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Se il successo a tutti i costi esautora la politica @DomaniGiornale

Quando, negli anni ottanta, addirittura prima di Tangentopoli, qualcuno, specialmente se milanese, si riferiva a “Milano da bere” lo faceva con sottile compiacimento, persino orgoglio. Era un modo distintivo di indicare una città dinamica, vivace, attraente. Nei non milanesi, quella Milano da bere era raramente qualcosa da criticare. Piuttosto, prevaleva la curiosità per fenomeni che nelle altre città non si producevano, ritenuti improbabili, da invidiare. Tangentopoli, letta nella sua interezza e nelle molte essenziali intercettazioni delle comunicazioni fra i protagonisti, si situò nel solco della Milano da bere, ma fu, come dovremmo tutti ricordare, anche molto di più. Giravano, girarono molti soldi che servivano anche a finanziare i politici, favorire alcuni imprenditori, velocizzare le decisioni. Non ebbi il piacere di leggere analisi di quell’importante indagine che la collegasse, come mi pareva opportuno, allo sviluppo della città, a dinamiche, non solo politiche, ma anche sociali e culturali. Da capitale morale, quella dell’immediato dopoguerra fino almeno agli anni sessanta, fase per me positivamente segnata dalla grande presenza e attività civile del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, a capitale immorale con la politica che cedeva il passo alla società (no, “civile” non lo scrivo).
A partire dal 1993 nessuno dei sindaci di Milano, e neppure dei loro sfidanti competitors, ha potuto “vantare” una precedente esperienza politica di un qualche rilievo. Anzi, il biglietto d’ingresso preferito era quello della provenienza da attività non politiche, più spesso manageriali. La città che traina lo sviluppo dell’Italia, almeno questa sembrava essere la tesi, deve essere guidata, amministrata, fatta funzionare al suo più alto livello da chi ha le competenze tecniche, forse tecnocratiche, sostanzialmente non acquisibili dai politici e non a loro disposizione.
Lo sviluppo produce ricchezza e, naturalmente, anche diseguaglianze. Produce aspettative crescenti di altro sviluppo e attrae gli ambiziosi che vedono prospettive di arricchimento rapido e cospicuo. In una società opulenta, ricorro all’aggettivo desueto formulato in maniera critica all’inizio degli anni Sessanta da Kenneth Galbraith, economista kennediano di Harvard, la misura delle capacità delle persone consiste nel loro successo negli affari. Creare reti di relazioni e scambi, conoscere gli interlocutori appropriati ai vari livelli, dare a vita a comitati, spesso per l’appunto, d’affari. Più entrature più affari più prestigio.
I commentatori poi evidenzieranno e enfatizzeranno i successi: l’Expo più grande di sempre; il salone del Mobile più frequentato di sempre, e così via. Tutto riportato dalle fonti di comunicazioni locali con paragoni lusinghieri per la città nei confronti del resto dell’Italia. Qualche critica quasi rituale per l’aumento dei prezzi, ma i ristoranti sono eccellenze, per le difficoltà abitative degli studenti, ma le università sono tante e di alta qualità, e, insomma, lo sviluppo ha dei costi che spesso è in grado di assorbire. Bisogna andare avanti, “Milano non si ferma” (neppure in piena pandemia), e in fretta, accumulare, investire, arricchirsi, come misura del successo personale e professionale, ma anche garanzia di affidabilità per affari futuri. L’ostentazione della ricchezza acquisita, oltre ad essere di godimento individuale, vale anche come segnale di riconoscimento inviato a chi cerca partner affidabili per nuove avventure imprenditoriali.
Bando ai moralismi, scrivono alcuni cinici commentatori, le regole bizantine sono ostacoli da saltare alla faccia di una magistratura petulante, puntigliosa, permalosa. Prima della magistratura, in un sistema equilibrato, sarebbe stata la politica a filtrare, selezionare, sanzionare, quella politica che i maggiori esponenti della società (civile) a Milano hanno messo ai margini e fatta diventare residuale. La molto eventuale ricostruzione appare lunga, impervia, improbabile.
