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Totalitarismo e autoritarismo: due situazioni e la loro mala fine @DomaniGiornale


Ingigantire e rendere più spaventoso l’oggetto della propria decennale, in sostanza unica, ricerca può servire a ingigantire l’importanza di quella ricerca e del relativo studioso? Facendo amplissimo sfoggio dell’aggettivo totalitario, spesso a sproposito, e del sostantivo totalitarismo, senza mai definire il concetto e spiegarne significato e implicazioni, Emilio Gentile ovviamente crede di sì. Imperterrito procede attraverso un bilancio troppo selettivo di cent’anni di totalitarismo ((Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023), fondamentalmente riferito al solo fascismo italiano. Parafrasando Giovanni Sartori, sostengo che “chi conosce un solo fascismo non conosce neppure quel fascismo” ossia senza un intelligente, deliberato ricorso alla comparazione non c’è modo di sapere quello che è normale e quello che è eccezionale. Sono, peraltro, pochi gli storici che praticano la comparazione e mettono a confronto natura, caratteristiche, evoluzione e trasformazione dei regimi politici. Senza nessuna ambizione di originalità, ma nell’intento di mettere a disposizione di chi legge quanto la scienza politica ha prodotto da tempo in materia, riporto qui di seguito le due più importanti definizioni di totalitarismo e autoritarismo.
Un regime totalitario si caratterizza per la presenza di tutti, o quasi, gli elementi che seguono, delineati da un grande Professore di Government a Harvard, Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1956):
- Una ideologia totalizzante
- Un partito unico
- Una polizia segreta notevolmente sviluppata
- il monopolio statale dei mezzi di comunicazione
- il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica
- la subordinazione delle forze armate al potere politico
Naturalmente, può succedere che nel corso del tempo qualche elemento venga meno e si ponga il problema della persistenza o no del totalitarismo. Tuttavia, in assenza di alcuni di questi elementi nessun regime può essere considerato totalitario.
Per definire un regime autoritario (tradizionale o classico, quelli nati in Europa e in America latina nello scorso secolo), ritengo tuttora utile ricorrere a quanto scritto nel 1964 dal grande sociologo e politologo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Mi pare più che opportuno citare la definizione per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei):
“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.
Né l’una né l’altra definizione sono prese in considerazione da Gentile il quale opera senza sentire nessuna necessità di esplorazione e approfondimento concettuale né di differenziazione. Soltanto nelle pagine conclusive del suo libro, Gentile riporta due definizioni di fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).
Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187-188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili, ma a mio parere, non convincenti e meno precisi di quanto scritto da Linz.
Raramente abbiamo modo di provare la validità di una definizione, l’appropriatezza di un concetto mettendoli alla prova dei fatti. Con totalitarismo e con autoritarismo è possibile tentare la prova guardando sia alla dinamica dei due tipi di regimi sia alla loro fine. La chiave interpretativa è l’esistenza/sopravvivenza di associazioni, gruppi. Nei regimi totalitari un solo attore domina le istituzioni e controlla tutti i gruppi decidendo della loro vita e della loro morte, dei loro spazi di autonomia e della loro operatività. Quando il regime totalitario crolla, non c’è nulla in grado di prendere il posto del partito unico e delle associazioni permesse e/o sponsorizzate. Il titolo del bel film di Roberto Rossellini, “Germania Anno Zero”, coglie in maniera molto più che suggestiva il deserto lasciato dal crollo del nazionalsocialismo. Nel vuoto socio-economico e politico aperto dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica e dalla scomparsa del Partito Comunista non poteva comparire nessuna “società civile”. Vi si sono trovati a scorrazzare gli oligarchi.
La situazione alla fine ingloriosa degli autoritarismi classici: Italia, Portogallo, Spagna, è risultata molto diversa da quella dei totalitarismi. Proprio perché il fascismo, come il salazarismo e il franchismo, non aveva avuto abbastanza forza per acquisire il controllo totale su alcune potenti strutture: la Chiesa cattolica, le Forze Armate, la burocrazia, nel caso italiano, la Monarchia, e persino gli industriali (in Portogallo le 400 famiglie organizzate che detenevano il potere economico), il crollo del regime aprì, grazie al pluralismo, la transizione alla democrazia. Però. Però questa modalità di transizione comportò in Italia più che altrove (ma è un fenomeno ancora largamente e dolorosamente da esplorare) la mancata epurazione, tranne relativamente poche eccezioni, dei dirigenti e della grandissima maggioranza dei sostenitori importanti del regime.
Certo, anche alcuni esponenti di non altissimo rilievo dei regimi totalitari rimangono o tornano a galla, ma il numero dei revenants di notevole prominenza nei regimi autoritari è incomparabilmente più elevato. Sono le stesse organizzazioni che hanno iniziato la transizione a non volere e non sapere defascistizzare. Nella nuova fase di competizione i numeri contano, le esperienze associative e lavorative servono, le competenze possono essere cruciali. Come si fa a imporre l’epurazione del compagno di stanza, del collega di lungo corso, dell’amico ai tempi del liceo, del coinquilino che, pur avendo sostenuto il fascismo, si sono macchiati di crimini minori, ma giurano d essersi pentiti e si dichiarano pronti alla nuova vita dando il loro apporto all’organizzazione? Nel deserto successivo al totalitarismo, l’espulsione è inevitabile. Nel post-autoritarismo vince l’amnesia, più o meno selettiva (Géraldine Schwartz, I senza memoria. Storia di una famiglia europea, Torino, Einaudi, 2019), con la quale bisogna continuamente fare i conti.
Pubblicato il 8 aprile 2023 su Domani
VIDEO Presentazione del libro a cura di Gianfranco Pasquino “Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane” @Treccani @RadioRadicale
“Presentazione del libro curato da Gianfranco Pasquino
Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane
Treccani
Con
Gianfranco Pasquino (emerito di Scienza Politica all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna)
Carlo Crosato (ricercatore di Filosofia all’Università degli Studi di Bergamo).
Intervista registrata giovedì 13 aprile 2023

Fascismo: totalitarismo fallito, autoritarismo realizzato #larecensione @C_dellaCultura

Che tipo di regime fu il fascismo?
