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Ripensare il finanziamento della politica @rivistailmulino fascicolo 1/20

Articolo pubblicato su “il Mulino”, 1/20, n. 507, pp. 45-52

Contro il finanziamento pubblico di questi partiti è il titolo di un mio articolo che “il Mulino” riuscì fulmineamente a pubblicare (vol. XXIII, marzo/aprile, pp. 233-255) prima che la legge n. 195 del 2 maggio 1974, primo firmatario il capogruppo della Democrazia cristiana alla Camera dei Deputati Flaminio Piccoli, concordata con tutti gli altri partiti ad eccezione del Partito Liberale Italiano (che in seguito ne tentò, senza successo, l’abrogazione per via referendaria) fosse licenziata rapidissimamente dal Parlamento bicamerale (a riprova che la volontà politica dei “legislatori” è sempre in grado di prevalere sull’assetto strutturale anche del bicameralismo paritario italiano). Naturalmente, non fui l’unico critico. L’analisi di poco successiva che apprezzai maggiormente fu quella di Ernesto Bettinelli (La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, in “Il Politico”, vol. 39, n. 4, Dicembre 1974, pp. 640-661). Eravamo e, credo, siamo rimasti sulla stessa lunghezza d’onda e, poiché l’argomento è il peso del denaro in politica, aggiungerò che la convergenza di opinioni, non a vanvera, ma informate, riguardò anche il conflitto d’interessi (do you remember?)

La posizione che argomentai allora era che fosse sbagliato e persino dannoso per i partiti e per la competizione democratica finanziare le strutture e i loro apparati invece delle attività essenziali in un regime democratico: propaganda e strumenti per la diffusione di idee e proposte per continuare a offrire una pluralità di scelte effettive (non di, più o meno appassionate e appassionanti, testimonianze) non soltanto al momento del voto, ma nel corso del tempo. Quei partiti italiani riuscirono a sfuggire per qualche tempo al giudizio del popolo (sic) salvati dalle allora zone rosse, Emilia-Romagna in testa, nel referendum dell’11 giugno 1978 promosso dai radicali. Il 43,6 per cento degli elettori (me, ovviamente, compreso) si pronunciò per il “sì” all’abrogazione. Quel che più conta, proprio grazie ai fondi pubblici, quei partiti ebbero modo di evitare qualsiasi riforma della loro organizzazione e dei loro comportamenti. Quanto all’organizzazione, non mi riferisco alla necessità/indispensabilità di introdurre modalità democratiche nel loro funzionamento (su cui ho scritto di recente: La democrazia nei partiti (degli altri), in “il Mulino”, vol. LXVIII, Novembre/Dicembre 2019, pp. 908-915). Considero, piuttosto, la volontà di aprirsi davvero ad una società che cambiava e della quale quei partiti, resi ancora più autoreferenziali dai soldi pubblici, pensarono, invece, di non avere bisogno né di studiarla né di “incontrarla”. La legge 195/1974 fu, da un lato, il compimento e l’epitome della partitocrazia italiana, dall’altro, una confortevole rete di sicurezza.

La crisi arrivò qualche tempo dopo sulla scia di Mani Pulite, intesa, per la parte che ci interessa qui, come la sconvolgente scoperta, ad opera degli elettori poiché i politici “non potevano non sapere”, che neppure il notevole flusso di denaro pubblico bastava ai partiti e ai loro dirigenti che vi aggiunsero abbondanti tangenti, mazzette, bustarelle e altro costruendo una sostanzialmente onnicomprensiva cappa di corruzione sistemica. Con il 90.3 per cento di sì, il 18 aprile 1993 l’elettorato si espresse per l’abolizione totale della legge (ne scrissi l’epitaffio subito dopo: Referendum: l’analisi del voto, in “Mondoperaio”, anno 31, n. 7-8, pp. 18-24). È quasi impossibile, meriterebbe un articolo specifico, seguire poi tutti i tentativi, spesso nel cuore della notte, effettuati dai partiti per continuare per continuare ad avvalersi, più o meno di straforo, di somme tutt’altro che limitate fino all’abolizione definitiva (sic) addirittura dei rimborsi elettorali sancita per decreto dal governo Letta nel 2014.

Che cosa rimane? Rimangono finanziamenti tutt’altro che irrisori per l’attività dei gruppi parlamentari assegnati in base alla loro consistenza numerica. A questo proposito, chi volesse davvero rendere difficile, eliminare mi pare impossibile, il fenomeno del trasformismo, potrebbe avanzare la proposta che i parlamentari che lasciano il gruppo al quale hanno aderito al momento della loro elezione non portano con sé quanto spetta al loro gruppo. Questo punto è significativo. Lo ripeterò più avanti. Rimane il 2 per mille che i contribuenti possono destinare al partito che preferiscono. Rimangono le cosiddette erogazioni liberali dei cittadini che le possono detrarre fino alla cifra di 30 mila Euro. Direi che, complessivamente, i partiti riescono comunque ad acquisire una cifra non marginale per svolgere attività politiche non solo di routine. Dovremmo, dunque, preoccuparci della presunta miseria di fondi nella quale i partiti italiani, anche grazie alla loro fattiva collaborazione, sono caduti?