Pubblicato il 23 luglio 2025 su Domani
VIDEO Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana @UtetLibri
Perché l’Italia è tanto malmessa? Più di cinquant’anni fa la risposta Norberto Bobbio la offrì nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano. Per molto tempo mi sono posto l’ambizioso compito di analizzare le idee che hanno circolato in Italia dopo il libro di Bobbio. Le mie risposte sono ora in Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021). La libertà di cui gli italiani hanno comunque goduto non ha fatto, proprio come temeva Bobbio, migliorare le idee e i comportamenti collettivi. È risultata complessivamente inutile. Il mio libro cerca di spiegare perché.
Libertà inutile
Profilo ideologico dell’Italia repubblicana
Quando scelse la repubblica, il popolo italiano, appena uscito dalle rovine di una dittatura e di una guerra mondiale, affidò all’Assemblea costituente l’impegnativo compito, condiviso da tutti (o quasi), di costruire un paese migliore. Ma la repubblica che ne è uscita è stata all’altezza di quelle speranze?
Se lo chiedeva già Norberto Bobbio nel suo fondamentale Profilo ideologico del Novecento italiano, fermandosi però sulle soglie del 1968, e se lo chiede oggi Gianfranco Pasquino, raccogliendo l’eredità del grande filosofo torinese e provando a impostare nuovamente una riflessione che riesca a cogliere l’accidentato percorso della nostra mutevole e inquieta storia repubblicana.
A partire dalle fondamenta costituzionali, Pasquino sismografa gli smottamenti culturali, gli umori e i contrasti che, di decennio in decennio, hanno attraversato la nazione e coinvolto i suoi protagonisti. Così ci immergiamo nelle contraddizioni delle tre grandi culture politiche del Novecento: il liberalismo, fondamentale durante la Resistenza e sminuito nella ricostruzione del dopoguerra; il comunismo, lacerato all’interno dal dibattito fra i desideri di riformismo parlamentare e le pulsioni semirivoluzionarie, negli anni caldi delle contestazioni di piazza; l’area democristiana, appesantita dal troppo potere politico, economico e sociale accumulato senza controlli, fino alla resa dei conti di Tangentopoli.
E poi ancora i mutamenti delle stagioni recenti: la personalizzazione della politica propiziata dal berlusconismo e l’affermarsi di nuove culture che strizzano l’occhio all’antipolitica e al populismo.
Il quadro che ne viene fuori è un’inedita biografia della nazione: un paese di passioni ideologiche ed enormi contraddizioni, in cui le fortune dei leader durano il tempo di una stagione. E allora, attraversando le riflessioni di Pareto, Calamandrei, Gramsci, Sartori, prende forma il dubbio di Pasquino: la democrazia italiana ha disatteso le promesse costituzionali? Quella conquistata con tanta fatica è stata forse una Libertà inutile?
Gianfranco Pasquino (Torino, 1942), allievo di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna. Associate Fellow alla SAIS-Europe di Bologna, è stato direttore, dal 1980 al 1984, della rivista “il Mulino” e, dal 2000 al 2003, condirettore della “Rivista italiana di Scienza politica”. Dal 2010 al 2013 presidente della Società italiana di Scienza politica, è autore di numerosi volumi, i più recenti dei quali sono Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (2015), Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (2019, tradotto in spagnolo nel 2020) e Italian Democracy. How It Works (2020). È particolarmente orgoglioso di avere condiretto insieme a Norberto Bobbio e Nicola Matteucci per Utet il celebre Dizionario di politica (2016, nuova edizione aggiornata). Per Utet ha inoltre pubblicato La Costituzione in trenta lezioni (2016), L’Europa in trenta lezioni (2017) e Minima politica (2020). Dal luglio 2005 è socio dell’Accademia dei Lincei.
