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Quasi sindaco: Quel che debbo ricordare, per voi e per me #Politica #Società #Bologna

Di tanto in tanto, ultimamente abbastanza di frequente, qualcuno su twitter ricorda che mi sono candidato a sindaco di Bologna nel 2009 e ho raccolto circa 4 mila voti (4.448 per la precisione), meno del 2 per cento. La mia versione dei fatti, non contraddetta da nessuno, si trova nel volumetto Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010, Diabasis 2010. Qui di seguito colloco alcune riflessioni successive che mi pare abbiano un certo interesse, non solo personale. Qualunque sia invece l’interesse dei twittatori a corto di competenze e argomenti che brandendo quella sconfitta elettorale credono di disinnescare i miei tweet, il loro risultato si ferma allo 0% virgola niente.

Quasi sindaco: Quel che debbo ricordare, per voi e per me

Ricordo di avere trascorso il mese di agosto 2010 a scrivere dolorosamente il resoconto della campagna elettorale del 2009 della lista “Cittadini per Bologna” da me guidata. Avevo il dovere politico e morale di lasciare una traccia scritta di quello che avevamo fatto, perché, come, con quali conseguenze. Quel libro, poi divenuto libro e pubblicato con il titolo Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010, fu respinto da Feltrinelli e da Donzelli, ma anche da Pendragon, editrice bolognese di politica, prima di essere gentilmente accettato dal Direttore Editoriale di Diabasis, Alessandro Scansani, scomparso poco dopo la pubblicazione al quale sono enormemente grato. Non ho nulla da cambiare di quel resoconto. A dieci anni di distanza, trovo che è opportuno, per me e per coloro che vogliono saperne di più e non si limitano a contare i non molti voti che la nostra lista ottenne, fare un bilancio articolato. Ci furono conseguenze quasi immediate e conseguenze più lente, tutte interessanti, molto istruttive, per coloro che sono disposti e sanno imparare.

A due mesi dalle elezioni, il Direttore di “Repubblica-Bologna” non si era ancora fatto vivo. Ne ero stato collaboratore abbastanza assiduo per circa vent’anni. Naturalmente, avevo smesso di scrivervi non appena divenni candidato, nel gennaio 2009. Era sottinteso, anzi, concordato, che alla fine dell’avventura avrei ripreso a scrivere e che i tempi li avrebbe dettati il Direttore Aldo Balzanelli. La situazione, però, si era fatta più difficile, in un certo senso anche imbarazzante. Infatti, Balzanelli, in special modo, ma anche i suoi cronisti, la maggior parte dei quali conoscevo personalmente, avevano scelto una linea non proprio equilibrata, non dico equidistante, fra me e il candidato del PD. Il loro sostegno al candidato del Partito Democratico era evidente ed esplicito, fondamentalmente acritico. Nei miei confronti, la linea fu indifferenza oppure racconti sottilmente denigratori, persino a fronte di mie smentite ufficiali, due soltanto poiché non potevo sprecare il mio tempo prezioso, una delle quali clamorosa. Non proposi mai di scambiare il mio sostegno al candidato del PD con cariche (oggi diremmo “poltrone”), meno che mai per me personalmente. Balzanelli si rifiutò di accettare la mia smentita.

All’inizio dell’agosto, in occasione della commemorazione della strage di Bologna, 2 agosto, attesi invano la richiesta da parte di Balzanelli di un articolo, quanti ne avevo già scritti in materia per Repubblica! Ero anche stato il presentatore al Senato nella seconda metà degli anni ottanta, unitamente al repubblicano Libero Gualtieri, di un disegno di legge per l’abolizione del segreto di Stato. Il Corriere di Bologna mi aveva variamente fatto sapere che avrebbe gradito la mia collaborazione. Parlai con il direttore Armando Nanni per farmi ospitare una riflessione sulla strage. Pubblicato proprio il 2 agosto con il titolo Il dovere del rito e le lezioni per la memoria fu l’inizio di una lunga serie di articoli. La mia collaborazione cessò “a mia insaputa” subito dopo un articolo nel quale avevo stigmatizzato la decisione del PD di candidare il democristiano Pierferdinando Casini nel Collegio senatoriale di Bologna centro (lo metto qui in appendice) Ne seguì un lungo totale silenzio del direttore Ernesto Franco che in questo modo pose fine senza nessuna comunicazione ufficiale alla mia collaborazione. Me lo confermò in una brevissima telefonata quando a metà marzo 2018 se ne tornò a dirigere il Corriere del Trentino. Quanto a Balzanelli, replicò immediatamente, credo addirittura già nel pomeriggio del 2 agosto, al mio articolo, non con una telefonata, ma con una inopinata, “graziosa” e succinta mail: “Vedo che hai iniziato a scrivere sul Corrierino…” Non molto tempo, nei primi mesi del 2010, Balzanelli venne chiamato/mandato a Roma. Il suo successore, Giovanni Egidio, non mi ha cercato mai. I suoi cronisti mi hanno fatto nel decennio trascorso una sola intervista, non pubblicata perché fuori della linea del giornale (del partito?).