Certamente, non è neppure da prendere in considerazione l’ipotesi che la loro miseria di idee derivi dalla carenza di denaro. Forse, è più vero il contrario. Peraltro, alcune Fondazioni legate a dirigenti di partito, ma sarebbe opportuna una ricognizione approfondita, sono in condizione di raccogliere e ricevere fondi appositi e di produrre attività visibili, non soltanto di propaganda, ma anche di ricerca, in qualche modo utili alla politica. Anche se è possibile ritenere e sostenere che la cattiva qualità della politica italiana non dipende dalla carenza di fondi, non possiamo non porci il problema del rapporto fra i soldi e la politica in Italia, oggi. Ieri, Craxi lo disse a chiarissime lettere nel suo discorso alla Camera dei Deputati, i soldi “andavano” un po’ a tutti i partiti (sento, però, che dovremmo procedere a opportune differenze sia quantitative sia nelle modalità con le quali quei soldi si “muovevano” e dove effettivamente finivano) anche se da quasi vent’anni esisteva il finanziamento pubblico dei partiti in quantità che erano certamente alquanto generose. Che cosa facevano quei partiti negli anni Ottanta e Novanta e perché avevano bisogno di una crescente quantità di denaro? A questa domanda è imperativo azzardare una risposta prima di affermare la necessità di tornare/ridefinire modalità di finanziamento pubblico.

La prima risposta ruota intorno alla politica italiana come si era strutturata, quasi monopolizzata dai partiti la cui competizione era sempre stata molto intensa e che si era acuita con la sfida socialista diventando per alcuni sostanzialmente una questione di vita e di morte. I partiti piccoli: Liberali, Repubblicani, Socialdemocratici, privi di entrate derivanti dagli iscritti e da feste di autofinanziamento, avevano assoluto bisogno di molto denaro semplicemente per sopravvivere. Più si alzava il livello della competizione, e certamente fu Craxi ad alzarlo (non è un demerito), più servivano soldi a tutti i competitors, al PSI più degli altri poiché la sua sfida competitiva si scontrava con due avversari molto attrezzati: DC e PCI. Naturalmente, oltre alla competizione fra i partiti, esisteva anche una competizione dentro i partiti, fra le correnti, in particolare, all’interno sia della DC sia dello stesso PSI. Ancora una volta erano i socialisti ad avere più bisogno di soldi poiché la lotta fra correnti fu durissima fino a quando Craxi ottenne il completo controllo del partito, dopo il Congresso di Verona nel maggio 1984. Soprattutto, però, furono i dirigenti socialisti candidati alla Camera in varie aree del paese ad avere bisogno di soldi che il centro non consegnava loro (no, il PSI non fu mai un partito “federale” come si diceva fosse, ma non fu, il Parti Socialiste di Mitterrand) per le loro campagne elettorali personali(zzate). Il numero di voti di preferenza da ciascuno di loro ottenuti ne consacrava la “capacità” politica, ne aumentava il prestigio, veniva tenuto nel massimo conto e fatto valere per ottenere cariche di governo. Ricordo qui che Craxi si oppose frontalmente al referendum sulla preferenza unica con l’invito ad andare al mare affinché non fosse conseguito il quorum, consapevole che la lotta per le preferenze (allora tre o quattro a seconda della dimensione delle circoscrizione) costituiva uno strumento importante per mobilitare una pluralità di settori di elettorato potenzialmente socialista.

Tutto questo fa parte del passato, di un passato che è utile conoscere per andare oltre verso una situazione migliore. Il problema è, però, fondamentalmente simile: è giusto finanziare i partiti di oggi con fondi pubblici? Qual è la somma da considerarsi complessivamente adeguata e con quali criteri dovrebbe essere attribuita e distribuita, a chi? Probabilmente, il primo passo da compiere dovrebbe consistere in un esercizio il più accurato possibile di spending review. Quanto i partiti oggi rappresentati in Parlamento spendono per la loro vita quotidiana e quali sono precisamente le loro voci di spessa? Non partiamo da zero poiché alcune cifre sono note, quelle che riguardano il finanziamento dei gruppi parlamentari sulla base della loro consistenza numerica e i fondi che vanno a ciascun parlamentare per pagare suoi collaboratori. Quanto al primo punto, il fenomeno del trasformismo nella sua versione di passaggio di parlamentari da un gruppo ad un altro gruppo indebolisce economicamente il gruppo che perde quei parlamentari e rafforza il gruppo che li riceve/accoglie. Ovviamente, se i parlamentari passano al gruppo misto è il gruppo di partenza che perde senza che venga rafforzato un altro gruppo. Le misure contro il trasformismo, se lo si ritiene fenomeno particolarmente nocivo per la vita politica, per la qualità della rappresentanza e per il ruolo e prestigio del Parlamento, possono essere anche altre. Peraltro, nulla vieta che il parlamentare trasformista possa essere punito anche nei fondi che gli sono assegnati personalmente né cozza contro l’assenza di vincolo di mandato che riguarda la sua libertà di voto non le sue traiettorie. Ricordo, comunque, che parlamentari assidui e intenzionati a contare che sappiano le domande da fare riescono ad ottenere un’assistenza eccellente dai funzionari di Camera e Senato e dai rispettivi uffici studi. Insomma, l’attività parlamentare dei singoli e dei gruppi non necessita ulteriori finanziamenti. Semmai, il mio suggerimento è eventualmente di provvedere a rafforzare anche numericamente gli apparati dei funzionari di Camera e Senato.

