Home » Posts tagged 'storytelling'
Tag Archives: storytelling
I dilemmi di Draghi e il potere che rinuncia allo storytelling @DomaniGiornale
Già predisposti favorevolmente nei confronti di Mario Draghi, praticamente tutti i giornalisti presenti alla sua prima conferenza stampa ne hanno tessuto grandi lodi: preciso, sintetico, rilassato, competente. Potrei subito dire che è il classico omaggio che il vizio (giornalisti spesso faziosi, sempre verbosi, talvolta ad arte sopra le righe) che fa alla virtù (un uomo competente e pacato come stile e temperamento). Se vogliamo, però, capire come nascono e come funzionano i processi di comunicazione politica e di formazione dell’opinione pubblica, è indispensabile andare più a fondo nell’analisi, anche retrospettiva, sapendo fare utile ricorso alla comparazione.
Draghi giunge alla carica di Presidente del Consiglio perché legittimamente nominato dal Presidente della Repubblica nell’esercizio dei suoi poteri costituzionali. Accolto da un ampio consenso delle forze politiche in Parlamento e più in generale dei mass media, Draghi non ha nessun bisogno di impegnarsi nell’importante attività che gli studiosi/e di comunicazione politica chiamano storytelling. Non deve raccontare la sua vita professionale come un insieme di ostacoli e di dolori da lui superati con successo grazie all’impegno e al lavoro (su questo punto, ampiamente e convincentemente si veda il libro di Sofia Ventura, I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia, Bologna, il Mulino, 2019). La sua biografia professionale parla da sé, alto e forte. Draghi non deve annunciare a nessuno che è un predestinato. Non lo pensa, ma certo non vuole perdere tempo a scoraggiare i “benpensanti”. Non deve neppure indicare che quello che farà si situa in continuità con la sua azione europea ed è essenzialmente la prosecuzione logica e coerente di quello che ha già fatto appunto in Europa. Anzi, tenere basse le aspettative è la strategia migliore, peraltro già adeguatamente nelle corde del Presidente del Consiglio.
Ciò detto, tuttavia, al (governo del) Presidente del Consiglio è stato affidato, più o meno opportunamente, anche il compito di ristrutturare la politica. Questa ristrutturazione potrebbe essere estesa (o ristretta) al sistema dei partiti. Certamente, un governo del quale fanno parte tutti i partiti esistenti meno uno offre una pluralità di impressioni/sensazioni all’opinione pubblica, una delle quali non può non essere quella di un eccessivo unanimismo, forse “grande ammucchiata”. Contrastare questa valutazione che, altrimenti, potrebbe tradursi in rigetto dell’attuale governo e in apatia/alienazione politica, è possibile soltanto attraverso un tentativo esplicito di influenzare e plasmare l’opinione pubblica.
L’uomo solo al comando deve apparire tale soltanto perché accetta le responsabilità della decisione da prendere e presa (è una delle dimensioni de Lo stile del leader. Decidere e comunicare nelle democrazie contemporanee, Bologna, il Mulino, 2016, individuata da Donatella Campus), non perché non presta ascolto alla pluralità di voci, di preferenze, di aspettative e di interessi. Rimane aperto e controverso il rapporto che il leader deve stabilire fra mediazione e disintermediazione quando si confronta con gli interessi organizzati. Quanto all’ascolto, non può essere unicamente prestato ai giornalisti nelle rade conferenze stampa. Non può essere quello riferito ai cittadini esposti alle teleconferenze che il Presidente del Consiglio tiene con la Commissione Europea e con gli altri capi di governo. Non può neppure essere quello del pubblico dei messaggi inviati in occasioni importanti. Infine, per la specificità di Draghi leader non-politico, non può riferirsi alla dimensione che Campus definisce della ispirazione che “spinge ad aderire a un progetto proposto dal leader e a identificarsi con esso” (p. 29). Mancano sia un progetto esplicito sia seguaci disponibili. Sento di dovere sottolineare che, talvolta, senza contraddizioni, l’ascolto deve tradursi anche in presenza personale, nell’esposizione, non voglio eccedere, ma l’espressione tecnica è “del corpo del leader”.