Dovrebbe essere un quesito di ricerca stabilire se il fascismo sia stato oppure no un regime totalitario, un quesito degno di essere soddisfatto con una risposta di grande utilità anche per capire meglio il funzionamento del regime fascista, per spiegarne il crollo e il superamento, per valutarne le conseguenze (che, secondo non pochi studiosi pesano ancora e non poco sul sistema politico italiano, su una parte di elettorato e su alcuni esponenti politici). Invece, il libro di Emilio Gentile (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023) è quasi esclusivamente una difesa a spada tratta della sua tesi: il fascismo fu totalitario. Tutti coloro che lo negano sarebbero nel migliore dei casi un esempio “dell’ignoranza di dotti senza ‘dotta ignoranza’” (p. 18). Nel testo l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo sono presenti 139 volte, 88 volte nelle prime 27 pagine. Purtroppo, l’autore non si cura di offrire una definizione di totalitario/totalitarismo in nessuna pagina del suo libro. Peraltro, concede ai lettori alcune acide riflessioni sugli scritti di autori famosi, quali, soprattutto Hannah Arendt, non alla ricerca della definizione e neppure del fenomeno, ma per contrastarne il mancato inserimento del fascismo nell’analisi del totalitarismo. Le sue citazioni degli autori sono molto selettive, escludendo fin dall’inizio coloro che hanno collocato il fascismo italiano in buona compagnia con altri paesi nella categoria dei regimi autoritari. In maniera sicuramente schematica, credo sia lecito chiedere agli studiosi: “c’è stata più affinità fra il fascismo e il bolscevismo oppure fra il fascismo e il franchismo?”
Soltanto nelle pagine conclusive, Gentile cita per esteso le definizioni del fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, cito per esteso, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).
Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187.188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili. Semmai, il compito, certo esigente e delicato, di chiarire il concetto, avrebbe dovuto essere svolto a maggio ragione dall’autore di un libro che porta il titolo Totalitarismo 100.
Totalitarismo: le definizioni
Una buona analisi comincia dalla definizione del concetto. Da Giovanni Sartori ho imparato che sono possibili e, al tempo stesso, utili tre modalità definitorie. La prima si fonda sulla etimologia. Lì può anche arrestarsi e sicuramente non deve essere travolta. Totalitario significa tutto, omnicomprensivo. Può riguardare l’accentramento del potere, il controllo di una società, la natura di un regime. La seconda modalità definitoria dipende e discende da come quel concetto è stato concepito, percepito, utilizzato per l’appunto nel corso della storia. Nel caso del totalitarismo la sua storia è relativamente breve: cent’anni asserisce Gentile, correttamente. Infatti, la prima volta che l’aggettivo totalitario fa la sua comparsa nel lessico politico è in un articolo scritto dall’antifascista liberale Giovanni Amendola e pubblicato il 12 maggio 1923 sulle pagine del quotidiano “Il Mondo”. Amendola accusava Mussolini di volere costruire un sistema totalitario inteso dominio assoluto e spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa. Dunque, totalitarismo era un progetto o, nelle parole di Amendola, una promessa, non un sistema ovvero, meglio, un regime realizzato. Facendosi forte di queste parole di colui che diventò un martire del fascismo, Gentile accusa tutti coloro che rifiutano di accettare la definizione di totalitario per il regime fascista di gravemente offendere la memoria di Amendola e di altri antifascisti. Non gli riesce di capire la differenza fra la polemica politica, sacrosanta quella di Amendola, e l’analisi scientifica che, ovviamente, si costruisce e si fonda su altri, differenti criteri. Sceglie anche di dimenticare o ritenere irrilevanti le parole pubblicate il 7 ottobre 1924 dallo stesso Amendola: “il torbido e servile miraggio di un regime ‘totalitario’” era “svanito per sempre”, pure da lui citate (p. 155). La terza modalità definitoria nella visione di Sartori è quella stipulativa. Un certo numero di studiosi più o meno deliberatamente più o meno concertatamente stabiliscono che d’ora in poi un insieme di comportamenti, un fenomeno, un regime dovranno essere identificati con l’aggettivo totalitario. Qualora le loro motivazioni risultino solide, convincenti, in grado di cogliere meglio la specificità di quei comportamenti, fenomeni, regimi e la comunità scientifica ne prende atto accettando l’aggettivo e il sostantivo che sono stati proposti.
Nel caso del totalitarismo possiamo vedere due occorrenze. Da un lato, Mussolini si appropriò immediatamente, in maniera del tutto compiaciuta del termine come perfettamente adatto al regime che il fascismo voleva essere e costruire. Che vi sia riuscito o no è oggetto del contendere storico e politico, e non bastano le moltissime volte in cui Gentile usa, più o meno a sproposito, l’aggettivo totalitario riferendosi a “modo d’agire”, “metodo”, “spirito”, “programma”, “azione pratica”, “volontà”, “organizzazione del sistema di potere e di dominio” fino a “elezioni totalitarie (p, 120, a rendere convincente e insuperabile la affermazione che il fascismo fu totalitario, punto e basta. Dall’altro, il tentativo che l’autore definisce “negazionista” quello, cioè, di sbarazzarsi del tutto di totalitario/totalitarismo perché erroneamente ritenuti concetto/termine da/di Guerra Fredda, è fallito. Il sostantivo totalitarismo non nacque come arma per combattere la guerra fredda. Continua ad avere utilità analitica per descrivere e spiegare i due grandi casi storici dell’Unione Sovietica e del Nazionalsocialismo. Serve altresì a chi voglia comprendere struttura e fisiologia della Repubblica Popolare Cinese (1949), funzionamento e collasso della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), della Corea e del Nord e, molto probabilmente, anche del Vietnam.
A questo punto, per quanto controversa oppure proprio per questo motivo, è opportuno presentare per esteso quali sono le caratteristiche distintive del totalitarismo. Furono delineate da un grande Professore di Government a Harvard Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski e pubblicate nel 1956: Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press), poi riviste e sistematizzate dal solo Friedrich nel 1969: The evolving theory and practice of totalitarian regimes (in C. J. Friedrich, M. Curtis, e B. Barber, Totalitarianism in Perspectives: Three Views, New York, Praeger), tutti testi che sembrano ignoti a Gentile, da lui comunque ignorati.
