tenendo conto che al buon funzionamento della competizione elettorale e politica e al suo bipolarismo ha dato un notevole contributo l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, il sistema elettorale maggioritario a doppio turno ha fornito un contributo che non esito a valutare come decisivo sia al governo del Presidente sia all’intrusione (sic) della coabitazione. Sì, come scrisse nel 1970 Domenico Fisichella, allora mio collega alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, poi senatore di Alleanza Nazionale, il doppio turno di collegio è un sicuro (secondo me anche generoso) “dispensatore di opportunità politiche”[5]. Lo è non soltanto per i dirigenti e gli strateghi di partito, ma anche per i candidati e, quel che più conta, per gli elettori.
[1] Gianfranco Pasquino, Simona Ventura, “Il sistema elettorale a doppio turno e le sue conseguenze politiche”, in Gianfranco Pasquino, Simona Ventura (a cura di), Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Bologna, il Mulino, 2011, 283 p. [La citazione è a p. 167].
[2] Gianfranco Pasquino, Simona Ventura, “Il sistema elettorale a doppio turno e le sue conseguenze politiche”, in ibidem.
[3] Si veda l’esempio concreto di un collegio riportato a p. 167 del nostro saggio del 2011 citato alle note precedenti.
[4] Su tutta questa problematica rinvio al monumentale, quasi mille pagine, e imprescindibile studio di Philip. E. Converse, e Roy Pierce, Political Representation in France, Cambridge Massachussets – London, The Belknap Press of Harvard University Press, 1986, 996 p., uno dei migliori e più illuminanti prodotti della scienza politica statunitense del secolo scorso.
[5] Domenico Fisichella Sviluppo democratico e sistemi elettorali, Firenze, Sansoni, 1970, 260 p.
Pubblicato in
DEMOCRAZIA FUTURA
Media, geopolitica e comunicazione pubblica nella società delle piattaforme e della grande trasformazione digitale
Rivista trimestrale
Anno I
Numero Quattro
Ottobre – Dicembre 2021
I dilemmi di Draghi e il potere che rinuncia allo storytelling @DomaniGiornale
Già predisposti favorevolmente nei confronti di Mario Draghi, praticamente tutti i giornalisti presenti alla sua prima conferenza stampa ne hanno tessuto grandi lodi: preciso, sintetico, rilassato, competente. Potrei subito dire che è il classico omaggio che il vizio (giornalisti spesso faziosi, sempre verbosi, talvolta ad arte sopra le righe) che fa alla virtù (un uomo competente e pacato come stile e temperamento). Se vogliamo, però, capire come nascono e come funzionano i processi di comunicazione politica e di formazione dell’opinione pubblica, è indispensabile andare più a fondo nell’analisi, anche retrospettiva, sapendo fare utile ricorso alla comparazione.
Draghi giunge alla carica di Presidente del Consiglio perché legittimamente nominato dal Presidente della Repubblica nell’esercizio dei suoi poteri costituzionali. Accolto da un ampio consenso delle forze politiche in Parlamento e più in generale dei mass media, Draghi non ha nessun bisogno di impegnarsi nell’importante attività che gli studiosi/e di comunicazione politica chiamano storytelling. Non deve raccontare la sua vita professionale come un insieme di ostacoli e di dolori da lui superati con successo grazie all’impegno e al lavoro (su questo punto, ampiamente e convincentemente si veda il libro di Sofia Ventura, I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia, Bologna, il Mulino, 2019). La sua biografia professionale parla da sé, alto e forte. Draghi non deve annunciare a nessuno che è un predestinato. Non lo pensa, ma certo non vuole perdere tempo a scoraggiare i “benpensanti”. Non deve neppure indicare che quello che farà si situa in continuità con la sua azione europea ed è essenzialmente la prosecuzione logica e coerente di quello che ha già fatto appunto in Europa. Anzi, tenere basse le aspettative è la strategia migliore, peraltro già adeguatamente nelle corde del Presidente del Consiglio.
Ciò detto, tuttavia, al (governo del) Presidente del Consiglio è stato affidato, più o meno opportunamente, anche il compito di ristrutturare la politica. Questa ristrutturazione potrebbe essere estesa (o ristretta) al sistema dei partiti. Certamente, un governo del quale fanno parte tutti i partiti esistenti meno uno offre una pluralità di impressioni/sensazioni all’opinione pubblica, una delle quali non può non essere quella di un eccessivo unanimismo, forse “grande ammucchiata”. Contrastare questa valutazione che, altrimenti, potrebbe tradursi in rigetto dell’attuale governo e in apatia/alienazione politica, è possibile soltanto attraverso un tentativo esplicito di influenzare e plasmare l’opinione pubblica.