In verità, quando i partiti e i loro dirigenti chiedono più soldi giustificano la richiesta con riferimento a due tipi generali di attività: in primis, le campagne elettorali; secondo, il mantenimento dei rapporti con gli elettori anche fra una campagna elettorale e quella successiva. È un peccato che nessuno degli studiosi abbia esplorato in maniera approfondita né l’una né l’altra di queste attività. Impareremmo molto sia sulla società italiana e le sue richieste alla politica/ai politici sia sulle trasformazioni e le inadeguatezze dei partiti, dei politici, dei candidati, degli eletti. Di nuovo, in partenza suggerisco ancora una accurata opera di spending review che sarà certamente più delicata di quella che ha riguardato le spese in parlamento per le attività colà svolte. Infatti, sia le campagne elettorali sia i rapporti con gli elettori (e, immagino, con gruppi organizzati e con vere e proprie lobby) potrebbero contenere per ciascun partito e, chi sa, anche per qualche candidato, sia elementi al limite del lecito che, ovviamente, il partito vorrà tenere nascosti, sia elementi che, seppure leciti, è preferibile che non vengano resi noti poiché originali, innovativi, peculiari ad un candidato e/o al suo partito, tali da produrre effetti positivi. È giusto che la riservatezza venga garantita e che l’innovazione non venga svelata a vantaggio di chi non ha saputo fare altrettanto.

Non so dire quanto il sistema del Movimento 5 Stelle, che si basa sulla Piattaforma Rousseau, debba essere effettivamente collocato fra le innovazioni politico-comunicative. Sappiamo che non è stato imitato da nessuno dei concorrenti e sappiamo anche che il suo funzionamento e il suo finanziamento contengono elementi di riservatezza/segretezza variamente e fortemente criticati (e, aggiungo, criticabili). Saperne di più sui costi di quella Piattaforma, sugli eventuali, ma probabili, profitti del proprietario e gestore Davide Casaleggio e sulla provenienza dei fondi che ne consentono l’utilizzo è una lecita curiosità di chi desidera conoscere i costi della politica eventualmente da coprire con fondi pubblici.

Nella misura in cui i finanziamenti pubblici debbano essere ripristinati, essenzialmente per coprire i costi delle campagne elettorali, allora bisogna riflettere su almeno due aspetti importanti. Primo: per garantire la parità dei punti di partenza nelle competizioni elettorali è necessario che tutti i partiti e tutti candidati abbiano gli stessi fondi per organizzare eventi, distribuire messaggi, ottenere presenze televisive? Oppure i fondi andranno esclusivamente ai partiti (già) presenti nel Parlamento e ai loro candidati in quelle campagne elettorali? Non finiremmo in questo modo per dare vita ad una situazione di “cartello” fra partiti insediati che si spalleggiano nella quale diventa molto difficile, al limite dell’impossibile per partiti nuovi ottenere finanziamenti e quant’altro? D’altronde, potremmo anche legittimamente sostenere che, per avere accesso a fondi e servizi, spetterebbe ai partiti nuovi raggiungere in proprio una incerta soglia minima. Per esempio, raccogliere dai privati una predefinita somma di denaro che lo Stato raddoppierebbe. Quanti “piccoli” versamenti da quale numero minimo di privati (500 Euro massimo per ciascuno da almeno mille finanziatori/sottoscrittori) dovrebbero essere richiesti?

Come è facile notare subito, questa è una strada irta di ostacoli, forse anche di inconvenienti, che si presta più di un’obiezione, ma mi pare che meriti di essere percorsa anche perché coinvolgerebbe e responsabilizzerebbe i cittadini-elettori e non solo. Il messaggio non è “fatevi il vostro partito”, ma “sostenete chi porta avanti le vostre idee, le vostre preferenze, i vostri interessi”. Il secondo aspetto, che è ancora più importante, riguarda il tipo di sistema elettorale vigente. Una legge elettorale proporzionale non può che accompagnarsi a finanziamenti che vanno ai partiti, ai loro segretari amministrativi. Per quanto si possa statuire che i fondi saranno distribuiti anche alle organizzazioni locali, se le dimensioni delle circoscrizioni sono elevate, i costi delle campagne elettorali saranno di conseguenze prevedibilmente alti. Chi vuole tenere bassi i costi delle campagne elettorali deve volere circoscrizioni piccole, nelle quali si eleggano dieci o meno deputati. In questo caso i costi si ridurranno, ma non potranno comunque essere irrisori. Qualora, invece, vi siano collegi uninominali i costi delle campagne elettorali potranno effettivamente essere abbastanza contenuti, come, in Gran Bretagna dove vengono eletti 650 deputati e in ciascun collegio gli elettori variano da 80 a 100 mila elettori circa. Ovviamente, se il referendum non sconfiggerà il taglio dei parlamentari italiani, quand’anche, ipotesi del terzo tipo, si introducessero in Italia i collegi uninominali (inevitabilmente facenti parte di una legge elettorale maggioritaria), ciascuno di loro per la Camera dovrebbe contenere più di 125 mila elettori e per il Senato il doppio, vale a dire 250 mila. Il costo delle campagne elettorali risulterebbe sicuramente piuttosto più elevato di quelle inglesi. Qui non discuto minimamente le difficoltà di dare rappresentanza politica adeguata che conseguono dalla riduzione del numero dei parlamentari, ma è possibile in questo contesto sostenere che la democrazia ha davvero un costo e che è indispensabile che i cittadini siano informati su quello che segue al risparmio, non ingente, derivante dal taglio delle “poltrone”.