Dunque, è probabile che in un regime totalitario siano presenti, tutti o quasi, gli elementi che seguono:
a) Una ideologia totalizzante
b) Un partito unico
c) Una polizia segreta notevolmente sviluppata
d) il monopolio statale dei mezzi di comunicazione
e) il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica
f) la subordinazione delle forze armate al potere politico
Di questi elementi un solo uno, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, è menzionata tre/ i quattro volte da Gentile. Certo, possiamo anche sottolineare che, in effetti, il Partito Nazionale Fascista fu un partito unico, ma dobbiamo subito dopo riconoscere che la presenza sul territorio di quel partito non fu mai effettivamente né capillare né pervasiva e che è difficile riconoscergli un ruolo esclusivo e “totale” di guida. Mussolini decideva senza necessariamente convocare gli organismi di partito e fare leva su di loro. Ripetutamente l’autore parla di Stato-Partito e di Partito-Stato senza chiarire le differenze intercorrenti. Essere iscritti al partito, meglio volenti che nolenti, era ovviamente importante per fare carriera, ad esempio nella burocrazia nazionale e nelle burocrazie locali, ma la burocrazia non fu mai totalmente fascistizzata e gli alti burocrati sempre mantennero spazi di indipendenza/indifferenza operativa. Il potere del leader ufficialmente ai limiti dell’assoluto riconosceva che la burocrazia non era completamente assoggettabile. Insomma dei sei elementi (dell’ideologia dirò dopo) che, secondo Friedrich, caratterizzano un regime totalitario, il fascismo ne presentò due/due e mezzo.
Autoritarismo, allora
A questo punto, sembrerebbe più promettente, forse doveroso cercare la risposta alla domanda “che tipo di regime fu il fascismo?” guardando agli elementi caratterizzanti i regimi autoritari. Non è soltanto una mia opinione personale che la miglior caratterizzazione di che cosa è un regime autoritario continui ad essere, a quasi sessant’anni dalla sua prima formulazione, quella pubblicata dal grande studioso spagnolo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Più che opportuno citarla per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei).
“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.
Ciascuno degli elementi individuati e poi nel corso dell’articolo analizzati da Linz trovano riscontro non soltanto, ovviamente, nel franchismo, ma anche nel fascismo italiano nonché nel salazarismo portoghese e in non poche esperienze latino-americane raramente assurte per durata e solidità a veri e propri regimi autoritari. Non è questa la sede per un confronto approfondito fra i diversi tipi di regimi autoritari, ma l’esercizio sarebbe più che utile, essenziale. Mi limiterò a ricordare quanto più volte affermato da Giovanni Sartori: “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”. La conoscenza, per quanto approfondita, di un unico regime autoritario non è garanzia di effettiva, assoluta, “totale” comprensione di tutte le caratteristiche di quel regime autoritario. Solo la comparazione consente di acquisire conoscenze approfondite, adeguate, sottoponibili a verifica, “falsificabili” (come voleva Karl Popper) e rimodulabili.
Non mi pare che nessuno studioso abbia mai attribuito il termine totalitario al regime franchista. Eppure, nella sua strutturazione la Spagna di Franco è stata il regime politico più simile all’Italia di Mussolini. Ma come potrebbe un sistema politico nel quale permane un “pluralismo politico [seppure] limitato” essere considerato totalitario? Per ineccepibile definizione, in un regime totalitario non può esistere/sussistere nessun pluralismo. Un partito (partito-Stato?) ha acquisito, mantiene, esercita il monopolio del potere politico. Dunque, invece di pluralismo si ha monolitismo. Quel monolitismo può essere minato e incrinato da tensioni e conflitti endogeni, internamente prodotti, che sono individuati e mirabilmente analizzati da Karl W. Deutsch (Cracks in the Monolith: Possibilities and Patterns of Disintegration in Totalitarian Systems 497-508, sotto forma di crepe in grado di fare crollare un edificio all’apparenza granitico (sic).
Ciò detto, sarebbe sbagliato pensare e sostenere che il fascismo non ebbe ambizioni e aspirazioni totalitarie. Al contrario, nella molto acuta e suggestiva distinzione fra fascismo-movimento e fascismo-regime, il grande storico Renzo De Felice coglie con ragguardevole perspicacia la distanza che è intercorsa fra il fascismo-movimento, che mirava a spazzare via tutto quello che si opponeva alla sua ascesa e al suo (eventuale) esercizio “totalitario” del potere, e il fascismo-regime. Ho sempre pensato che questa acuta distinzione possa essere mostrata molto efficacemente ricorrendo a due immagini: Mussolini in camicia nera, il movimentista; Mussolini in frac e lobbia, la sua leadership normalizzata nel regime.


Insediatosi al vertice, Mussolini prese atto della sua insufficienza “totalitaria” e della necessità di accettare la persistenza del potere culturale e sociale della Chiesa Cattolica (addirittura nelle forme ufficiali del Concordato, fin dal 1929, e dei Patti lateranensi; della impossibile fascistizzazione delle Forze Armate; della passività gommosa della burocrazia, prevalentemente al servizio delle preferenze dei suoi componenti; degli spazi di autonomia operativa rivendicati dagli industriali ascendenti e dai latifondisti decadenti; nonché, da ultimo, ma nient’affatto, come si sarebbe visto, minimo, della sopravvivenza della monarchia. In quale altro regime totalitario sarebbe concepibile la presenza di una Casa Reale: i Romanov nella Unione Sovietica? Con qualche forzatura analitica aggiungerei i Pahlavi nella teocrazia iraniana?
Crollo e transizione
Le storie del fascismo si fermano spesso al defenestramento di Mussolini ad opera del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e al dimissionamento dello sconfitto Duce deciso dal Re il cui potere, dunque, non era stato “total[itaria]mente” azzerato dal fascismo. Quando un regime totalitario crolla, Nazismo e Comunismi (DDR, URSS e altri) non c’è “transizione”. Non esistono istituzioni, associazioni, gruppi solidi e ampi in grado di ricevere, ereditare non è il verbo più appropriato, quel che rimane del potere politico. A chi lo consegnerà il Partito Comunista Cinese? A chi sarà costretto a cederlo Kim Jong-un, il Leader supremo della Corea del Nord? Roberto Rossellini, regista di raffinata cultura, intitolò “Germania Anno Zero”, il suo film sulla Germania post-nazista.

Giustamente. Sconfitto e travolto il nazismo, vero totalitarismo, non era rimasto nulla di organizzato. Si doveva ripartire da zero. Gli studiosi di politica che elaborarono il progetto dell’ampio progetto di ricerca comparato sulle possibilità di transizione dai regimi non-democratici, con un posto di rilievo per l’America latina (Guillermo O’Donnell, Philippe C. Schmitter, Lawrence Whitehead, Transitions from Authoritarian Rule. Prospect for Democracy, Baltimore-London, The Johns Hokins University Press, 1986), inclusero capitoli sull’Italia (The Demise of the First Fascist Regime and Italy’s Transition to Democracy: 1943-1948, pp. 45-70 affidato a chi scrive): sulla Spagna, sul Portogallo, sulla Grecia, sulla Turchia, non sui regimi totalitari nei quali c’è crollo, non varie forme di “successione” e modalità diverse di negoziazione fra protagonisti.