All’inizio di agosto 2009, i vigili mi recapitarono sette-otto contravvenzioni di importo vario dai mille ai 5 mila Euro ciascuna per affissione di manifesti elettorali della lista Cittadini per Bologna fuori dagli spazi appositi. Nessuna fotografia nessuna posssibilità di contestazione, ma le multe dovevano essere convalidate dal Prefetto di Bologna, Angelo Tranfaglia, al quale portai tutta la documentazione convinto che nessuno dei miei collaboratori avesse violato i regolamenti elettorali. Com’era nei suoi poteri, il Prefetto non diede seguito a quella che, qui mi assumo tutta la responsabilità di quello che scrivo, era una palese rappresaglia: “a Pasquino gliela facciamo pagare”. Letteralmente. Per questa piccola cronaca può essere utile aggiungere che il capo della campagna elettorale di Delbono tal Claudio Merighi (che, poi, fu inviato a “lavorare” alla Coop) era proprio un vigile.

Troppi hanno dimenticato che subito dopo l’estate 2009 le voci sulla gestione disinvolta dei rimborsi spese per viaggi e conferenze, da Ischia a Cancún, Messico, con tanto di foto, a opera dell’Assessore al Bilancio e vice-Presidente della Regione Emilia-Romagna Flavio Delbono si fecero più frequenti, più intense, più dettagliate. Non entro nei particolari, ma il Delbono promise e versò soldi alla sua compagna occasionale, dipendente della Regione, per “comprarne” il silenzio. La situazione divenne talmente imbarazzante per il Partito Democratico di Bologna che sotto quelle pressioni il sindaco Delbono si sentì costretto a dimettersi, il 24 gennaio 2010. Le sue dimissioni furono salutate da alcune dichiarazioni che parlano da sole. Il segretario della federazione del PD di Bologna, Andrea De Maria, affermò che le dimissioni erano “un atto di serietà e responsabilità”. Ancora più enfatiche le parole di colui che “Repubblica” (25 gennaio 2010) presentava come, e in effetti era stato, il grande sponsor di Delbono: “Il suo è un gesto di grande sensibilità nei confronti di Bologna. …. [le sue dimissioni] dimostrano un senso di responsabilità verso la comunità che va al di là dei propri obblighi e delle proprie convenienze. Delbono ha confermato, a differenza di altri [riferimento per me non comprensibile, GP], di saper mettere al primo posto il bene comune e non le sue ragioni personali”. In seguito, i magistrati ritennero che Delbono non aveva tenuto in grande conto “il bene comune” utilizzando fondi della Regione proprio per “sue ragioni [spese] personali”. Prodi si adoperò ancora a favore di Delbono facendo pressione sul Direttore del Bologna Center affinché fosse richiamato ad insegnare. L’Academic Council non prese in considerazione questa richiesta. In seguito anche Stefano Zamagni, docente e vicedirettore del Bologna Center, ma anche co-autore con Delbono di un testo di economia che Il Mulino dovette “purgare” di molte pagine che configuravano un plagio, tentò di fare riassumere Delbono. L’Academic Council respinse nuovamente la proposta.