Ho la tentazione di concludere con alcune, poche, affermazioni drastiche, quasi apodittiche. Prima affermazione: ai partiti in quanto organizzazioni bisogna dare soltanto una quantità minima di denaro pubblico. È molto meglio finanziare adeguatamente l’attività dei gruppi parlamentari anche al fine di riacquisire attraverso il miglioramento delle loro prestazioni il prestigio perduto dai parlamentari e dal Parlamento in quanto tale. Seconda affermazione: è opportuno finanziare le campagne elettorali, meglio se, da un lato, offrendo servizi gratuiti ai partiti, dall’altro, procedendo a rimborsi per attività svolte dai partiti (e dai candidati), quelle attività che servono la politica garantendo effettiva competizione e mettendo a disposizione degli elettori il massimo di informazioni (aggiungerei, persino, in maniera visionaria, la possibilità e la strumentazione del fact checking) Infine, molti di questi nobili obiettivi: spese contenute, competizione reale, diffusione di informazioni, più potere agli elettori sono più facilmente conseguibili laddove e quando la legge elettorale prevede l’esistenza di collegi uninominali. Che qualche riformatore elettorale, soprattutto coloro che si collocano anche fra i risparmiatori, mi auguro che ce ne siano di disponili a mettersi all’opera, voglia tenere conto di questa cruciale indicazione?

Discutere se, come, quanto finanziare con denaro pubblico la politica democratica continua a essere un’operazione importante. Naturalmente, è altrettanto importante valutare se, come e quanto chi intende “fare” politica a tutti i livelli debba essere messo in condizione di ottenere denaro anche dai privati oppure soltanto dai privati oppure, ancora, in quale mix dal pubblico e dai privati. A qualunque soluzione si giunga, un elemento è irrinunciabile: bisogna che qualsivoglia finanziamento di provenienza dai privati al di sopra di una somma minima, che potrebbe essere indicata in 20 Euro, sia riconducibile a chi l’ha versata. Chi dà denaro a candidati, partiti e eletti compie un atto politico. Come qualsiasi altro atto politico il versamento di fondi deve essere pubblico, forse, meglio, deve, secondo modalità da stabilire, potere essere reso pubblico. È vero che in nessun luogo è oramai possibile fare politica senza disporre di denaro. Ma è altrettanto vero che un po’ dappertutto i cittadini diffidano di coloro che si fanno largo in politica grazie al loro denaro o alle donazioni che ricevono o ai fondi che ottengono, in maniera più o meno sregolata, dalle casse dello Stato e da altri soggetti. Credo sia essenziale aggiungere che la pubblicità deve riguardare anche i gruppi di pressione e i lobbisti.

Chi intende ridare dignità alla politica e ai politici stessi (dei quali troppi sostengono, con una buona dose di ipocrisia, di essere in politica “per passione” o “con spirito di servizio” e non con la legittima ambizione di acquisire cariche che consentano di produrre cambiamenti) ha l’obbligo di operare con il massimo di trasparenza. Altrimenti, il rischio che la politica in Italia ha già corso consiste nell’offrire straordinarie opportunità ai populisti. Dunque, non è sufficiente finanziare con fondi pubblici partiti e candidati. Anzi, forse, senza una meticolosa legislazione di contorno, questa modalità potrebbe risultare addirittura controproducente. Non è sufficiente neppure procedere a, pur essenziali, argomentazioni a favore di ciascuna modalità di finanziamento e di più per quello statale. È imperativo sapere garantire impeccabili controlli dei fondi e delle spese ai quali la cittadinanza sia in grado di accedere facilmente. Allora, alla fin della ballata, mi sento obbligato ad affermare che, no, non credo che in Italia sia già tornato il tempo del finanziamento pubblico della politica, con tutte le variazioni e precisazioni del caso. Alla domanda specifica risponderei: “dipende”. Spero di avere spiegato convincentemente da cosa dipende e perché.

Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Socio dell’Accademia dei Lincei, dal 2010 fa parte del Consiglio Scientifico dell’Enciclopedia Italiana. I suoi libri più recenti sono Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (2019); Italian Democracy. How It Works (2020) e Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (2020).

Un’inammissibile offensiva oltre la carta

Punti fermi.

Primo, il Presidente della Repubblica, com’è nei suoi poteri (art. 92) ha respinto il nome di un ministro e ha suggerito il nome del sostituto, dirigente e parlamentare della Lega.

Secondo, il Presidente del consiglio incaricato, Giuseppe Conte, dimostrandosi mero esecutore di, nell’ordine, Salvini e Di Maio, ha rimesso il suo incarico.