Certo, più che corretto è inevitabile definire transizione anche l’intervallo fra il crollo di un regime totalitario e l’instaurazione del regime successivo. Però, nessuna di quelle transizioni è nelle mani di istituzioni, associazioni e gruppi che i totalitarismi avevano bandito, schiacciato, sterminato. In Italia non era morta la monarchia (in Spagna viene addirittura fatta rivivere). In entrambi i sistemi politici la ricostruzione politico-istituzionale ebbe modo di fondarsi sulla Chiesa, la burocrazia, le Forze armate, gli industriali (in Spagna anche una ampia frazione del Movimento Falangista ebbe un significativo ruolo politico esercitato dal suo capo Adolfo Suarez che divenne Primo ministro). In un certo, molto rilevante, senso, la presenza di attori politici, sociali, economici organizzati nella transizione da un regime non-democratico ad altro regime (non è possibile ipotecarne gli esiti) costituisce la prova provata che quel regime non era totalitario. La dura lezione dei fatti contribuisce a insegnare in che modo e con quali criteri classificare, mirando alla maggior precisione possibile, i regimi non-democratici.
In altra sede, naturalmente, ci si potrebbe anche dedicare alle numerose varianti dei regimi e delle esperienze non democratiche. Fra i primi hanno un ruolo di notevole rilievo i regimi militari di longue durée: Egitto, Myanmar. L’Africa subsahariana offre molti esempi di autoritarismi, per lo più relativamente instabili. La teocrazia iraniana è senz’ombra di dubbio un regime autoritario. I sultanismi, definizione di Linz che si attaglia a esperienze autoritarie personalizzate, come quelle di Ghaddafi in Libia e di Saddam Hussein in Iraq, alle quali si possono aggiungere diversi casi nell’America centrale, non si trasformano in veri e propri regimi per la debolezza del tessuto associativo, ma anche per volontà del sultano che teme la sfida di qualsiasi attore politico e sociale organizzato e vieta qualsiasi attività associativa (ma etnie e confessioni religiose sono incancellabili). In tutti questi casi, le transizioni risultano incerte, difficili, protratte proprio a causa della inadeguatezza delle strutture esistenti tranne, talvolta, di quelle preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale sulle quali è improbabile costruire una democrazia.
Defascistizzare?
Concludo scrivendo poche parole su una tematica carsica: la mancata defascistizzazione/epurazione che mi pare inesorabilmente collegata alla natura dei regimi autoritari. In prima approssimazione ritengo che sia possibile affermare che, pure non essendo totalmente asservite al regime, la Chiesa, la burocrazia, le Forze Armate, l’Associazione Industriali avevano al loro interno, oltre a a molti iscritti con molteplici motivazioni e “intensità” al Partito Nazionale Fascista, numerosi, ancorché non maggioritari, estimatori del fascismo. Il fenomeno è simile in Spagna, anche se colà ci furono significativi cambi generazionali in particolare nel clero della potente Chiesa cattolica post-Concilio Vaticano II e, in misura minore, nelle Forze Armate e nella burocrazia statale. Ipotizzo, ma forse già fin d’ora ne sappiamo abbastanza, che per una varietà di ragioni nessuna delle associazioni esistenti volesse procedere ad una sua auto-epurazione. A meno che si fossero macchiati di comportamenti particolarmente riprovevoli, era complicato, talvolta anche emozionalmente, liquidare, espellere, costringere ad andarsene, colleghi di lavoro, compagni d’armi, collaboratori di lungo corso. Inoltre, una epurazione su larga scala nella fase in cui iniziava la competizione politica secondo regole democratiche per le quali i numeri contano, avrebbe danneggiato l’intera associazione, i suoi componenti, i suoi obiettivi. Un’epurazione di quel genere, rivelando l’ampiezza e la profondità del coinvolgimento dell’associazione nel regime avrebbe avuto effetti molto negativi sul prestigio di ciascuna associazione. Il resto lo fecero tutti coloro che minimizzarono opportunisticamente la quantità e la qualità del sostegno dato da loro (e dai loro parenti, amici, colleghi) al regime. Per lo più la fecero franca. Il conto dell’autoritarismo fascista e del suo pluralismo limitato non competitivo non l’abbiamo ancora pagato del tutto
Insomma, da qualsiasi punto di vista, purché non sia provinciale e parrocchiale, lo si giri: definitorio, classificatorio, concettuale, storico, comparato, “totalitarismo” non risulta il termine appropriato per definire il fascismo italiano. Al contrario, con buona pace dei suoi utilizzatori/trici, talvolta rigidi e ostinati, come Emilio Gentile e alcune sue allieve, talaltra pigri e copioni, il termine è spesso fuorviante e mai in grado di rendere conto di quello che il fascismo italiano riuscì effettivamente ad essere, del suo funzionamento, della sua caduta, dei suoi lasciti. Non basterà “tornare alla storia” per muovere gli indispensabili passi avanti nella direzione giusta. Bisognerà fare ricorso, come alcuni pochi storici sanno e già hanno fatto, agli abbondanti contributi in materia disponibili oramai da molti decenni (ad alcuni dei quali, quelli che mi paiono fondamentali, ho qui fatto sintetico riferimento) che identificano regole e meccanismi, spiegano come funzionano i partiti e le istituzioni, esplorano le dinamiche evolutive, proprio come sanno fare i migliori cultori della scienza politica.
Pubblicato il 29 marzo 2023 su casadellacultura.it
Pluralismo, oligarquía(s), y totalitarismo #30Abril @USTA_COLOMBIA
Facultad de Gobierno y Relaciones Internacionales de la Universidad Santo Tomás.