Da tralasciare, invece, perché in larga misura impropria e, forse, intrinsecamente provocatoria, è qualsiasi comparazione con i leader autoritari che del loro corpo facevano (e continuano a fare) un messaggio politico. Tuttavia, è indubbio che, ricorro ad un esempio certamente memorabile, l’inginocchiarsi spontaneo di Willy Brandt nel dicembre 1970 davanti al monumento alla Shoah a Varsavia fu e rimane uno dei più potenti messaggi politici e personali in materia di riconoscimento di quel crimine contro l’umanità. Fatte le debite proporzioni, la presenza di Draghi all’inaugurazione della stele dedicata alle vittime del Covid-19 al cimitero di Bergamo è un segnale politico, nel senso più alto della parola, di appartenenza alla comunità attraverso la visibile condivisione del dolore.
Un capo di governo di più o meno lungo corso politico è abitualmente espressione di un partito. Quasi sicuramente, anche se da qualche anno meno che in passato, quel partito ha una presenza organizzata sul territorio. Tiene i contatti con il suo elettorato. Con maggiore o minore successo diffonde informazioni. Cerca di mantenere o creare atteggiamenti e valutazioni favorevoli al suo capo di governo. Un capo di governo di estrazione non politica, soprattutto se non nutre ambizioni di carriera, non ha probabilmente grandi incentivi per preoccuparsi del consenso espresso dall’opinione pubblica. Però, è consapevole che quel consenso si manifesterà e anche crescerà in seguito alle decisioni corrette, ai cambiamenti positivi, alle prospettive di crescita e di miglioramento. Che sarà, dunque, un termometro di valutazione della bontà o meno delle sue scelte. Ovviamente, in parte è così, ma l’opinione pubblica, soprattutto in situazioni oggi esistenti in tutte le democrazie, di bombardamenti di notizie anche fake, di divisioni in compartimenti stagni polarizzati e conflittuali, di tentativi di manipolazione, deve essere raggiunta da messaggi forti, frequenti, rassicuranti e credibili che soltanto un capo di governo e alcune poche altre autorità politico-istituzionali più qualche straordinaria figura di intellettuale pubblico è in grado di mandare con successo.
Non sono pochi coloro (ad esempio, Giovanni Sartori, Opinione pubblica, in Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, pp. 177-215) che ritengono che non è più neppure possibile parlare di opinione pubblica al singolare, ma che ci sono alcune differenziazioni di cui è imperativo tenere conto. La prima è che esiste un cerchio relativamente ristretto di un’opinione pubblica bene informata, attenta, reattiva. Quanto ristretto o ampio sia quel cerchio è oggetto di costante ricerca e riformulazione. Questa parte di opinione pubblica è facilmente raggiunta dai messaggi del capo di un governo, ma non è sempre incline a diffonderli agli altri cerchi di opinione pubblica, meno colti, meno attenti, con minori informazioni di base. Inoltre, per questi diversi cerchi di opinione pubblica, i messaggi che contano e che influenzano atteggiamenti e comportamenti non sono quelli fondati su idee e argomentazioni. Sono quelli improntati da sensazioni e emozioni, da simpatia e empatia. Campus fa l’esempio di Bill Clinton, mentre Ventura assegna a Barack Obama la qualifica di leader della “speranza”. Un capo di governo che riesce a convincere i suoi concittadini che opera per loro, che li ha capiti, che sta con loro può conquistare parte almeno di quei settori sparsi e svagati di opinione pubblica. In un certo senso, Conte aveva fatto diversi passi, premiati dai sondaggi, nella direzione giusta. Dal punto di vista del tipo e della qualità di connessione da stabilire con l’opinione pubblica italiana, il Presidente del Consiglio Draghi sembra soltanto all’inizio della “dritta via”.