Nel frattempo, Bologna fu inevitabilmente commissariata, un fenomeno impensabile che ha macchiato la storia di una città considerata un modello di buongoverno e progressista. Dal 17 febbraio 2010 al 24 maggio 2011 il prefetto Annamaria Cancellieri fu il commissario governativo in carico degli affari correnti e di preparare nuove elezioni. Cancellieri, spesso definita “papessa”, acquisì notevole popolarità, probabilmente anche effetto di una ripulsa della politica e dei politici del PD, tanto che molte voci della “società civile” si levarono per una sua candidatura a sindaco che le consentisse di proseguire il lavoro iniziato. Alcuni nel PD chiesero, però, che si sottoponesse alle primarie. Fra i nomi che circolarono riscuotendo approvazione c’era quello di Maurizio Cevenini, a lungo consigliere comunale, presenzialista vero poiché partecipava in effetti a una pluralità di cerimonie non solo politiche, ma sociali e culturali della città, soprattutto notissimo per celebrare un numero molto elevato di matrimoni (già nell’ottobre 2009 superò la cifra di 4 mila) con grazia e gentilezza nella Sala Rossa del Comune. Per sbarazzarsi della sua ingombrante presenza a Palazzo Accursio, la sede del sindaco, il PD decise in conformità a una astrusa regola sul numero dei mandati, di imporgli di candidarsi al Consiglio Regionale. Fu eletto con il record di preferenze: più di 19 mila.

La sua candidatura alle primarie con le quali il PD si sentiva costretto a cercare il candidato sindaco era un fatto naturale. Cevenini iniziava quella che si suole chiamare la corsa in sicuro vantaggio: notissimo, apprezzato, impeccabile. La prima incrinatura si ebbe quando le telecamere in occasione della sfilata del 2 agosto per la strage alla stazione di Bologna inquadrarono uno scambio fra il segretario nazionale del PD, Pierluigi Bersani, e il segretario di Bologna Raffaele Donini nel quale entrambi facevano commenti molto poco lusinghieri (sì’, questo mio aggettivo è un gigantesco eufemismo) sulle qualità politiche di Cevenini, commenti subito riportati dalla stampa locale. Il 25 ottobre 2010 Cevenini ebbe un malore, fu ricoverato in clinica, annunciò il suo ritiro dalle primarie spianando la strada alla vittoria di Virginio Merola nel maggio 2011 alla quale contribuirono anche le 13 mila preferenze ottenute da Cevenini stesso, (ri)candidato al Consiglio comunale. Un anno dopo, l’8 maggio 2012, Cevenini si suicidò buttandosi dal settimo piano della torre della Regione Emilia-Romagna. Conservo con cura e commozione una copia da lui regalatami della sua autobiografia politica, scritta con la figlia Federica: Bologna nel cuore. Il Cev raccontato a mia figlia, Bologna, Pendragon, data di pubblicazione 10 gennaio 2011. La dedica di suo pugno legge: “Da quasi sindaco a quasi sindaco. Non sanno che cosa si sono persi”. Non lo sapranno mai, ma non hanno neppure mai mostrato un minimo interesse a sapere qualcosa.

Post-scriptum. Nelle elezioni politiche nazionali del febbraio 2013 Andrea De Maria fu candidato alla Camera dei deputati unitamente a Sandra Zampa, l’assistente di Romano Prodi. Entrambi in posizioni nelle liste bloccate che ne garantivano l’elezione. Dichiarai che la presenza di queste due candidature rendeva impossibile il mio voto al PD alla Camera dei deputati.

Il 19 giugno 2016 Merola è stato rieletto sindaco sconfiggendo al ballottaggio 54,64 contro 45,36% la candidata della Lega Lucia Borgonzoni (divenuta sottosegretaria alla Cultura nel governo Conte).

Nel marzo 2018 De Maria è stato rieletto alla Camera dei Deputati e rimane l’uomo forte del PD di Bologna.

Questo vi dovevo, care elettrici e elettori della Lista “Cittadini per Bologna”. No, purtroppo, no, proprio non siamo riusciti a cambiare la politica (e le persone) del partito che ha dominato la città. Certamente, abbiamo salvato la nostra anima.