Terzo, scavalcato da Salvini, fallito l’obiettivo Presidenza del Consiglio, con il fiato sul collo di coloro che si apprestano a defenestrarlo, forse addirittura prendendo consapevolezza dei suoi molti errori e di un futuro incerto, Di Maio ha rilanciato. Chiede quella che lui chiama “la parlamentarizzazione della crisi” riferendosi all’art. 90 della Costituzione. In verità, quell’articolo regolamenta quello che Di Maio vorrebbe, vale a dire la messa “in stato d’accusa” del Presidente della Repubblica in due fattispecie: alto tradimento e attentato alla Costituzione..

Quarto, il Presidente della Repubblica ha immediatamente proceduto, come aveva pre-annunciato nel corso dei negoziati e come gli consente il citato art. 92 della Costituzione, al conferimento di un nuovo incarico a Carlo Cottarelli, già Commissario alla spending review, poi licenziato dal Primo ministro Renzi. Qualora, come appare probabile, Cottarelli non ottenesse la fiducia dal Parlamento si terranno nuove elezioni alla fine dell’estate. Altrimenti, il governo durerà fino all’approvazione del bilancio.

Quinto, il Presidente della Repubblica ha operato in quanto rappresentante dell’unità nazionale che deve fare osservare i Trattati sottoscritti dall’Italia, fra i quali quelli che regolano l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea e tutti gli obblighi che ne conseguono.

Sesto, consapevolmente, ripetutamente, democraticamente, ossia con votazioni parlamentari, rispettando l’art. 11 della Costituzione, l’Italia ha acconsentito e proceduto a “limitazioni di sovranità” per entrare a far parte dell’Unione Europea. Non ha perduto, ma ceduto parte della sovranità nazionale a favore di un’organizzazione nella quale si esprime in maniera più efficace la sovranità degli Stati-membri.

Settimo, nel mondo globalizzato, i “mercati” e gli operatori economici, di tutti i tipi, banche e agenzie di rating comprese, posseggono anche misure variabili di potere politico che può essere contrastato da governi nazionali legittimati, stabili, efficienti, affidabili. Comprensibilmente, la speculazione si dirige contro governi instabili, inefficienti, inaffidabili. Oggi più di ieri, l’Italia si trova in questa situazione.

Ottavo, la causa di fondo della situazione attuale è data dall’incapacità flagrante del Movimento Cinque Stelle e della Lega di individuare un capo del governo di sicura autorevolezza, competenza, credibilità internazionale. A un ragionevole compromesso con il Presidente della Repubblica Mattarella, per il quale, nel passato, l’on. Di Maio non aveva risparmiato parole d’elogio, i due partner, ma soprattutto Salvini, hanno preferito cercare di dimostrare di avere superiore potere politico e di essere in grado di imporlo al Presidente, senza riguardo alcuno per le sue prerogative costituzionali.

Nono, Mattarella ha esercitato il suo potere costituzionale di bloccare questo tentativo per ribadire il ruolo di equilibrio e di garanzia della Presidenza come istituzione, adesso e nel futuro.

Decimo, le modalità d’azione e di reazione di Salvini e di Di Maio rivelano in maniera lampante la loro incomprimibile predisposizione populista. La sovranità che il popolo possiede e esercita con il suo voto deve rimanere, secondo comma dell’art. 1, “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Salvini e Di Maio, assecondando l’eversiva richiesta di Giorgia Meloni, stanno pericolosamente trasformando quella che era una pur grave crisi politica, la difficile formazione del governo, in una potenzialmente esiziale crisi istituzionale, una maggioranza parlamentare che travolge la Presidenza della Repubblica. Questo è inammissibile.

Pubblicato AGL il 29 maggio 2018

La Riforma riduce la democrazia elettorale e non tiene conto del rispetto delle minoranze

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Intervista raccolta da Francesco Mazzocca

La lunghissima campagna referendaria si avvia alla conclusione. A una settimana dalla consultazione, ho avuto il piacere ma soprattutto l’onore di fare qualche domanda al Professore Gianfranco Pasquino, uno dei massimi esperti di scienza politica internazionale, e punto di riferimento nel panorama del costituzionalismo comparato attraverso innumerevoli opere e pubblicazioni. Dal 2014 Professore Emerito all’Università di Bologna, Gianfranco Pasquino ha insegnato a Firenze, Harvard, Los Angeles. Per diverso tempo è stato editorialista de La Repubblica, Il Sole 24 Ore, L’Unità. In questa intervista ci illustra, ancora una volta, le ragioni a sostegno del No per il referendum del 4 dicembre.

Egregio Professore, innanzitutto la ringrazio per la sua enorme disponibilità. Ormai siamo agli sgoccioli, manca una settimana al referendum per la conferma della riforma della costituzione. Quali sono le sue sensazioni?

Lei mi chiede una previsione, ma io le rispondo che sono lieto di avere riscoperto anche molte “sensazioni romantiche”. Credo di avere colto in alcune migliaia di cittadini interlocutori effettiva voglia di capire e un grande desiderio di fare la cosa giusta. Non parlavo alla loro pancia, ma ho cercato di sollecitare la loro testa senza mai dimenticare che per molti la Costituzione riguarda anche il cuore: la loro “passione” civile e politica.