L’uomo solo al comando deve apparire tale soltanto perché accetta le responsabilità della decisione da prendere e presa (è una delle dimensioni de Lo stile del leader. Decidere e comunicare nelle democrazie contemporanee, Bologna, il Mulino, 2016, individuata da Donatella Campus), non perché non presta ascolto alla pluralità di voci, di preferenze, di aspettative e di interessi. Rimane aperto e controverso il rapporto che il leader deve stabilire fra mediazione e disintermediazione quando si confronta con gli interessi organizzati. Quanto all’ascolto, non può essere unicamente prestato ai giornalisti nelle rade conferenze stampa. Non può essere quello riferito ai cittadini esposti alle teleconferenze che il Presidente del Consiglio tiene con la Commissione Europea e con gli altri capi di governo. Non può neppure essere quello del pubblico dei messaggi inviati in occasioni importanti. Infine, per la specificità di Draghi leader non-politico, non può riferirsi alla dimensione che Campus definisce della ispirazione che “spinge ad aderire a un progetto proposto dal leader e a identificarsi con esso” (p. 29). Mancano sia un progetto esplicito sia seguaci disponibili. Sento di dovere sottolineare che, talvolta, senza contraddizioni, l’ascolto deve tradursi anche in presenza personale, nell’esposizione, non voglio eccedere, ma l’espressione tecnica è “del corpo del leader”.
Da tralasciare, invece, perché in larga misura impropria e, forse, intrinsecamente provocatoria, è qualsiasi comparazione con i leader autoritari che del loro corpo facevano (e continuano a fare) un messaggio politico. Tuttavia, è indubbio che, ricorro ad un esempio certamente memorabile, l’inginocchiarsi spontaneo di Willy Brandt nel dicembre 1970 davanti al monumento alla Shoah a Varsavia fu e rimane uno dei più potenti messaggi politici e personali in materia di riconoscimento di quel crimine contro l’umanità. Fatte le debite proporzioni, la presenza di Draghi all’inaugurazione della stele dedicata alle vittime del Covid-19 al cimitero di Bergamo è un segnale politico, nel senso più alto della parola, di appartenenza alla comunità attraverso la visibile condivisione del dolore.
Un capo di governo di più o meno lungo corso politico è abitualmente espressione di un partito. Quasi sicuramente, anche se da qualche anno meno che in passato, quel partito ha una presenza organizzata sul territorio. Tiene i contatti con il suo elettorato. Con maggiore o minore successo diffonde informazioni. Cerca di mantenere o creare atteggiamenti e valutazioni favorevoli al suo capo di governo. Un capo di governo di estrazione non politica, soprattutto se non nutre ambizioni di carriera, non ha probabilmente grandi incentivi per preoccuparsi del consenso espresso dall’opinione pubblica. Però, è consapevole che quel consenso si manifesterà e anche crescerà in seguito alle decisioni corrette, ai cambiamenti positivi, alle prospettive di crescita e di miglioramento. Che sarà, dunque, un termometro di valutazione della bontà o meno delle sue scelte. Ovviamente, in parte è così, ma l’opinione pubblica, soprattutto in situazioni oggi esistenti in tutte le democrazie, di bombardamenti di notizie anche fake, di divisioni in compartimenti stagni polarizzati e conflittuali, di tentativi di manipolazione, deve essere raggiunta da messaggi forti, frequenti, rassicuranti e credibili che soltanto un capo di governo e alcune poche altre autorità politico-istituzionali più qualche straordinaria figura di intellettuale pubblico è in grado di mandare con successo.
Non sono pochi coloro (ad esempio, Giovanni Sartori, Opinione pubblica, in Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, pp. 177-215) che ritengono che non è più neppure possibile parlare di opinione pubblica al singolare, ma che ci sono alcune differenziazioni di cui è imperativo tenere conto. La prima è che esiste un cerchio relativamente ristretto di un’opinione pubblica bene informata, attenta, reattiva. Quanto ristretto o ampio sia quel cerchio è oggetto di costante ricerca e riformulazione. Questa parte di opinione pubblica è facilmente raggiunta dai messaggi del capo di un governo, ma non è sempre incline a diffonderli agli altri cerchi di opinione pubblica, meno colti, meno attenti, con minori informazioni di base. Inoltre, per questi diversi cerchi di opinione pubblica, i messaggi che contano e che influenzano atteggiamenti e comportamenti non sono quelli fondati su idee e argomentazioni. Sono quelli improntati da sensazioni e emozioni, da simpatia e empatia. Campus fa l’esempio di Bill Clinton, mentre Ventura assegna a Barack Obama la qualifica di leader della “speranza”. Un capo di governo che riesce a convincere i suoi concittadini che opera per loro, che li ha capiti, che sta con loro può conquistare parte almeno di quei settori sparsi e svagati di opinione pubblica. In un certo senso, Conte aveva fatto diversi passi, premiati dai sondaggi, nella direzione giusta. Dal punto di vista del tipo e della qualità di connessione da stabilire con l’opinione pubblica italiana, il Presidente del Consiglio Draghi sembra soltanto all’inizio della “dritta via”.