Maestria en Gobierno y Relaciones Internacionales
Nuevos populismos, democracia y globalización en tiempos de pandemia civid 19
Gianfranco Pasquino
Pluralismo, oligarquía(s), y totalitarismo
30 Abril 2:00 p.m.

Condividere non la memoria, ma il futuro #NovecentoAddio @edizioni_medusa
Da Novecento addio. La Risoluzione europea sui totalitarismi: un dibattito, Milano, Edizioni Medusa, 2020
Condividere non la memoria, ma il futuro, pp.51-57
No, i parlamenti non sono i luoghi migliori (ma neanche i peggiori) per scrivere la storia e dare valutazioni, e neppure per formulare memorie condivise. I parlamenti, compreso quello europeo, sono luoghi, anzitutto, di rappresentanza politica e poi di conciliazione di preferenze e interessi. La rappresentanza politica emergerà inevitabilmente dalla discussione e dalla combinazione di posizioni inizialmente diverse, anche molto diverse, persino conflittuali, talvolta con un voto di maggioranza, talaltra con un compromesso. Comprensibilmente, non si potranno cercare e tantomeno trovare giudizi storici definitivi condivisibili dagli storici i quali, al di là delle loro posizioni e preferenze, sono acutamente consapevoli che la storia è costante revisione e che nessuna valutazione può essere messa ai voti. Inoltre, sono convinto che, a prescindere da come in seguito tratterò della “memoria condivisa”, la sua costruzione richiede una pluralità di riflessioni e di apporti che non possono essere contenuti ed espressi in nessuna risoluzione parlamentare.
Dopo questa per me essenziale premessa, non ho nessun dubbio sul fatto che qualsiasi totalitarismo debba essere condannato, ma, al tempo stesso, non vedo perché non si possa procedere alle indispensabili distinzioni fra i regimi totalitari. Nella sostanza, sostengo, con riferimento ad una notevole quantità di studi storici, che è semplicemente sbagliato mettere sullo stesso piano il totalitarismo nazista e quello comunista (?), stalinista (?). Fermo restando che sono entrambi sicuramente condannabili, non è possibile non ritenere rilevanti alcune differenze fondamentali. Senza sottovalutare la macabra contabilità numerica delle vittime, credo che la differenza verticale incancellabile fra nazismo e comunismo (stalinista) consista, come è stato notato da una molteplicità di storici, nell’ideologia. Progettualmente, il nazismo mirò al genocidio del popolo ebraico, alla “soluzione finale”, nonché allo sterminio dei diversi a cominciare dagli Untermenschen. Per quanto variamente distorta nella sua applicazione l’ideologia comunista, almeno nella versione originaria marxista, è un’ideologia di emancipazione e liberazione che mira non alla distruzione, ma alla “creazione” dell’uomo nuovo e di una società senza conflitti, senza sfruttamento, senza oppressione. L’ideologia di morte è connaturata al pensiero nazista. È di Hitler e di tutti i nazisti, mentre la repressione, l’oppressione, le uccisioni non sono conseguenza del marxismo e del comunismo, ma dello stalinismo e, più precisamente, delle azioni di Stalin stesso. Mi guardo bene dal considerare lo stalinismo come una fase necessaria nella costruzione del comunismo e dal giustificarne i crimini con riferimento all’accerchiamento delle potenze capitalistiche. Non credo, però, che debba essere dimenticato che il comunismo non è una ideologia di morte e che non esistette mai una strategia di annientamento di uomini e donne perché considerati esseri inferiori. Poi, nel dibattito storico si trovano molti altri temi nient’affatto irrilevanti, ma anche da precisare. Senza la strenua resistenza sovietica all’invasione nazista, è probabile che la Second Guerra mondiale sarebbe terminata con l’estensione del nazismo su tutta l’Europa (e forse altro). Non vorrei, però, che il merito fosse attribuito all’antinazismo di Stalin piuttosto che, come mi pare storicamente accertato, alla legittima difesa della patria e quindi al, peraltro lodevole e apprezzabile, nazionalismo dei russi elemento che, naturalmente, in nessun modo alleggerisce le responsabilità delle politiche interne di Stalin e di quelle verso i paesi satelliti. Innegabile è anche che nei paesi satelliti moltissimi cittadini, non oso dire e non penso che fosse la maggioranza, furono sostenitori dei regimi comunisti che, per quanto, certamente, repressivi e oppressivi, non possono essere in nessun modo considerati totalitari (ma fortemente autoritari sì). Intravedo che troppi degli attuali governanti di quei regimi ex-comunisti intendono liberarsi delle proprie responsabilità politiche dei tempi passati addebitando tutto al totalitarismo comunista. Non è così. Magari qualche riflessione sul vasto consenso ottenuto dal nazionalsocialismo nei paesi dell’Europa centro-orientale e, comunque, dalla loro sostanziale indifferenza nei confronti del genocidio degli ebrei sarebbe utile per coloro che ritengono importante, forse decisiva, l’esistenza (la formazione) di una memoria condivisa fra gli europei stessi.
A proposito della memoria condivisa si possono assumere diversi atteggiamenti: ritenerla essenziale e possibile, ma anche ritenerla impossibile e non necessariamente utile. Preliminarmente, è decisivo specificare che cosa si intende per memoria condivisa e in subordine chiedersi se l’equiparazione dei due totalitarismi sia cruciale per la costruzione di questa memoria. Dato e non concesso (da parte mia e di molti altri) che la risoluzione di condanna senza sfumature di entrambi i totalitarismi serva alla costruzione di una memoria condivisa in che modo ottiene questo esito? Scarica allo stesso modo e con lo stesso peso su due ideologie e sui loro adepti la responsabilità di crimini, anche contro l’umanità (quelli nazisti), obbligando i cittadini europei a riflettere su quel passato e creando le premesse culturali per una Unione Europea mondata dalle tragedie del passato? Sarei quantomeno scettico su questa possibilità. Anzi, sappiamo che un po’ in tutti i paesi dell’Unione Europea, dalla Germania alla Spagna, dall’Italia alla Grecia, dalla Polonia all’Ungheria, non esiste nessuna memoria condivisa del recente passato, delle rispettive esperienze non democratiche, di quelli che molti ritengono, giustamente, crimini e che altri, talvolta, considerano tragiche, ma ineludibili, necessità. Nessuna risoluzione di nessun parlamento, neppure quando condanna in maniera apparentemente equanime entrambi i totalitarismi offre un contributo apprezzabile alla costruzione di una memoria condivisa. Paradossalmente, rischia di rafforzare le convinzioni degli uni che il totalitarismo fu cosa degli altri e viceversa. Questa strada deve essere abbandonata quanto prima, ma, sì, lo so che è già tardi. E allora? Non resta che lasciare che tutti argomentino le loro (op)posizioni, ma che le proiettino nella costruzione di quella che chiamerò audacemente la memoria del futuro.