 

Appendice

Sacrifici da meritare

Vorrei offrire ai dirigenti locali del Partito Democratico qualche argomento da contrapporre alla segreteria nazionale per evitare troppi sacrifici in termini di candidature al Parlamento nazionale. Primo, fare valere il criterio di una sana rotazione dopo i famosi/famigerati due mandati, non in maniera automatica, ma esprimendo anche una valutazione sull’operato del/la parlamentare uscente-entrante. Secondo criterio, inteso a dare buona rappresentanza politica agli elettori, ricandidare chi viene ripresentato nello stesso collegio della precedente elezione. Lì potrà spiegare ai suoi elettori le molte cose successe nella delicata, soprattutto per il PD, legislatura che si è conclusa, chiarendo, mio mantra, che cosa ha fatto, non fatto, fatto male e perché. Sarebbe un’ammirevole e utilissima operazione pedagogica che restituisce dignità alla politica. Terzo, scegliere le nuove candidature, anche valutando quelle che da Roma vorrebbero paracadutare, in base a due elementi essenziali: la storia politica, sociale, professionale e la sua rappresentatività delle idee del PD, della sua storia, del suo progetto. Naturalmente, da parte del paracadutato/a dovrebbe anche esserci una disponibilità a garantire la sua presenza sul “territorio”, non solo a fare passerella, ma a interloquire con gli elettori tutti, con le associazioni, persino con le banche. A questo punto, a PierFerdinando Casini (eletto alla Camera per la prima volta nel 1983) fischieranno le orecchie, ma so che personalmente se ne infischia. Tuttavia, da un lato, mi pare difficile inserire Casini nella storia del PD; dall’altro, mentre serpeggia l’inquietudine nella “base”, fra malumori e maldipancia, è giusto chiedersi se la candidatura di Casini, quanti voti porterà?, non segnali la direzione di marcia del PD, verso il centro-destra. Infine, per chi ritiene che la buona rappresentanza parlamentare è la premessa di qualsiasi governabilità decente, le candidature vanno scelte in base alla loro qualità, non perché sono “in quota di” qualcuno, né di Prodi né di Franceschini, ad esempio, ma perché rappresentano le idee del Partito Democratico. Si tratta di elezioni nazionali che, dunque, non dovrebbero in nessun modo avere riflessi sulla composizione della giunta di Bologna. Qualsiasi rimpasto andrebbe fatto con riferimento alle esigenze di garantire un miglior funzionamento del governo locale, non a ricompensare qualcuno perché non ha “ottenuto” candidature al Parlamento né a produrre un qualche riallineamento fra chi ha vinto e chi ha perso nel Partito Democratico. Che brutta storia.
Corriere di Bologna, 11 gennaio 2018

 

 

La strage di Bologna ferita aperta #2agosto

La ferita della strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, ottantacinque morti e più di duecento persone ospedalizzate, è rimasta profonda. A rimarginarla del tutto non sono stati sufficienti neppure i non pochi successi ottenuti nel corso del tempo dalla Associazione dei familiari delle vittime: la sostanziale abolizione del segreto di Stato sui fatti di terrorismo e strage e gli indennizzi a coloro che sono stati coinvolti nella strage. Neppure la verità giudiziaria sugli esecutori materiali della strage, Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, i quali, scontata la pena detentiva, sono già tornati in libertà senza nessun segno di resipiscenza. Al contrario, molta protervia. In regime di semi libertà si trova anche il terzo attivista neo-fascista Luigi Ciavardini. Vi sono state anche condanne di ufficiali dei Servizi segreti per attività di depistaggio.

La strage, anche sulla lapide commemorativa che si trova alla stazione è definita “fascista”. Difficile negare che le stragi, mai, ovviamente, seguite da rivendicazioni, siano state il tipo di azione preferito, non soltanto in quegli anni, dai fascisti, vecchi e nuovi. Chi sostiene una diversa versione dei fatti ha, nel tempo, variamente evocato i palestinesi e il terrorista, venezuelano di nascita, noto con il nome Carlos. La mancanza di qualsiasi elemento concreto a sostegno delle versioni alternative, pure vagliate dalla magistratura, non ha potuto in alcun modo giustificare la revisione di un processo che nessuno ha potuto accusare di essere stato fatto con pregiudizi e concluso frettolosamente.