Pubblicato il 27 marzo 2021 su Domani
Democrazia e Partiti. Per l’attuazione dell’art.49 della Costituzione #Roma #24gennaio
Presentazione del n.3/2018 Quaderni del Circolo Rosselli
Giovedì 24 gennaio alle ore 17
Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani
Via della dogana vecchia 29, Roma
Democrazia e Partiti
Per l’attuazione dell’art.49 della Costituzioneintervengono
Samuele Bertinelli, Gianfranco Pasquino, Valdo Spini, Sofia Ventura, Luigi Zanda
Post-millennials e futuro della politica #Introduzione a “Giovani e futuro della politica. Oltre il disincanto”
A cura di Gianfranco Pasquino
Paradoxa, ANNO XII – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2018

Giovani e futuro della politica. Oltre il disincanto
Paradoxa, ANNO XII – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2018
indice del fascicolo
Post-millennials e futuro della politica
Introduzione di Gianfranco Pasquino
Interrogarsi sui giovani è, logicamente e inevitabilmente, interrogarsi sul futuro: sul loro, ma anche su quello che rimane del nostro. È cercare di capire che cosa diventerà l’Italia e che cosa ne sarà dell’Europa. È cercare di capire quali modelli hanno i giovani, quali prospettive perseguono, quali valori ispirano i loro comportamenti. Gli articoli di questo fascicolo cercano in particolare di capire, dall’angolo visuale della “formazione”, come i giovani, spesso criticati per le loro mancanze e il loro distacco, si rapportano alla politica. Come vi sono arrivati, se vi pervengono effettivamente, quali novità è possibile riscontrare nel loro percorso, se tale può essere definito il tragitto attraverso il quale acquisiscono la consapevolezza che la politica conta per loro anche contro di loro, le loro preferenze, la loro disponibilità, se qualcosa si è rotto nella trasmissione di interesse e di informazione dalle “vecchie” generazioni a quelle attuali.
È opinione diffusa, e non intendiamo smentirla, che, almeno superficialmente, ma per percentuali molto elevate di giovani, la politica, passiva (quella che si riceve) e attiva (quella che si fa) riscuota un’attrattività decisamente scarsa, comunque inferiore a quella della media della Repubblica. Chi scrive pensa che, anche per lui, la politica com’è fatta in Italia da qualche decennio, meriti di essere tenuta a distanza, ma, qui sta una differenza verticale, per osservarla, studiarla e valutarla meglio. Forse, però, la distanza dei giovani dalla politica non dipende soltanto e neppure principalmente dalla sua scarsa attrattività, ma essenzialmente da qualcosa che, persino in Italia, è andato perduto, vale a dire dalla mancanza di sedi e di luoghi di discussione e di formazione politica. Per quanto giustamente criticati, i partiti italiani avevano in modalità diverse offerto notevoli occasioni di incontri e di formazione politica a centinaia di migliaia di giovani (anche a quelli del Sessantotto). Potremmo discutere della qualità di quella formazione politica, ma non della sua esistenza, non della sua diffusione, non, aggiungo, del fatto che conteneva anche aspetti positivi fra i quali includerei quello di interazioni non banali e non sterili fra giovani di estrazione e di status diversi.
Non intendo idealizzare nessun passato, meno che mai il Sessantotto, che merita di essere richiamato esclusivamente perché per molti giovani rappresentò un’esperienza politica formativa, ma certamente criticabile, l’ho fatto altrove, da molti altri punti di vista. Anzi, sono giunto a pensare che il surplus di politica di quegli anni ha avuto come conseguenza un surplus di riflusso per molti di quei giovani diventati padri e madri, nonne e nonni dei millennials, i quali non hanno poi sentito parlare di politica dai loro parenti più stretti. Il rapporto surplus/exit è una chiave interpretativa plausibile. Altra chiave, forse in grado di aprire una porta teorica e conoscitiva più ampia, è quella della trasformazione della società e della democrazia prima e più che della trasformazione, che c’è stata e continua, della politica.