Ad ognuno la sua memoria, meglio magari se nutrita di conoscenza storica acquisita nelle scuole e nei dibattiti, anche sui quotidiani, ma nessuna imposizione di una versione concordata e unificata di quegli avvenimenti che per accontentare tutti finirebbe per essere edulcorata, nebulosa e quasi sicuramente insoddisfacente. Questa considerazione non significa affatto che si debba scrivere la parola fine alle ricerche degli storici e si debba mettere la sordina alle polemiche. Significa, invece, che la ricerca di una memoria condivisa non avrà successo e potrebbe essere addirittura controproducente rispetto al fine di costruire un paese decente e una democrazia migliore.
Infatti, non importa sapere che cosa pensiamo del fascismo e della Resistenza ovvero non è decisivo che la pensiamo allo stesso modo. Quello che conta nella prospettiva di un paese decente che voglia dotarsi di una democrazia migliore è che qualsiasi memoria ciascuno di noi si sia costruito e sia in grado di difendere in maniera argomentata conduca alla consapevolezza che la vita collettiva degli italiani deve essere improntata da alcuni valori e da alcuni obiettivi democratici. Sono quelli che si trovano nella Costituzione, che stabiliscono diritti e doveri dei cittadini e che disciplinano e regolamentano il conflitto fra gli attori politici e le istituzioni. Sono anche quelli che, con marginali differenze, accomunano tutti gli Stati membri dell’Unione Europea nessuno dei quali, incidentalmente, ha mai pensato di suggerire che l’Europa che è e l’Europa che sarà debbano darsi una memoria condivisa delle tragedie del suo XX secolo. Allora, ad ognuno, in special modo degli europei, venga concesso di avere la sua memoria, ma a tutti si richieda di acquisire ovvero, in ogni caso, di rispettare i principi e i valori democratici, che sono, comunque, espressione della memoria della migliore storia d’Europa. In quel grande spazio di libertà e di diritti che l’Unione Europea è da tempo diventata e che deve rimanere, l’obiettivo nobile e solenne consiste proprio nel costruire attraverso il conflitto, la collaborazione, la combinazione di idee e di proposte un futuro condivisibile. Non è necessario che questo futuro sia immediatamente codificato in una Costituzione dell’Europa. È importante che venga edificato anche attraverso le sentenze della Corte Europea di Giustizia. I principi e i valori del futuro europeo sono protetti e promossi dalle istituzioni dell’Unione e, nella misura in cui i cittadini, i rappresentanti, i governanti dell’Unione li rispetteranno nei loro comportamenti, diventeranno la trama della Costituzione europea, un futuro tradotto in realtà.
Il rischio totalitarismo dietro un’idea sbagliata
Intervista raccolta da Francesco Grignetti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienze politiche a Bologna, ha sentito che Davide Casaleggio dà ormai per boccheggiante la democrazia rappresentativa?
Guardi, tutte le democrazie del mondo sono rappresentative. Il giovane Casaleggio intende forse dirci che è morta la democrazia?
Casaleggio immagina un mondo di un futuro prossimo dove il Parlamento sia sostituito da un continuo ricorso al voto elettronico.
Pensare che il Parlamento sia inutile, può venire in mente solo a chi pensa che sia il luogo dove si fanno le leggi. Errore. I parlamenti servono per sostenere i propri governi, ma anche a controllarli. Consentono il confronto tra maggioranza e opposizione. Sprigionano informazioni utilissime ai cittadini. Fanno emergere le pluralità e le differenze. Affrontano emergenze come i terremoti o le guerre. Tutte azioni che non si possono sostituire con un click.
Il suo ultimo libro s’intitola «Deficit democratici». Le nostre democrazie arrancano nella sfida con la modernità.
Ma la ricetta non può essere l’abolizione dei parlamenti. Anche a voler prendere sul serio la suggestione di Casaleggio, è mai possibile immaginare di convocare in seduta telematica permanente i cittadini per sentire la loro opinione quando c’è da fronteggiare un’emergenza? Da un lato è un’illusione. Dall’altro, una minaccia. Indica un percorso in direzione totalitaria. E ricordo a tutti che i sistemi totalitari sembrano tanto efficienti e veloci, ma sono terribilmente rigidi. Funzionano finché non crollano di colpo. In genere sulla testa di chi li ha creati
Pubblicato il 24 luglio 2018
Dizionario di Politica Bobbio, Matteucci, Pasquino. Perchè le parole contano!
Intervista raccolta da Annamaria Abbate per la Casa della Cultura
Giunto alla sua quarta edizione, a quarant’anni dalla data della prima pubblicazione, il Dizionario di Politica di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino resta un’opera unica nel suo genere. Uscito per la prima volta nel 1976, negli anni Ottanta fu tradotto anche in spagnolo e portoghese, lingue parlate in molti Paesi allora nuovi alla democrazia. Diventato un “classico” della Scienza politica, ha accompagnato generazioni di studiosi e ora è riproposto dalla UTET in una nuova edizione aggiornata
Leggo dalle sue note bio-bibliografiche che lei, Prof Pasquino, si dice “particolarmente orgoglioso” di avere condiretto, insieme a Bobbio e a Matteucci, il Dizionario di Politica. Ci racconta perché e com’è successo?
Semplicissimo. Fui cooptato da entrambi, Bobbio, il docente con il quale mi ero laureato a Torino nel marzo 1965, e Matteucci, il docente che mi aveva “reclutato” come professore incaricato di Scienza politica nell’Università di Bologna nel novembre 1969. Svolsi il compito di Redattore capo della prima edizione, sette anni di lavoro, pubblicata nel 1976. Da Bobbio, filosofo della politica, e da Matteucci, storico delle dottrine politiche, ho imparato molto, a cominciare da come si scrive una voce di dizionario (di politica, non di scienza politica), a come si citano gli autori, tutti, anche quelli con i quali si è in disaccordo, a come si riscrive quello che collaboratori disinvolti e sicuri di sé, ma presuntuosi e irritabili, hanno consegnato. Sia Bobbio sia Matteucci, molto esigenti con se stessi, mi parevano, e qualche volta osai dirlo loro, fin troppo arrendevoli nei confronti di alcuni loro colleghi, diciamolo, rigidi. Fu, poi, nel corso della preparazione della seconda edizione, che uscì nel 1983, che Bobbio decise, con il beneplacito di Matteucci, di promuovermi condirettore: un premio straordinario. Ne fui felice e ne rimango, per l’appunto, “particolarmente orgoglioso”.
Che tipo di lavoro vi proponevate e ne siete stati soddisfatti?