Finora, la cosiddetta verità giudiziaria appare inattaccabile. Sarebbe possibile saperne di più, vale a dire, ricomporre l’intero quadro se si scoprissero i mandanti, che è la richiesta di molti e, comprensibilmente, anche quella dell’Associazione dei familiari delle vittime. Non è, infatti, credibile che due/tre terroristi neo-fascisti, pure già autori di crimini e di assassini, abbiano deciso da soli un’azione di tale portata e, soprattutto, siano stati coperti e aiutati con interventi di depistaggio senza una copertura e anche una indicazione proveniente da più alto loco. Quelli erano anche gli anni della P2 e di Licio Gelli, del suo Piano di Rinascita per una torsione autoritaria del sistema politico italiano, di intrecci fra personale politico, dei servizi segreti, nell’economia, nell’editoria (l’attacco al Corriere della Sera) e frange del neo-fascismo armato.

Nessuna rivelazione è da attendersi da Fioravanti e Mambro. I depistatori individuati sono oramai usciti di scena. Le probabilità che a distanza di 36 anni facciano la loro comparsa documenti nuovi sono minime. Neppure una ri-lettura organica della storia di quegli anni, dei documenti e delle sentenze , pure utile e forse doverosa, appare sufficientemente promettente. Non riusciremo a onorare la memoria delle vittime con la scoperta e la punizione dei mandanti. Una ragione in più per ricordare tutte quelle vite spezzate che servitori infedeli dello Stato decisero di non proteggere, anzi, di sacrificare per loro scopi politici consentendo, e poi tentando di coprire, l’azione dei neo-fascisti. Nei brutti tempi di terrorismo d’altro stampo, è decisivo sapere di contare su apparati, non deviati, ma all’altezza delle sfide.

Pubblicato AGL il 2 agosto 2016

Giustizia e verità

Corriere di Bologna

C’è qualcosa di sbagliato e molto di diseducativo nell’affermazione che, a trentacinque anni dalla strage della stazione, ancora si cercano verità e giustizia. Filosoficamente si potrebbe rispondere che non è mai dato agli umani di conoscere la verità e di praticare la giustizia. Più mondanamente, la risposta è che esiste una verità giudiziaria molto faticosamente conseguita attraverso numerosi processi e consegnata a migliaia di pagine. Per quanto periodicamente messa in discussione da qualcuno alla ricerca di pubblicità o desideroso di discolpare i neo-fascisti condannati in via definitiva (e già liberi) e di buttare la colpa su disparati elementi di sinistra, fino a convincenti prove contrarie quella verità tiene. Dunque, è del tutto ingeneroso non riconoscere ai magistrati di avere in condizioni difficilissime prodotto una verità giudiziaria. Conosciamo gli esecutori materiali della strage e non ci stupiamo se, data l’efferatezza del crimine, quegli esecutori accettino di dichiararsi responsabili di numerosi assassini, ma rifiutino la responsabilità della strage a Bologna. Sarà anche utile avere una legge che punisca il reato di depistaggi, ma le sentenze sulla strage di Bologna hanno già emesso condanne per numerosi depistatori dal capo della P2 Lucio Gelli a diversi agenti dei servizi segreti e ad altri esponenti dell’estrema destra. Anche in questo caso, esiste, pertanto, una verità giudiziaria. Chiunque abbia effettuato la strage (se non si crede che siano stati Mambro, Fioravanti e Ciavardini) è stato “coperto” da personaggi del mondo della destra eversiva di quegli anni. Certamente, rimane aperto il problema dei mandanti. E’ giusto chiedere chi siano. E’ anche lecito pensare che ci fossero effettivamente dei mandanti. E’, infine, opportuno continuare a cercare. Ma è troppo azzardato pensare che l’idea di mettere una bomba nella stazione della città simbolo del buongoverno della sinistra sia nata nell’ambiente della estrema destra, che aveva già provato a colpire la città con le bombe sui treni e continuerà a farlo anche dopo, senza che sia esistito un vero e proprio mandante? Non un uomo, il famigerato Grande Vecchio, non alcuni personaggi che reclutano giovani esaltati e ideologicamente motivati, ma l’ambiente della destra, dei servizi, della P2 che, in qualche modo, motivano e legittimano un’azione di tale gravità, è il mandante. Tutte le ricerche fatte sui terrorismi, anche a Bologna, pongono l’accento sull’importanza degli ambienti –famiglie, scuole, luoghi di lavoro, associazioni politiche– nel condurre verso pratiche di lotta armata. E’ diseducativo, soprattutto per i troppi giovani che della strage di Bologna (e di quella alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, 1969 e di Piazza della Loggia a Brescia, 1974) non hanno nessuna conoscenza, sostenere che non sappiamo nulla. Il messaggio corretto è che molto è stato fatto, molto è noto, molto merita di essere studiato, insegnato e imparato. Sia la verità sia la giustizia sono difficili da conseguire, ma non partiamo affatto da zero.