Questa campagna referendaria è stata condotta con grande dispendio di energie, in entrambi gli schieramenti. Molto probabilmente i sostenitori del Sì ne hanno fatto quasi un atto di parte, una sorta di atto di indirizzo politico che mal si concilia con l’idea e la sostanza della Costituzione, ovvero la condivisione dei valori. Una contrapposizione inaccettabile per un paese come l’Italia. Perché secondo lei tutto questo astio?

Molti, troppi sostenitori del sì, a cominciare dal Presidente del Consiglio (e dalla più riluttante, ma altrettanto responsabile Ministra Boschi) si giocano la carriera politica. Se vincono, molti saranno ricompensati con cariche dal Parlamento alla Corte Costituzionale, da qualche cattedra a qualche ruolo nei moltissimi enti di nomina governativa. Spero di non vedere nulla di questo. Suggerisco di seguire i percorsi dei più insolenti fra i sostenitori del sì.

Entriamo nel merito del testo: il rinnovato Senato sarà composto, oltre che da rappresentati dalle Regioni, anche da Sindaci e da personalità nominate dal Presidente della Repubblica. La prima contraddizione: come fanno ad essere rappresentanti delle Regioni?

Nessuna contraddizione: essendo stati lottizzati (scelti “in conformità alle scelte degli elettori”) rappresenteranno docilmente, ah, dovrei scrivere “disciplinatamente”, i partiti che li hanno eletti/nominati/designati. Le regioni sono solo un trampolino per un po’ di prestigio e alcuni vantaggi.

In termini di democrazia la riforma ha fatto un enorme passo indietro. Fino ad ora la spaccatura tra elettori ed eletti era rappresentata dalla lista bloccata: zero possibilità di scelta, ma avevamo almeno la conoscenza di una lista, di una graduatoria. La stretta connessione tra legge elettorale e riforma costituzionale ci porterà i senatori nominati dai Consigli regionali: la spaccatura tra politica e società civile mi sembra sia ormai insanabile.

E chi ha mai detto che bisogna sanare “la spaccatura tra politica e società civile”? L’obiettivo dei sedicenti riformatori è duplice: 1. ridurre la democrazia elettorale, 2. ampliare la governabilità, vale a dire i poteri di un governo che riesca ad essere sempre meno controllabile.

Alzare il numero minimo di firme per la presentazione dei progetti di legge di iniziativa popolare; abbassare il quorum per la validità del referendum abrogativo quando a richiederlo siano almeno 800000 persone. Insomma, un vero e proprio pasticcio di numeri che riduce fortemente il senso della regola della maggioranza, caposaldo di ogni democrazia costituzionale.

No, la regola della maggioranza non è il caposaldo di ogni democrazia costituzionale. In democrazia ci sono decisioni prese con maggioranze relative e non contestate e decisioni da prendersi con maggioranze qualificate. Il caposaldo è il rispetto delle minoranze, non impedirne la rappresentanza, non schiacciarle, dare loro sempre voce. Avere freni e contrappesi. Operare in trasparenza con piena assunzione di responsabilità, non con meccanismi opachi. Nulla di questo si trova nelle riforme. Neppure nel quesito referendario, a riprova della scarsissima importanza attribuita alla partecipazione dei cittadini, si fa cenno alcuno a referendum e iniziativa legislativa popolare.

La riduzione dei tempi per l’approvazione di una legge è stato lo sponsor più forte per far sì che a legiferare sia una sola camera. In realtà, da profondo conoscitore delle dinamiche parlamentari, possiamo dire che i ritardi nell’approvazione di una legge dipendono dalla cattiva calendarizzazione dei lavori parlamentari, e che la doppia lettura di Camera e Senato c’entra poco?

Un governo che poggia su una maggioranza politica, anche solo relativamente coesa, ottiene dal bicameralismo italiano quello che vuole, a condizione che sappia che cosa vuole, magari perché attua il programma suo o quello concordato con gli alleati, e sia capace di perseguirlo. Tutto il resto, lentezza, farraginosità, andirivieni, sono favole che Renzi e Boschi possono raccontare poiché non hanno nessuna cognizione sul funzionamento dei parlamenti, ma che altri, a cominciare dal parlamentare di lunghissimo corso, Giorgio Napolitano, e dagli ex-Presidenti di Camera, Violante e Casini, e Senato, Pera, dovrebbero per decenza evitare e smentire.

Ultima domanda: la riduzione dei costi col taglio del numero dei Senatori è stata una motivazione che ha strumentalizzato molto il senso della riforma. In realtà, numeri alla mano si può tranquillamente affermare che i costi saranno ridotti di una percentuale minima. Ma quand’anche fosse vero il gran risparmio, è fuori luogo ragionare della Costituzione in termini economici, perché si rischia una fortissima riduzione di partecipazione della società civile alla vita politica. Insomma, si sacrifica la democrazia in nome dell’economia.

Tagliare i politici e ridurre costi sono misure che, anche a causa del tono con cui vengono annunciate, sollecitano l’antiparlamentarismo di troppi italiani e vanno nella direzione di un populismo soft. I risparmi saranno molto limitati. Quello che ci vuole è una spending review costante. Per esempio, i referendum, compreso quello sulla trivellazione, vanno tenuti, ogni volta che è possibile, insieme ad altre consultazioni elettorali. Per esempio, avremmo risparmiato moltissimo se questa campagna referendaria Renzi non l’avesse iniziata a fine aprile e se avesse fissato la data della consultazione, non nell’ultimo giorno possibile, ma nel primo. La democrazia costa e i cittadini consapevoli sanno che è giusto pagare per il suo buon funzionamento. Ma i costi della politica dei politici non debbono gravare sulle tasche dei cittadini contribuenti, ma di quei politici. Sappiamo chi sono.