Volevamo preparare uno strumento il più articolato possibile di analisi, storica, filosofica, politologica, dei concetti, dei fenomeni, dei movimenti politici più importanti, non solo italiani, di un’analisi che fosse precisa e compiuta, ma anche suggestiva, che offrisse il massimo di informazioni, ma anche prospettive per approfondimenti. Nessuno di noi tre pensava opportuno rincorrere l’attualità e le mode; tutt’e tre abbiamo cercato di illuminare i temi classici della politica. Al proposito, mi fa grandissimo piacere sottolineare che le non poche voci assolutamente fondamentali scritte da Bobbio e da Matteucci hanno retto al passare del tempo. Anzi, rimango convinto che chiunque voglia capire la democrazia e la teoria delle elites, farebbe molto bene a leggere le due voci di Bobbio così come chi vuole conoscere che cosa sono il costituzionalismo e il liberalismo deve assolutamente leggere le due voci di Matteucci. Entrambi scrissero diverse altre voci molto importanti. Vorrei segnalare Disobbedienza civile di Bobbio e Diritti dell’uomo di Matteucci. Naturalmente, tutt’e tre vedevamo problemi irrisolti, inconvenienti analitici, fenomeni insorgenti. Prima nel 1983 e poi, nella terza edizione, del 2004, abbiamo cercato di porvi rimedio. Faccio un solo esempio: la riscrittura delle voci comunismo e socialismo diventate in parte obsolete in parte inutili per chi leggesse il Dizionario nel 2004. Bobbio non poté vedere la 3a edizione poiché morì due settimane prima della pubblicazione, ma avevamo discusso insieme tutti cambiamenti (e gli alleggerimenti).
Come si spiega l’assenza di Giovanni Sartori, il suo “secondo” maestro? Come mai non gli avete affidato nessuna voce?
In quegli anni Sartori, che si trasferì a Stanford nell’estate del 1976, era impegnatissimo a scrivere il suo fondamentale Parties and party systems (pubblicato nel 1976 e del quale celebreremo opportunamente il 40esimo anniversario). Interpellato, ci fece notare che Bobbio e Matteucci potevano scrivere ottimamente le voci, Costituzionalismo, Democrazia, Liberalismo, Scienza politica, sulle quali lui aveva già scritto molto. Quanto ai Sistemi di partiti disse che potevo provarci io stesso che, insomma, dovevo pure avere letto quanto lui aveva scritto. Per le edizioni successive acconsentì a mandarci qualche riga di apprezzamento di cui, conoscendolo, siamo tuttora molto lieti e grati!
E lei, prof Pasquino, di quali voci si sente “particolarmente orgoglioso”?
Premetto che mi è sempre piaciuto cercare di formulare le definizioni più precise dei concetti politici, rintracciando quel che serve nella storia e collegandolo alle trasformazioni avvenute e alle nuove interpretazioni. Potrei dire che tutte le mie voci mi sono care, ma non è così (anche perché, talvolta, mi capita persino di avere un po’ di senso critico nei miei confronti). Sono piuttosto soddisfatto delle voci Forme di governo, Militarismo e Rivoluzione. Nella nuova edizione ho scritto, in maniera che mi pare efficace, le voci Accountability, Deficit democratico e Scontro di civiltà. Mi pongo costantemente in un dialogo ideale con i lettori, le loro curiosità e i loro interessi. Cerco di scrivere in maniera tale da soddisfare i lettori senza ridurre il tasso di inevitabile tecnicismo che ciascuna voce deve contenere. Lo faccio osservando la lezione di Bobbio e di Luigi Firpo: la chiarezza espositiva è una conquista che giova sia a chi scrive sia a chi legge.
Il Dizionario è oramai arrivato alla quarta edizione che esce quarant’anni dopo la prima. Potrebbe dirci che tipo di interventi ha fatto, ha suggerito, ha incluso?
Anche per non produrre un testo troppo voluminoso e non più maneggevole, ho fatto cadere alcune voci di esclusivo interesse storico che si trovano in molti repertori. Abbiamo proceduto al rinfrescamento di diverse voci e alla riscrittura specifica in chiave comparata della voce Mafia (Federico Varese, cervello italiano, brillante studioso, da quasi vent’anni a Oxford), di Terrorismo politico (Luigi Bonanate) per includervi anche il terrorismo cosiddetto internazionale, e di Unione Europea (Roberto Castaldi) perché l’UE cambia, purtroppo, non sempre in meglio, ma merita di essere analizzata con grande attenzione. Poi ci sono diciassette voci del tutto nuove che vanno, ne cito solo alcune, da Alternanza a Capitale sociale, da Cittadinanza a Patriottismo, da Consociativismo a Governance, da Narrazione a Primarie (non poteva mancare!). Tutte le volte che analizzo la politica e che commissiono analisi ai colleghi mi rendo conto quanto sia importante essere attentissimi e chiarissimi nelle definizioni, articolati nelle interpretazioni, non-ideologici nelle valutazioni. Tre qualità che è tuttora possibile apprezzare e tentare di imparare da due maestri come Bobbio e Matteucci.
Conoscendola, prof Pasquino, e avendola spesso ascoltata parlare e, come dice lei, “predicare”, non posso credere che lei non voglia niente di più che definizioni, interpretazioni, valutazioni, dal Dizionario di Politica.
Certamente, conoscendomi, anch’io so che desidero molto di più. Mi piacerebbe che il Dizionario fosse ampiamente utilizzato e diventasse indispensabile non soltanto (la prego di notare l’ordine) ai colleghi e agli studenti, ma anche agli operatori dei mass media, sì, i giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione, magari diventasse, come sento che si dice, “virale” in rete (sic) e a un’opinione pubblica che rifiuti di farsi ingannare dagli affabulatori. Ciò detto, chiudo il mio piccolo libro dei sogni. Il predicatore che è in me rinsavisce; si disincanta; torna al realismo, alla politica che c’è; si rimette a studiare, a scrivere, a criticare, cercando di migliorare il linguaggio e le analisi politiche, e si rallegra nel dedicare questa nuova edizione alla memoria di Norberto Bobbio e di Nicola Matteucci (anche loro “predicatori” di una politica esigente e migliore).