Pubblicato il 27 marzo 2021 su Domani
Ripartenza senza idee né programmi
“Tornare a casa per ripartire insieme” è stato il titolo dell’iniziativa svoltasi al Lingotto per lanciare la campagna elettorale di Matteo Renzi alla segreteria del Partito Democratico. Dal Lingotto dieci anni fa partì Walter Veltroni per diventare il primo segretario del nuovo partito. Durò pochissimo. La sua “vocazione maggioritaria” non fu sufficiente a fargli vincere le elezioni politiche del 2008 e nel febbraio 2009 si dimise. Dunque, Renzi non è, come si ostina a ripetere, l’unico a lasciare la poltrona dopo la sconfitta (per la cronaca politica, dalla “poltrona” di capo del governo si dimise addirittura D’Alema nel maggio 2000). Non è chiaro che cosa si sia prefisso Renzi con il ritorno al Lingotto: farsi un pedigree veltroniano? avere il sostegno di Chiamparino? trovare nuove idee? Agli osservatori e ai commentatori, questa volta meno benevoli del solito, il senso della prima parte dello storytelling renziano è sostanzialmente sfuggito. Quanto al “ripartire insieme”, che ripartire sia necessario non ci piove, ma insieme a chi non è apparso chiaro a nessuno. Se per fare “l’insieme” è sufficiente il cosiddetto ticket con il Ministro Martina che porterebbe in dote la componente ex-DS, allora è davvero poca cosa, come confermano anche i sondaggi. Certamente, con l’espressione “insieme” Renzi non ha in nessun modo inteso tendere la mano agli scissionisti che, anzi, sono stati ripetutamente criticati e da qualcuno dei sostenitori di Renzi addirittura bollati come “vigliacchi”. Né, infine, per giustificare “insieme”, è sufficiente sostituire il “noi” all’io nelle esternazioni renziane.
Del partito, che nella corsa alla segretaria, dovrebbe essere l’oggetto del contendere, non tanto come conquistarlo, ma come ri-organizzarlo, non ha parlato nessuno. E’ stata una mancanza preoccupante in un’assemblea di uomini e donne di partito che al partito-ditta di Bersani e ai voti da lui ottenuti nel febbraio 2013 sono debitori delle loro cariche, del loro potere, delle loro carriere in atto e future. Qualche cenno è stato fatto alle alleanze, tanto vituperate fino a ieri anche se, senza gli alleati: la spappolata Scelta Civica e il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (più qualche aiutino di Denis Verdini, diventato innominabile e per il quale il neo-garantismo di Renzi non sembrerebbe applicarsi), il PD non avrebbe nessuna maggioranza operativa al Senato. L’unica cosa nuova è stata l’offerta all’ex-sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, di un posto nelle liste PD. Un’offerta assolutamente strumentale, quasi per disinnescarne il tentativo di organizzare un campo progressista che, se vincente, sarebbe una significativa novità: spazio di sinistra plurale simile a quella creata da François Mitterrand 46 anni fa dalla quale ottenne lo slancio e la forza per vincere le elezioni presidenziali francesi del 1981.
Pur con la sotterranea consapevolezza che qualche alleanza bisognerà pur trovarla per tornare, non a casa, ma a governare il paese e che una grande differenza la farà la prossima indispensabile legge elettorale, al Lingotto non si è discusso né dell’una né dell’altra. Lo storytelling non ha riguardato niente di davvero politico, di davvero concreto, di davvero produttivo di conseguenze. Neppure i numerosi ministri costretti a sfilare hanno saputo entusiasmare i rappresentanti del popolo del PD con la rivendicazione di qualche successo acquisito e con la presentazione di qualche progetto epocale. Il PD di Renzi riparte, ma la strada è la stessa, un po’ più in salita. La parola, pardon, lo storytelling passa agli altri concorrenti, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il governatore della Puglia Michele Emiliano, i quali dovrebbero raccontare come sapranno ampliare lo spazio e migliorare l’organizzazione e la democrazia interna del Partito chiamato Democratico.
Pubblicato AGL 14 marzo 2017
Elogio del referendum. La voce del popolo migliora le democrazie
Pubblicato nella Rivista della Fondazione Nenni, “L’articolo 1”, Anno II, n. 1, 2017, pp. 18-20
Referendum? Torniamo alla fonte delle democrazie che conosciamo. Sto con Abraham Lincoln. Nel 1863, a Gettysburg, in piena guerra civile, il Presidente degli Stati Uniti definì la democrazia come “governo dal popolo, del popolo, per il popolo”. Il governo è democratico se trae la sua legittimazione elettorale dal popolo. Il governo è democratico se opera per il popolo, vale a dire rappresentando gli ideali, attuando le preferenze e soddisfacendo gli interessi del popolo. Infine, il governo è democratico, vale dire del popolo, se il popolo ha altri strumenti, oltre alle periodiche elezioni, per influire sui processi decisionali: l’iniziativa legislativa (proposition è il termine americano), la revoca (recall) dei governanti e i referendum, decisioni sulle leggi. Espellere il referendum dalla batteria degli strumenti democratici sarebbe una grave limitazione della democrazia di qualsiasi paese. Vero è, però, che non solo, ad esempio, negli Stati Uniti d’America non esiste il referendum a livello federale, ma esistono unicamente referendum nei singoli stati. Vero è, altresì, che, in generale, le democrazie parlamentari anglosassoni sono democrazie rappresentative nelle quali il ricorso al referendum, con l’eccezione dell’Australia, è molto raro, in pratica eccezionale.