Se fossi un giovane oggi da quali canali di informazione e di “formazione” trarrei lo stimolo a interessarmi alla politica, a partecipare ad attività politiche, addirittura a impegnarmi politicamente? Rivolgo grato la memoria, prima, al mio professore di Storia e Filosofia del Liceo Cavour di Torino, poi a quello straordinario corpo di docenti dell’allora Corso di Laurea in Scienze Politiche di Torino, irripetibile nelle qualità dei singoli, delle loro esperienze di vita, del loro insegnamento (anche con lo stile), della cultura politica diffusa nella città di Gobetti e Gramsci. Poi torno, non con i piedi, ma con la testa in terra, per riflettere. Lo fanno, anche loro sulla base di esperienze personali e competenze scientifiche, i collaboratori di questo fascicolo. Ne concludo drasticamente, perché troppi distinguo (in molti casi dalla indubbia valenza ipocrita che credo scoraggiante per i giovani) non giovano né alla diagnosi né alla prognosi, che purtroppo, la politica di oggi, non solo, ma soprattutto in Italia, è proprio la logica conseguenza di una cattiva, se non sostanzialmente inesistente, formazione in termini di conoscenze, di atteggiamenti, di (non evasione delle) responsabilità. Non intendo assumermi nessuna responsabilità personale né addossarla a tutta la mia generazione. Semmai responsabili sono le generazioni successive che hanno distrutto la “vecchia” politica senza sapere costruirne una nuova e migliore. Ho fatto (e continuo a fare) tutto il possibile per spiegare la politica, per praticarla (a molti livelli), per predicarla. Più il tempo passa più mi rendo conto che rimane molto da fare, ma per riuscire a tras/formare la politica mi sembra indispensabile conoscere chi avrà, se lo vorrà, il compito di pensare al suo ruolo e alla trasformazione che desidera, per l’appunto, i giovani.
Ulivo, la nostalgia non basta per un “Sì”
Per giustificare l’ovviamente sofferto “sì” alle riforme renzian-boschiane c’è chi si abbandona ad una non meglio definita “sensibilità repubblicana”, come fa Massimo Cacciari, e chi si affida alla nostalgia/archeologia prodian-ulivista, come fa Arturo Parisi (“Il mio sì al referendum è nel solco dell’Ulivo”, intervista a “La Stampa”, 14 agosto). Tutto quello che si trova(va) in quelle, in verità non proprio dense e limpide, tesi di vent’anni fa sarebbe buono. Quindi, chi lo recupera, automaticamente ha scritto buone riforme. Come discussione sul merito non mi pare davvero un buon inizio. Neppure nel seguito emerge una qualsiasi considerazione di merito.
Parisi non può fare a meno di notare, anche lui un po’ tardivamente, che Renzi ha personalizzato il referendum. Subito lo scusa perché per partire ci vuole un “io” (forse un ego, meglio se sproporzionato). Siamo alla teorizzazione dell’uomo solo che fa le riforme la cui imperfezione, peraltro, Renzi e Boschi cercano di spiegare asserendo che hanno dovuto negoziarle con il centro-destra, cioè, con Berlusconi. Invece, sostiene Parisi, da un lato, i renzian-boschiani (l’espressione è mia) dovrebbero riconoscere i meriti della generazione ulivista; dall’altro, dovrebbero prendere atto che si sono messi, a loro insaputa (ma questa è una mia aggiunta) nel solco del “cambiamento nella continuità”.
Che in due anni di discussioni, di esternazioni e di processioni (la specialità del Ministro Boschi, non dipendente, per carità, dalla sua avvenenza), questo riconoscimento non abbia mai neppure fatto capolino, non sembra preoccupare Parisi. Anzi, si limita a suggerire che per andare lontano ci vuole il “noi”, vale a dire il coinvolgimento di “voci provenienti da tutte le parti politiche”. Al posto delle parti politiche, tranne gli alfanian-(neanche tutti)-verdiniani, sono arrivate le parti sociali, guidate dalla Confindustria, seguite da “Civilità Cattolica”, coronate da JP Morgan e dal “Financial Times”. Almeno in parte, dovrebbe valere la saggezza popolare “dimmi con chi vai ti dirò chi sei”. A molti, però, che desiderano proprio discutere il merito, più che valutare le compagnie, piacerebbe che Parisi chiarisse quali riforme, oltre ad una trasformazione del Senato che, come Sofia Ventura ha subito acutamente e documentatamente evidenziato nel suo blog (sofiajeanne.com), non è affatto sulla falsariga della apposita tesi dell’Ulivo d’antan, sono valide, e quali presentano limiti e destano motivate riserve. Dove, poi, Parisi abbia visto la magica riforma che farà “della nostra democrazia una democrazia che decide e coinvolge direttamente i cittadini nelle scelte di governo e nella scelta di chi lo guida”, da un lato, mi sfugge poiché con l’Italicum il 60 per cento dei parlamentari non saranno eletti dai cittadini, ma nominati dai capipartito e capicorrenti; dall’altro, mi inquieta perché i cittadini non sceglieranno “direttamente” la persona a capo del governo (che implicherebbe una sorta di presidenzialismo di fatto), ma il partito per il quale, dunque, non vale “l’esaurimento della missione” (certamente non nella grande maggioranza delle democrazie parlamentari europee) da lui denunciato e posto a fondamento delle riforme istituzionali.