Pubblicato il 4 agosto 2015

Bologna 2 agosto 1980. Il dovere di ricordare

Bologna 2 agosto 1980-2 agosto 2015: trentacinque anni. Commemorare quella che è stata una strage di impianto sicuramente fascista è un dovere civico. Purtroppo, la trasmissione di quella memoria nelle cronache, nelle scuole, nelle celebrazioni è stata complessivamente molto mediocre, forse pessima, sicuramente inadeguata. Molti ricordano vagamente che alla stazione di Bologna, quel sabato mattina alle ore 10.25, esplose una bomba di terrificante violenza. Rimasero uccise 85 persone delle più diverse età e provenienze; ferite altre 200. Oggi i più non sanno chi ne furono gli autori e meno che mai in quale clima e con quali motivazioni.

La città di Bologna che, in quanto simbolo del buongoverno delle sinistre, era il vero obiettivo degli stragisti, si mobilitò prontamente fornendo prova del suo apprezzato senso civico. Da allora, anno dopo anno, l’evento è stato ricordato con una cerimonia sul piazzale della stazione. Troppo spesso, però, il silenzio dovuto ai morti, è turbato da salve di fischi organizzati, a prescindere, diretti contro le autorità, il governo e tutti i suoi rappresentanti. Purtroppo, le inadeguatezze, i ritardi, le inadempienze dei molti governi che si sono susseguiti sono state tante, in particolare rispetto alla sacrosanta richiesta di abolizione del segreto di Stato sui fatti di terrorismo e strage. Abolito quasi completamente soltanto da pochi anni, quel segreto ha coperto non tanto gli esecutori materiali, ma i molti depistatori e, certamente, i mandanti.

Attraverso una lunga e difficile sequela di processi, l’autorità giudiziaria ha condannato quali esecutori materiali prima due, allora giovani, neo-fascisti appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), poi un terzo e per depistaggio diversi agenti dei servizi segreti, il capo della P2 Licio Gelli e persino l’estremista nero Massimo Carminati, ora più noto per gli affari di Mafia Capitale. Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini hanno scontato pene di diversa entità e sono da qualche anno liberi. Nel frattempo, un depistatore è deceduto, ma i tuttora viventi continuano a negare qualsiasi coinvolgimento rendendo praticamente impossibile scoprire i mandanti e la trama complessiva. Quella che dobbiamo definire come “verità giudiziaria” mi è sempre parsa inoppugnabile, vale a dire non confutabile in base agli elementi finora noti. Tutto il resto, ad eccezione delle legittime speranze dei parenti delle vittime di saperne di più, è polverone sollevato da qualcuno in cerca di pubblicità e dagli inestinguibili complottisti. E’ probabile che non si riuscirà mai a conoscere tutta la verità storica (e politica). Tuttavia, non bisogna mai rinunciare al compito morale, civile e politico che consiste non soltanto nel ricordare, ma nel contestualizzare un fenomeno di enorme rilevanza nella storia italiana post-1945 e nello spiegarlo.