Pubblicato il 27 novembre 2016 su SCISCIANONOTIZIE.IT

Ecco la “percentuale” che spaventa Renzi

Il sussidiario

Intervista raccolta da Pietro Vernizzi per ilsussidiario.net

POLITICA
SCENARIO/ Pasquino: ecco la “percentuale” che spaventa Renzi
giovedì 3 settembre 2015

Renzi non deve temere né l’ondata dei migranti né l’ascesa di Grillo, perché gli italiani sanno bene che non sono problemi che ha creato lui. La sua unica preoccupazione dovrebbe essere il fatto che il Pil allo 0,7% non basta a ridare al Paese la crescita economica di cui ha bisogno”. E’ l’analisi di Gianfranco Pasquino, politologo, secondo cui “è proprio sulla mancata ripresa che il settembre politico di Renzi rischia di essere contrassegnato da una serie di nuovi annunci privi di sostanza”. Nell’intervista al Corriere della Sera Renzi aveva sottolineato che “se vogliamo fare una forzatura sul testo uscito dalla Camera, i numeri ci sono, come sempre ci sono stati. Chi ci dice che mancano i numeri sono gli stessi che dicevano che mancavano i voti sulla legge elettorale, sulla scuola, sulla Rai, sul Quirinale”.

Che cosa ne pensa del modo con cui Renzi intende affrontare la questione della riforma del Senato?

Quella da parte di Renzi è la solita esibizione di boria, che non ha nulla a che vedere con la bontà della riforma ma soltanto con la voglia di portarla a casa per dimostrare la propria forza. Resta il fatto che questa rimane una riforma brutta, e segnala l’incapacità di negoziare che dovrebbe invece caratterizzare un capo di governo riformista.

Se Renzi tira dritto sulla riforma del Senato, si potrebbe arrivare a una scissione del Pd?

La scissione è soprattutto il prodotto della volontà di chi è al potere di cacciare fuori quanti lo ostacolano. Chi è contrario vuole dei cambiamenti sul contenuto, Renzi invece vuole dimostrare che ha il potere. Dopo di che, a furia di tirare la corda, si logorerà a tal punto che diventerà politicamente e psicologicamente impossibile rimanere in un partito dove i dissidenti sono sbeffeggiati e spesso dichiarati l’ostacolo maggiore a una non meglio definita politica riformista.

Che cosa ne pensa dei cinque senatori nominati dal Quirinale inseriti nella riforma?

Quello che mi sorprende è che né il presidente emerito Napolitano né il presidente in carica, Mattarella, abbiano spiegato quale senso abbia l’idea di avere cinque senatori nominati dal Quirinale, in un Senato che dovrebbe essere la Camera delle autonomie. Di fatto questo aspetto non ha nessun senso, e dovrebbero essere Mattarella e Napolitano a chiederne la cancellazione.

Con settembre ricomincia l’attività parlamentare. Il governo raccoglierà i frutti dopo avere seminato?

Perché ciò avvenga mancano tanti tasselli fondamentali. In primo luogo, il rilancio dell’occupazione attraverso il Jobs Act passa anche per la crescita, perché se il Paese non cresce i posti di lavoro non si moltiplicano. La spending review inoltre è stata prima affidata a Cottarelli, e poi non se n’è fatto nulla. Allo stesso modo non vedo i decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione, e neppure flessibilità e dinamismo in quello che dovrebbe essere uno Stato capace di fare le riforme. Mi aspetto quindi che Renzi trovi presto qualcosa di nuovo da annunciare, e poi vedremo come si andrà avanti.

Di che cosa ha più paura Renzi in questo momento? Di Grillo, degli immigrati o della mancata crescita?

Mettermi nei panni di Renzi è sempre un’operazione che preferirei evitare. Dovrebbe però avere paura di un’economia che continua a non crescere. Gli italiani sanno che alcuni problemi, come i migranti o il rafforzarsi dell’M5S, non sono stati prodotti da Renzi. Il premier deve quindi soltanto temere il semplice fatto che il Pil allo 0,7 % non produce la crescita di cui l’Italia ha bisogno. Dopo la Grecia, l’Italia continua a essere il fanalino di coda. Altro che maglia rosa.

E’ sull’economia che Renzi si gioca le prossime elezioni?

Sì, perché questo è un problema che gli italiani sperimentano di tasca propria ogni volta che vanno al supermercato. Ciò che occorrono sono delle soluzioni più profonde e durature, mentre per fare la riforma del Senato si può anche usare la spada di Gordio. Anche se non lo si dovrebbe fare, perché le istituzioni sono qualcosa che va trattato non con la spada ma con il bisturi.

Secondo Piepoli, nessun partito supererebbe il 40%, Pd ed Ncd insieme prenderebbero il 28%, l’M5S il 29%, FI e Lega il 26%. Quale scenario ci dobbiamo aspettare?