Naturalmente, Parisi sa che altri antichi esponenti della compagine ulivista hanno già manifestato netta opposizione a riforme che solo parzialmente si ritrovano nelle tesi dell’Ulivo che, incidentalmente, non sono assimilabili ai Dieci Comandamenti e che è anche plausibile ritenere che, forse, quanto scritto vent’anni fa potrebbe essere superato, ma poteva anche allora essere inadeguato.
Soprattutto preoccupante è la chiusa dell’intervista del braccio destro di Prodi, non propriamente un esperto di riforme e di Costituzione, ma neppure un sostenitore di quelle riforme che, infatti, guardò preoccupatissimo a quanto veniva facendo la Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Con la vittoria del NO, non soltanto daremmo l’addio “per decenni” alle riforme (nessun dubbio esprime Parisi sulla loro qualità), ma vi sarebbe una conseguenza peggiore che merita di essere citata per esteso: “quei poteri che vorremmo garantire a un Parlamento oggi abbondantemente esautorato continuerebbero a trasferirsi dal Governo interno alle forze che ci guidano dall’esterno”. Ne deduco tre considerazioni. Primo, Parisi crede che ridimensionando il Senato, rendendolo non elettivo, cambiandone composizione e compiti, il Parlamento italiano risulterebbe meno esautorato. Secondo, molto sottilmente, che già il Governo (del cui potenziamento Parisi non parla) aveva/ha esautorato il Parlamento. Terzo, che il plauso di JP Morgan e del “Financial Times” vada a riforme che riusciranno ad impedire a forze esterne (qui Parisi si colloca fra coloro che credono ai complotti dei poteri forti internazionali), vale a dire anche a loro, di guidare il governo italiano, mi pare assolutamente incredibile. Mah.
Pubblicato il 17 agosto 2016
Dizionario di Politica Bobbio, Matteucci, Pasquino. Perchè le parole contano!
Intervista raccolta da Annamaria Abbate per la Casa della Cultura
Giunto alla sua quarta edizione, a quarant’anni dalla data della prima pubblicazione, il Dizionario di Politica di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino resta un’opera unica nel suo genere. Uscito per la prima volta nel 1976, negli anni Ottanta fu tradotto anche in spagnolo e portoghese, lingue parlate in molti Paesi allora nuovi alla democrazia. Diventato un “classico” della Scienza politica, ha accompagnato generazioni di studiosi e ora è riproposto dalla UTET in una nuova edizione aggiornata
Leggo dalle sue note bio-bibliografiche che lei, Prof Pasquino, si dice “particolarmente orgoglioso” di avere condiretto, insieme a Bobbio e a Matteucci, il Dizionario di Politica. Ci racconta perché e com’è successo?
Semplicissimo. Fui cooptato da entrambi, Bobbio, il docente con il quale mi ero laureato a Torino nel marzo 1965, e Matteucci, il docente che mi aveva “reclutato” come professore incaricato di Scienza politica nell’Università di Bologna nel novembre 1969. Svolsi il compito di Redattore capo della prima edizione, sette anni di lavoro, pubblicata nel 1976. Da Bobbio, filosofo della politica, e da Matteucci, storico delle dottrine politiche, ho imparato molto, a cominciare da come si scrive una voce di dizionario (di politica, non di scienza politica), a come si citano gli autori, tutti, anche quelli con i quali si è in disaccordo, a come si riscrive quello che collaboratori disinvolti e sicuri di sé, ma presuntuosi e irritabili, hanno consegnato. Sia Bobbio sia Matteucci, molto esigenti con se stessi, mi parevano, e qualche volta osai dirlo loro, fin troppo arrendevoli nei confronti di alcuni loro colleghi, diciamolo, rigidi. Fu, poi, nel corso della preparazione della seconda edizione, che uscì nel 1983, che Bobbio decise, con il beneplacito di Matteucci, di promuovermi condirettore: un premio straordinario. Ne fui felice e ne rimango, per l’appunto, “particolarmente orgoglioso”.