Preso atto che i partiti, le associazioni e le istituzioni italiane si sono dimostrate capaci di sconfiggere i terrorismi di destra e di sinistra, non è possibile sottacere che il ricordo, la riflessione, la riconsiderazione di quel tragico periodo non sono affatto soddisfacenti. Nessuno sforzo significativo e non episodico è stato effettuato per trasmettere, a partire dalle (buone) scuole, una memoria fondata su conoscenze e su fatti e informata da una pluralità di fonti, comprese, naturalmente, quelle giudiziarie. Nelle generazioni più giovani, persino in una città universitaria, prevalgono la dimenticanza e l’indifferenza. La strage alla stazione di Bologna si staglia come un triste monumento a coloro che hanno tentato di cambiare la politica italiana con la violenza mirando a distruggerne la democrazia. Però, è anche un severo monito, sempre più difficile da diffondere, affinché le vittime siano commemorate con conoscenza di causa e siano trasmessi la memoria e i valori civili e politici sui quali si fonda la convivenza in uno Stato capace di garantire la sicurezza dei suoi cittadini e di creare e mantenere le condizioni di una società giusta.

Pubblicato AGL il 2 agosto 2015

Il vuoto di memoria

Corriere di Bologna
L’ignoranza di massa sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna m’inquieta, ma non mi sorprende. Al contrario, sarei sorpresissimo se, come Fernando Pellerano ha scritto sul Corriere di ieri (29 luglio), esistesse una maggioranza anche risicata in grado di rispondere correttamente alle “classiche cinque domande”: dove, quando, come, chi, perché? Troppo spesso qualcuno si diletta in dibattiti di alto livello concernenti l’assenza di una memoria condivisa della storia del paese, dei suoi principali, talvolta drammatici, avvenimenti. Però, il problema non è la “condivisione” della memoria. E’ possibile vivere insieme senza condividere le memorie degli altri purché le si rispetti. Più ambiziosamente, purché si desideri e si sappia confrontare civilmente le proprie memorie. Il problema è, invece, che non abbiamo praticamente nessuna memoria seria e approfondita della storia di questo paese (e di questa città).

Molti hanno ricordi vaghi, confusi, parziali che non fanno né conoscenza né memoria. Troppo facile sostenere che la colpa è dei programmi scolastici che si fermano alla Seconda Guerra mondiale, quasi mai sconfinando nelle pericolose pagine della Resistenza, magari evidenziando anche gli aspetti di guerra civile che indubbiamente ebbe. Dunque, si diano una mossa i Ministri dell’Istruzione che si susseguono vorticosamente: tre negli ultimi tre anni. Oppure siano i presidi a suggerire, invitare, chiedere ai loro docenti di storia e filosofia (ah, s’insegnasse anche la Costituzione come parte integrante della storia d’Italia, “come, quando, chi”) di colmare la vergognosa lacuna. So per certo che molti docenti ci provano e so altrettanto per certo che, come nel caso di coloro che “insegnano” la Resistenza, molti si sono trovati sotto attacco dai genitori dei loro alunni. Poiché il coraggio, neppure quello civile, non se lo può dare chi non ce l’ha, in assenza di un contesto che li sostenga, anche gli insegnanti più motivati hanno fatto un passo indietro. All’assenza di memoria non possono neppure supplire le famiglie, meno che mai quelle che obiettano all’insegnamento della storia contemporanea in base ai loro confusi ricordi, alle loro preferenze politiche, alle loro idiosincrasie. Resterebbero gli operatori dei media e i politici.

Le persone della mia età ricordano (probabilmente in maniera condivisa) quanto significativa, rilevante, istruttiva, mi avventurerei persino a scrivere “bella”, fu la serie di trasmissioni televisive “La notte della Repubblica”, curate da Sergio Zavoli. Oserei proporne un aggiornamento. Credo che sarebbe cosa buona ritrasmetterle, magari aggiungendovi il materiale emerso negli ultimi vent’anni. Il resto spetta alla città di Bologna, alle sue autorità, alle sue scuole e all’Università (che dovrebbe utilizzare al meglio le sue competenze), persino alla Cineteca che è in grado di svolgere un’effettiva attività didattica. Non ho nessuna illusione. Un paese di balocchi, di fumetti, di fiction non riuscirà a darsi nessuna memoria, se davvero non cambia verso. Questa è un’opera da grandi politici e da grandi intellettuali. Nel suo piccolo, una città come Bologna, se dedica le sue energie meno a rievocazioni che ottengono pubblicità a misura di fischi e più all’insegnamento diffuso, riuscirebbe a fare parecchio.

Pubblicato sul Corriere di Bologna il 30 luglio 2014