Non è affatto sorprendente che il Pd non riesca a superare il 40%, perché l’ha fatto una sola volta grazie a un colpo di fortuna. Non mi sorprende neppure che ci sia una crescita di FI e Lega, anche perché Salvini è quello che fa più politica sul territorio. Rispetto a Salvini, nel bene e nel male si stanno facendo gli stessi errori che si fecero con Berlusconi: la demonizzazione porta infatti voti al demonizzato. Infine non mi sorprende neppure che cresca il consenso dell’M5S. C’è infatti uno zoccolo duro di italiani insoddisfatti che voteranno il partito che si caratterizza come il più credibile se confrontato con i vecchi partiti. Con questo sistema elettorale l’M5S va al ballottaggio, e dopo ne vedremo delle belle, anzi delle stelle.

Gli elettori di centrodestra però non voterebbero mai M5S al secondo turno…

Questo lo dice lei. Alle Comunali a Parma gli elettori di centrodestra hanno certamente votato per Pizzarotti. A Livorno è stata invece una parte di Pd a votare per il candidato dell’M5S, Nogalin. Al ballottaggio quindi potrebbe avvenire la stessa cosa.

(Pietro Vernizzi)

Parlare (bene) dell’Europa

l'Unità

Democrazia e burocrazia. Ovvero poca democrazia e troppa burocrazia: questa è l’accusa che gli anti-Europeisti di tutti i tipi e di tutti i colori lanciano contro l’Unione Europea. Questo è il terreno sul quale gli Europeisti hanno il dovere di lanciare la loro sfida e di fare campagna elettorale. “Uno vale uno” anche in Europa, ma non è in questione soltanto l’eguaglianza del peso politico di tutti gli Stati-membri, che, in effetti, esiste su molte problematiche, e che, dunque, gli Europeisti hanno il dovere di spiegare ai cittadini dei singoli Stati. Sono in questione le procedure decisionali sia nella Commissione Europea sia nel Parlamento Europeo. Poiché ciascuno stato-membro nomina un Commissario la sua influenza sarà tanto più grande quanto più quel Commissario sarà competente, rispettato, efficace. Altrimenti vi saranno contraccolpi negativi anche sul governo che lo ha nominato che risulterà meno influente e meno credibile.

L’elezione del Parlamento europeo, la cui importanza i partiti europeisti non dovrebbero cessare di sottolineare, facendo riferimento alle molte “leggi” buone da quel Parlamento approvate, offre la possibilità ai cittadini europei di contare scegliendo rappresentanti competenti e capaci che sappiano lavorare affinché l’Unione Europea proceda verso una migliore integrazione politica. Questa integrazione può essere ottenuta attraverso accordi, anche senza la complessa modifica dei Trattati, con una selezione rigorosa delle materie sulle quali l’Unione deve concentrarsi. I candidati e i partiti che credono nell’Europa dovrebbero (ri)prendere in mano e sventolare la bandiera della sussidiarietà. L’Unione farà esclusivamente quello che gli Stati nazionali e i loro governi locali non sono (più) in grado di fare. Al tempo stesso, non soltanto per la campagna elettorale, ma per un’esigenza di verità, candidati e partiti europeisti dovrebbero fare un elenco delle riforme importanti che l’Europa ha già saputo formulare , e qualche volta necessariamente imporre, agli Stati.

E’ possibile e opportuno anche fare una stima dei costi della non-Europa oltre ai vantaggi portati dall’Europa. Non soltanto ai giovani si potrebbe ricordare il vero “dividendo della pace”: nessuno di loro è stato mandato a morire in guerre sul territorio europeo da quando l’Unione esiste. Molti giovani hanno anche avuto modo di sperimentare l’importanza culturale e professionale dei programmi Erasmus. Ai milioni di turisti e operatori economici nella Eurozona è opportuno ricordare quanto l’Euro abbia consentito operazioni altrimenti molto più costose e aleatorie. Ai cittadini che voteranno bisogna offrire una campagna elettorale positiva, non tanto contro i populisti e i nazionalisti, ma a favore di una collaborazione trasparente fra Stati che hanno obiettivi comuni non altrimenti perseguibili, in un mondo globalizzato, se non attraverso “una unione più stretta”. Toccherà al nuovo Parlamento e alla nuova Commissione affrontare la loro severa spending review e attuare una sana cura dimagrante della burocrazia, sottolineando, primo, che numericamente la burocrazia “europea” non è affatto sovradimensionata (non è principalmente questione di numeri, ma, come dicono gli inglesi, di red tape, di pratiche cartacee); secondo, l’Unione Europea è un organismo con più di 300 milioni di cittadini che ha assoluta necessità di sostegno burocratico.

Nelle elezioni nazionali, i governi rendono conto ai cittadini di quanto hanno fatto, non fatto, malfatto, anche perché costretti a farlo dalle rispettive opposizioni. E’ ora che nelle elezioni europee, le autorità dell’Unione, i parlamentari uscenti (anche quelli che non rientreranno), i partiti offrano il loro bilancio di un’Unione Europea che, in tempi difficili non a lei attribuibili, ha comunque saputo tenere il timone e che continua ad essere il più grande spazio di libertà, di pace e di prosperità con diseguaglianze contenute, mai in precedenza conosciuto.

L’Unità 28 marzo 2014