Che tipo di lavoro vi proponevate e ne siete stati soddisfatti?
Volevamo preparare uno strumento il più articolato possibile di analisi, storica, filosofica, politologica, dei concetti, dei fenomeni, dei movimenti politici più importanti, non solo italiani, di un’analisi che fosse precisa e compiuta, ma anche suggestiva, che offrisse il massimo di informazioni, ma anche prospettive per approfondimenti. Nessuno di noi tre pensava opportuno rincorrere l’attualità e le mode; tutt’e tre abbiamo cercato di illuminare i temi classici della politica. Al proposito, mi fa grandissimo piacere sottolineare che le non poche voci assolutamente fondamentali scritte da Bobbio e da Matteucci hanno retto al passare del tempo. Anzi, rimango convinto che chiunque voglia capire la democrazia e la teoria delle elites, farebbe molto bene a leggere le due voci di Bobbio così come chi vuole conoscere che cosa sono il costituzionalismo e il liberalismo deve assolutamente leggere le due voci di Matteucci. Entrambi scrissero diverse altre voci molto importanti. Vorrei segnalare Disobbedienza civile di Bobbio e Diritti dell’uomo di Matteucci. Naturalmente, tutt’e tre vedevamo problemi irrisolti, inconvenienti analitici, fenomeni insorgenti. Prima nel 1983 e poi, nella terza edizione, del 2004, abbiamo cercato di porvi rimedio. Faccio un solo esempio: la riscrittura delle voci comunismo e socialismo diventate in parte obsolete in parte inutili per chi leggesse il Dizionario nel 2004. Bobbio non poté vedere la 3a edizione poiché morì due settimane prima della pubblicazione, ma avevamo discusso insieme tutti cambiamenti (e gli alleggerimenti).
Come si spiega l’assenza di Giovanni Sartori, il suo “secondo” maestro? Come mai non gli avete affidato nessuna voce?
In quegli anni Sartori, che si trasferì a Stanford nell’estate del 1976, era impegnatissimo a scrivere il suo fondamentale Parties and party systems (pubblicato nel 1976 e del quale celebreremo opportunamente il 40esimo anniversario). Interpellato, ci fece notare che Bobbio e Matteucci potevano scrivere ottimamente le voci, Costituzionalismo, Democrazia, Liberalismo, Scienza politica, sulle quali lui aveva già scritto molto. Quanto ai Sistemi di partiti disse che potevo provarci io stesso che, insomma, dovevo pure avere letto quanto lui aveva scritto. Per le edizioni successive acconsentì a mandarci qualche riga di apprezzamento di cui, conoscendolo, siamo tuttora molto lieti e grati!
E lei, prof Pasquino, di quali voci si sente “particolarmente orgoglioso”?
Premetto che mi è sempre piaciuto cercare di formulare le definizioni più precise dei concetti politici, rintracciando quel che serve nella storia e collegandolo alle trasformazioni avvenute e alle nuove interpretazioni. Potrei dire che tutte le mie voci mi sono care, ma non è così (anche perché, talvolta, mi capita persino di avere un po’ di senso critico nei miei confronti). Sono piuttosto soddisfatto delle voci Forme di governo, Militarismo e Rivoluzione. Nella nuova edizione ho scritto, in maniera che mi pare efficace, le voci Accountability, Deficit democratico e Scontro di civiltà. Mi pongo costantemente in un dialogo ideale con i lettori, le loro curiosità e i loro interessi. Cerco di scrivere in maniera tale da soddisfare i lettori senza ridurre il tasso di inevitabile tecnicismo che ciascuna voce deve contenere. Lo faccio osservando la lezione di Bobbio e di Luigi Firpo: la chiarezza espositiva è una conquista che giova sia a chi scrive sia a chi legge.
Il Dizionario è oramai arrivato alla quarta edizione che esce quarant’anni dopo la prima. Potrebbe dirci che tipo di interventi ha fatto, ha suggerito, ha incluso?
Anche per non produrre un testo troppo voluminoso e non più maneggevole, ho fatto cadere alcune voci di esclusivo interesse storico che si trovano in molti repertori. Abbiamo proceduto al rinfrescamento di diverse voci e alla riscrittura specifica in chiave comparata della voce Mafia (Federico Varese, cervello italiano, brillante studioso, da quasi vent’anni a Oxford), di Terrorismo politico (Luigi Bonanate) per includervi anche il terrorismo cosiddetto internazionale, e di Unione Europea (Roberto Castaldi) perché l’UE cambia, purtroppo, non sempre in meglio, ma merita di essere analizzata con grande attenzione. Poi ci sono diciassette voci del tutto nuove che vanno, ne cito solo alcune, da Alternanza a Capitale sociale, da Cittadinanza a Patriottismo, da Consociativismo a Governance, da Narrazione a Primarie (non poteva mancare!). Tutte le volte che analizzo la politica e che commissiono analisi ai colleghi mi rendo conto quanto sia importante essere attentissimi e chiarissimi nelle definizioni, articolati nelle interpretazioni, non-ideologici nelle valutazioni. Tre qualità che è tuttora possibile apprezzare e tentare di imparare da due maestri come Bobbio e Matteucci.