Pubblicato il 28 aprile 2016
È nelle librerie il Dizionario di Politica di Bobbio, Matteucci, Pasquino. Nuova edizione aggiornata UTET 2016
Prefazione alla nuova edizione
Le parole contano
La politica cambia e cambia la sua “narrazione”. Di conseguenza, cambiano anche le parole per raccontarla e i concetti per analizzarla. Alcune parole sono effimere; altre sembrano destinate a durare; altre ancora meritano di essere diversamente spiegate. I concetti sempre meritano di essere definiti con attenzione alla loro storia e con precisione rispetto ai loro contenuti. Giunto alla sua quarta edizione, a quarant’anni dalla data della sua prima pubblicazione, questo Dizionario ha regolarmente mirato a includere tutte le parole importanti della politica e offrire le più accurate concettualizzazioni. Né Norberto Bobbio né Nicola Matteucci pensavano di dovere rincorrere l’attualità, spesso confinante con la caducità, ma entrambi furono sempre disponibili a prendere in seria considerazione fenomeni politici nuovi la cui trattazione meritasse di essere inclusa in un dizionario di politica. Ferme restando le grandi voci della politica, molte delle quali scritte, opportunamente, da loro stessi, che contengono tuttora le migliori chiavi di lettura delle strutture portanti della politica, entrambi avrebbero certamente incluso l’analisi dei fenomeni nuovi. Sarebbero anche stati d’accordo sull’opportunità di aggiornare complessivamente il Dizionario da loro impostato e diretto.
La lezione dei classici può e deve accompagnarsi a quanto di nuovo emerge continuamente in politica e serve senza nessun dubbio a illuminare le problematiche contemporanee. Tuttavia, la selezione di quali problematiche nuove includere e di quali fenomeni antichi, diventati minori e oggi non più rilevanti, escludere, si presenta sempre difficile. Però, selezionare è indispensabile, anche al fine di mantenere non esagerate le dimensioni di questa opera che continua ad essere unica, nonostante qualche imitazione, nel panorama italiano e non solo. La mia conoscenza del pensiero politico di Bobbio e di Matteucci, la mia lunga familiarità con i loro interessi scientifici e culturali e la fiducia da loro sempre manifestatami mi consentono di pensare che sarebbero stati fondamentalmente d’accordo con le mie scelte di inclusione del nuovo e di esclusione di alcune voci divenute non più necessarie.
Oltre a rinfrescare alcuni voci, dunque, abbiamo proceduto all’aggiunta di una ventina di voci nuove. Lascio ai lettori, ai colleghi e agli studenti quella che mi auguro sia la gradevole curiosità di scoprire le voci nuove, valutando nei fatti quali conoscenze aggiuntive apportino per una migliore comprensione della politica nel mondo contemporaneo(e, se siamo stati bravi, anche per qualche tempo a venire). Ho la profonda convinzione, certo di condividerla con Bobbio e con Matteucci, che qualsiasi buona analisi politica debba iniziare con la definizione corretta dei fenomeni e con la loro migliore concettualizzazione possibile. Questo Dizionario offre gli strumenti più adeguati per procedere con successo ad entrambe le operazioni. Infine, non posso trattenermi dallo scrivere che buone analisi politiche sono necessarie sia per criticare e contrastare la cattiva politica sia per porre le premesse della buona politica. Almeno, seppure con enfasi differenti, questo è quanto, con Bobbio e Matteucci, abbiamo cercato di fare. Poiché le parole contano.
Bologna, gennaio 2016
Gianfranco Pasquino
«Il Dizionario di Politica è un’opera importante, unica nel suo genere, non soltanto in Italia, ma anche all’estero dove è stato apprezzato e tradotto. Rigoroso nelle definizioni, articolato e convincente nella trattazione dei termini politici, questo Dizionario, opportunamente rivisto e aggiornato, è uno strumento istruttivo, utile per gli studenti, per i docenti e sicuramente anche per tutti coloro che di politica vogliono saperne meglio e di più.» Giovanni Sartori

Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino
Dizionario di Politica. Nuova edizione aggiornata UTET 2016
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Norberto Bobbio
Nicola Matteucci
Gianfranco Pasquino
Dizionario di Politica
Nuova edizione aggiornata UTET 2016
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18 voci nuove:
ACCOUNTABILITY Gianfranco Pasquino
ALTERNANZA Marco Valbruzzi
CAPITALE SOCIALE Marco Almagisti
scontro di CIVILTÀ Gianfranco Pasquino
CITTADINANZA Maurizio Ferrera
COALIZIONI Marta Regalia
COMPETIZIONE Marta Regalia
CONSOCIATIVISMO Francesco Raniolo
DEFICIT DEMOCRATICO Gianfranco Pasquino
GOVERNANCE Simona Piattoni
GOVERNO DIVISO Gianfranco Pasquino
NARRAZIONE Sofia Ventura
NEO-PATRIMONIALISMO Francesco Raniolo
PATRIOTTISMO Maurizio Viroli
POLARIZZAZIONE Marta Regalia
elezioni PRIMARIE Marco Valbruzzi
TRANSIZIONE Gianfranco Pasquino
TRASFORMISMO Marco Valbruzzi
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… Pace
Pacifismo
Parlamento
Partecipazione politica
Partiti cattolici
Partiti politici
Partitocrazia
Paternalismo
Patriottismo
Pauperismo
Peronismo
democrazia Plebiscitaria
Pluralismo
Polarizzazione
Polis
Politica
Politica comparata
Politica economica
Popolo
Populismo
Potere
Prassi
Primarie
Principato
Processo legislativo
Professionismo politico
Progresso
Proletariato
Propaganda
Proprietà
Pubblica amministrazione
Puritanesimo
Qualunquismo
Quarto stato
Radicalismo
Ragion di Stato
Rappresentanza politica
Razzismo
Referendum
Regime politico
Regionalismo
Relazioni industriali
Relazioni internazionali
Repubblica
Repubblica romana
Repubblicanesimo
Resistenza
Rivoluzione
Romant icismo politico
Scienza politica
Sciopero
Sciovinismo
Secessione errate
Signorie e principati
Sindacalismo
Sistema politico
Sistemi di partiti
Sistemi elettorali
Socialdemocrazie
Socializzazione politica
Società civile
Società di massa
Società per ceti
Sociologia politica
Sottosviluppo
Sovranità
Sovrastruttura
Spazio politico
Sistema delle Spoglie
Stabilità politica
Stalinismo
Stato assistenziale
Stato contemporaneo
Stato d’assedio
Stato del benessere
Stato di polizia
Stato e confessioni religiose
Stato moderno
Storicismo
Stratificazione sociale
Struttura
Tecnocrazia
Teocrazia
Teoria dei giochi
Terrorismo politico
Terza via
Timocrazia
Tirannia
Tolleranza
Totalitarismo
Transizione
Trasformismo
Trotskysmo
Uguaglianza
Unione Europea
Utilitarismo
Utopia
Violenza