Dal 1945 ad oggi, la Gran Bretagna ha tenuto tre referendum in tutto: due su ingresso (1975) e uscita (2016) dall’Unione Europea e uno sul cambiamento della legge elettorale (nel 2011, respinto). Da quando esiste, in Italia, il referendum abrogativo è stato usato 67 volte. In 39 casi il quorum è stato superato, in 28 no. Per 23 volte hanno vinto i sì; 16 volte i no. In tutti i referendum tranne uno, che non hanno conseguito il quorum, il sì ha avuto nette maggioranze. Si sono tenuti 3 referendum costituzionali: 2001, vittoria del sì; 2006 e 2016 vittoria del no. Negli Stati-membri dell’Unione europea si sono tenuti, con fortune alterne, ad esempio, in Irlanda e in Danimarca, referendum sull’accettazione di Trattati Europei. Per due volte, con un referendum i norvegesi si sono rifiutati di aderire all’Unione Europea nonostante la posizione favorevole della maggioranza delle loro elites politiche, economiche, culturali.
Quando l’esito, più o meno sorprendente, come quello britannico Leave or Remain (giugno 2016) e come quello italiano sulle riforme costituzionali va contro le aspettative delle elites, allora, invece di criticare l’incapacità delle elites stesse di convincere il popolo, ma preferisco di gran lungo il termine cittadini, con buoni argomenti, il biasimo colpisce proprio quei cittadini. Nel migliore dei casi si sostiene che il quesito loro sottoposto era troppo complesso da capire; nel peggiore, li si accusa di non essersi informati abbastanza, di non avere comunque gli strumenti per capire e per scegliere con reale cognizione di causa, di avere votato con la pancia e non con il cervello. Per evitare presunti guai maggiori, ricomincia a circolare la proposta di fare a meno dei referendum, di eliminare uno degli strumenti della democrazia del popolo. Immagino che, con coerenza, Lincoln osserverebbe che non bisogna buttare il bambino referendum con l’acqua sporca della campagna referendaria svolta, spesso, senza gli appropriati riferimenti alla posta in gioco e alle sue conseguenze per i cittadini, per le loro condizioni di vita, per il funzionamento del sistema politico. Se dell’oggetto del referendum, il cosiddetto merito, le elites partitiche, economiche, culturali, mediatiche non parlano e non approfondiscono preferendo metterla sul “personale”, sulla persona dei proponenti, sulla loro richiesta di appoggio, per un consenso ai limiti del plebiscitarismo, è del tutto legittimo che gli elettori diano una risposta su questo piano, sul quale, comprensibilmente, la pancia conterà più della testa. L’esito del referendum sulle riforme costituzionali è stato l’inevitabile rifiuto, non solo di riforme pasticciate e confuse, forse pericolose, sicuramente peggiorative del funzionamento del sistema politico italiano, ma anche in larga misura dell’arroganza e della protervia dei loro proponenti e sostenitori.
Sì, la massaia e il pensionato ragioneranno anche, ma certo non esclusivamente, con la loro pancia (che brutta espressione populista, diciamo piuttosto con le loro emozioni e, talvolta, con le loro passioni).. Ascoltando quello che dicono i sostenitori dell’approvazione di un qualsiasi quesito e gli oppositori e come lo dicono, spesso in maniera manipolatoria,né la massaia né il pensionato dovranno vergognarsi. Continueranno, però, ad essere criticati poiché hanno votato senza sufficienti conoscenze, in definitiva inquinando un esito che avrebbe dovuto essere valutato (esclusivamente?) da color che sanno. Chi si colloca su questa strada, vale a dire, concedere e riservare il diritto di votare soltanto a coloro che ne saprebbero di più, sta entrando nel girone dei non-democratici. Non si facciano più referendum perché l’esito viene prodotto da elettori che non sanno.