Conoscendola, prof Pasquino, e avendola spesso ascoltata parlare e, come dice lei, “predicare”, non posso credere che lei non voglia niente di più che definizioni, interpretazioni, valutazioni, dal Dizionario di Politica.
Certamente, conoscendomi, anch’io so che desidero molto di più. Mi piacerebbe che il Dizionario fosse ampiamente utilizzato e diventasse indispensabile non soltanto (la prego di notare l’ordine) ai colleghi e agli studenti, ma anche agli operatori dei mass media, sì, i giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione, magari diventasse, come sento che si dice, “virale” in rete (sic) e a un’opinione pubblica che rifiuti di farsi ingannare dagli affabulatori. Ciò detto, chiudo il mio piccolo libro dei sogni. Il predicatore che è in me rinsavisce; si disincanta; torna al realismo, alla politica che c’è; si rimette a studiare, a scrivere, a criticare, cercando di migliorare il linguaggio e le analisi politiche, e si rallegra nel dedicare questa nuova edizione alla memoria di Norberto Bobbio e di Nicola Matteucci (anche loro “predicatori” di una politica esigente e migliore).
Pubblicato il 28 aprile 2016
È nelle librerie il Dizionario di Politica di Bobbio, Matteucci, Pasquino. Nuova edizione aggiornata UTET 2016
Prefazione alla nuova edizione
Le parole contano
La politica cambia e cambia la sua “narrazione”. Di conseguenza, cambiano anche le parole per raccontarla e i concetti per analizzarla. Alcune parole sono effimere; altre sembrano destinate a durare; altre ancora meritano di essere diversamente spiegate. I concetti sempre meritano di essere definiti con attenzione alla loro storia e con precisione rispetto ai loro contenuti. Giunto alla sua quarta edizione, a quarant’anni dalla data della sua prima pubblicazione, questo Dizionario ha regolarmente mirato a includere tutte le parole importanti della politica e offrire le più accurate concettualizzazioni. Né Norberto Bobbio né Nicola Matteucci pensavano di dovere rincorrere l’attualità, spesso confinante con la caducità, ma entrambi furono sempre disponibili a prendere in seria considerazione fenomeni politici nuovi la cui trattazione meritasse di essere inclusa in un dizionario di politica. Ferme restando le grandi voci della politica, molte delle quali scritte, opportunamente, da loro stessi, che contengono tuttora le migliori chiavi di lettura delle strutture portanti della politica, entrambi avrebbero certamente incluso l’analisi dei fenomeni nuovi. Sarebbero anche stati d’accordo sull’opportunità di aggiornare complessivamente il Dizionario da loro impostato e diretto.
La lezione dei classici può e deve accompagnarsi a quanto di nuovo emerge continuamente in politica e serve senza nessun dubbio a illuminare le problematiche contemporanee. Tuttavia, la selezione di quali problematiche nuove includere e di quali fenomeni antichi, diventati minori e oggi non più rilevanti, escludere, si presenta sempre difficile. Però, selezionare è indispensabile, anche al fine di mantenere non esagerate le dimensioni di questa opera che continua ad essere unica, nonostante qualche imitazione, nel panorama italiano e non solo. La mia conoscenza del pensiero politico di Bobbio e di Matteucci, la mia lunga familiarità con i loro interessi scientifici e culturali e la fiducia da loro sempre manifestatami mi consentono di pensare che sarebbero stati fondamentalmente d’accordo con le mie scelte di inclusione del nuovo e di esclusione di alcune voci divenute non più necessarie.
Oltre a rinfrescare alcuni voci, dunque, abbiamo proceduto all’aggiunta di una ventina di voci nuove. Lascio ai lettori, ai colleghi e agli studenti quella che mi auguro sia la gradevole curiosità di scoprire le voci nuove, valutando nei fatti quali conoscenze aggiuntive apportino per una migliore comprensione della politica nel mondo contemporaneo(e, se siamo stati bravi, anche per qualche tempo a venire). Ho la profonda convinzione, certo di condividerla con Bobbio e con Matteucci, che qualsiasi buona analisi politica debba iniziare con la definizione corretta dei fenomeni e con la loro migliore concettualizzazione possibile. Questo Dizionario offre gli strumenti più adeguati per procedere con successo ad entrambe le operazioni. Infine, non posso trattenermi dallo scrivere che buone analisi politiche sono necessarie sia per criticare e contrastare la cattiva politica sia per porre le premesse della buona politica. Almeno, seppure con enfasi differenti, questo è quanto, con Bobbio e Matteucci, abbiamo cercato di fare. Poiché le parole contano.
Bologna, gennaio 2016
Gianfranco Pasquino
«Il Dizionario di Politica è un’opera importante, unica nel suo genere, non soltanto in Italia, ma anche all’estero dove è stato apprezzato e tradotto. Rigoroso nelle definizioni, articolato e convincente nella trattazione dei termini politici, questo Dizionario, opportunamente rivisto e aggiornato, è uno strumento istruttivo, utile per gli studenti, per i docenti e sicuramente anche per tutti coloro che di politica vogliono saperne meglio e di più.» Giovanni Sartori

Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino
Dizionario di Politica. Nuova edizione aggiornata UTET 2016
***
Norberto Bobbio
Nicola Matteucci
Gianfranco Pasquino
Dizionario di Politica
Nuova edizione aggiornata UTET 2016
***
18 voci nuove:
ACCOUNTABILITY Gianfranco Pasquino
ALTERNANZA Marco Valbruzzi
CAPITALE SOCIALE Marco Almagisti
scontro di CIVILTÀ Gianfranco Pasquino
CITTADINANZA Maurizio Ferrera
COALIZIONI Marta Regalia
COMPETIZIONE Marta Regalia
CONSOCIATIVISMO Francesco Raniolo
DEFICIT DEMOCRATICO Gianfranco Pasquino
GOVERNANCE Simona Piattoni
GOVERNO DIVISO Gianfranco Pasquino
NARRAZIONE Sofia Ventura
NEO-PATRIMONIALISMO Francesco Raniolo
PATRIOTTISMO Maurizio Viroli
POLARIZZAZIONE Marta Regalia
elezioni PRIMARIE Marco Valbruzzi
TRANSIZIONE Gianfranco Pasquino
TRASFORMISMO Marco Valbruzzi
***
… Pace
Pacifismo
Parlamento
Partecipazione politica
Partiti cattolici
Partiti politici
Partitocrazia
Paternalismo
Patriottismo
Pauperismo
Peronismo
democrazia Plebiscitaria
Pluralismo
Polarizzazione
Polis
Politica
Politica comparata
Politica economica
Popolo
Populismo
Potere
Prassi
Primarie
Principato
Processo legislativo
Professionismo politico
Progresso
Proletariato
Propaganda
Proprietà
Pubblica amministrazione
Puritanesimo
Qualunquismo
Quarto stato
Radicalismo
Ragion di Stato
Rappresentanza politica
Razzismo
Referendum
Regime politico
Regionalismo
Relazioni industriali
Relazioni internazionali
Repubblica
Repubblica romana
Repubblicanesimo
Resistenza
Rivoluzione
Romant icismo politico
Scienza politica
Sciopero
Sciovinismo
Secessione errate
Signorie e principati
Sindacalismo
Sistema politico
Sistemi di partiti
Sistemi elettorali
Socialdemocrazie
Socializzazione politica
Società civile
Società di massa
Società per ceti
Sociologia politica
Sottosviluppo
Sovranità
Sovrastruttura
Spazio politico
Sistema delle Spoglie
Stabilità politica
Stalinismo
Stato assistenziale
Stato contemporaneo
Stato d’assedio
Stato del benessere
Stato di polizia
Stato e confessioni religiose
Stato moderno
Storicismo
Stratificazione sociale
Struttura
Tecnocrazia
Teocrazia
Teoria dei giochi
Terrorismo politico
Terza via
Timocrazia
Tirannia
Tolleranza
Totalitarismo
Transizione
Trasformismo
Trotskysmo
Uguaglianza
Unione Europea
Utilitarismo
Utopia
Violenza
INVITO Prima presentazione di La Costituzione in trenta lezioni – 17 febbraio 2016
sono lieti di invitarla alla presentazione di
di Gianfranco Pasquino
LA COSTITUZIONE IN TRENTA LEZIONImercoledì 17 febbraio 2016, ore 17
Biblioteca dell’Archiginnasio
piazza Galvani 1, BolognaL’Autore ne parlerà con
Elena D’Orlando (Università di Udine)
Justin O. Frosini (Università Bocconi)
Tommaso Giupponi e Sofia Ventura (Università di Bologna)