Però, perché consentire a quegli elettori, che non sono in grado di valutare quesiti e conseguenze del referendum, di votare per le elezioni politiche scegliendo fra complicati, spesso oscuri e prolissi, programmi di partito? Anche in questo tipo di elezioni ci saranno milioni di elettori che scelgono sapendo poco o nulla di programmi, di costi e di vantaggi, delle conseguenze del loro voto. Saranno, spesso, in compagnia anche di molti candidati alle cariche di rappresentanza se non addirittura di governo. Qualcuno, sulla stessa linea di ragionamento, sosterrà che, per l’appunto, le cariche di governo debbono essere date esclusivamente a coloro che sanno, per semplicità, ai tecnocrati. Come se i tecnocrati avessero tutti le stesse opinioni, formulassero le stesse soluzioni, offrissero la stessa valutazione delle conseguenze delle loro scelte. Come se i tecnocrati potessero essere efficacemente eletti dai cittadini incompetenti e ignoranti i quali, ovviamente, non sono per definizione in grado di valutarne il tasso di “tecnocraticità” e neppure potrebbero controllarne l’operato, meno che mai attraverso un referendum.
L’errore profondamente e strutturalmente antidemocratico di considerare i cittadini al di sotto del livello di conoscenze necessarie per valutare i quesiti referendari sta nel pensare che ciascun cittadino viva solo e isolato. Che non interagisca con altri. Si formi, quando succede, un’opinione guardando la TV, smanettando sui social, occasionalmente leggendo un quotidiano. La comunicazione politica non è un flusso unidirezionale senza intermediari da una fonte ai singoli cittadini. Massaie e pensionati hanno spesso una famiglia, parenti e amici, interagiscono, più o meno frequentemente, con persone di cui si fidano. Chiedono le informazioni necessarie a esprimere il loro voto a chi ritengono ne sappia più di loro (talvolta, ma, per loro fortuna, non spesso, ai professori/oni) e ottengono quasi sempre quello che desiderano e ritengono sufficiente. La democrazia è un “luogo” dove lo storytelling deve fare i conti con la conversazione fra persone. È pur sempre possibile migliorare la qualità della conversazione; accrescere l’interesse dei cittadini; ampliare l’opinione pubblica informata. Sono compiti ai quali dovrebbe dedicarsi soprattutto la classe politica, più o meno “casta”. Sono compiti che una società civile innervata da associazioni vivaci e robuste può a sua volta, svolgere. Questa è sicuramente una delle componenti migliori dell’etica in politica.
Non è questo il luogo dove criticare le inadeguatezze della classe politica italiana, soprattutto di quella scelta con le nomine dall’alto consentite dalle leggi elettorali utilizzate dal 2006 ad oggi. Neppure dobbiamo insistere sulle fin troppo note peculiarità negative della società italiana: corporativa, familistica, dotata di limitatissimo senso civico, poco incline ad impegnarsi, spesso antiparlamentare e antipolitica. Che si possano risolvere tutti o alcuni di questi problemi restringendo, se non addirittura eliminando la possibilità di ricorrere al referendum è, in tutta evidenza, assurdo. Solo una “casta” indebolita e frastornata può intrattenere simili progetti. La riduzione della democrazia elettorale non garantisce mai migliore qualità della legislazione. Al contrario, può condurre ad un ulteriore distacco dei cittadini dalla politica.
Negando agli elettori la possibilità, poiché non ne saprebbero abbastanza, di bocciare leggi fatte dalle elites politiche e, troppo spesso volute e sostenute dalle elites economiche, si riconosce indirettamente che le elites politiche, votate da quegli stessi elettori ritenuti inadeguati e ignoranti, avrebbero grandi competenze e grandi qualità. È un paradosso dal quale si esce soltanto riconoscendo che la democrazia è anche governo del popolo che si manifesta con il referendum. Che in democrazia tutti possono sbagliare e tutti possono imparare correggendo i loro errori poiché, diversamente dagli autoritarismi di tutti i tipi, di tutti i luoghi, di tutti i tempi, le democrazie hanno la capacità di migliorarsi anche ascoltando la voce del popolo (sovrano), interloquendo con quel popolo, non blandendolo, ma confrontandovisi. Insomma, facendo della buona politica che non è riduzione del potere del popolo, ma vigorosa e rigorosa pedagogia.