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Quel che “Repubblica” non ha pubblicato
La Repubblica-Bologna ha letto alcune mie dichiarazioni sul Movimento 5 Stelle raccolte e pubblicate da “Il Fatto Quotidiano” e muore dalla voglia di fare un bel titolo Pasquino è diventato grillino. Programma una bella intervista che, però, non comincia benissimo poiché l’intervistatrice non sa nulla del mio passato bolognese (candidatura “civica” di sinistra a sindaco nel 2008) e pazienza, ma neppure della sfrenata campagna che i suoi predecessori al quotidiano condussero contro di me e a favore di un candidato che, diventato sindaco, fu costretto a dimettersi sette mesi dopo. Credevo che le interviste dovessero essere preparate compulsando un po’ di materiale pertinente. Peccato. L’intervistatrice non sembra del tutto convinta che sia una buona cosa avere quindicimila candidati alle parlamentarie delle Cinque Stelle. Però, a suo onore, va detto che capisce subito che il metodo del Partito Democratico (a Bologna c’è poco d’altro in città) non è particolarmente eccitante né democratico. Che al plurilegislatore torinese Fassino (cinque volte in Parlamento) possa essere chiesto, come si mormora, di accettare di essere contrapposto a Bersani non sembra sia stato deciso con una qualche procedura democratica. Forse, ma gli inglesi hanno una splendida espressione, I am afraid that neppure essere ricandidati, come Sandra Zampa “in quota Prodi”, sembra il modo più adatto per esaltare la democrazia interna ai partiti. Quanto al democristiano, mai Popolare, mai neppure Margherita, PierFerdinando Casini, in parlamento dal 1983 (sì), la cui candidatura asl Senato per il PD è data quasi certa (nonostante gli ovvi “malumori”, maldipancia della mitica “base”), non risulta che abbia vinto una qualche parlamentaria oppure superato un qualsiasi test fra gli iscritti del PD.
Già, la democrazia interna, quella cosa che il Movimento 5 Stelle dice d’avere, ma è lecito avanzare molti dubbi, non sembra, quando si discute di candidature, abitare neppure nel PD. Consiglio all’intervistatrice di andarsi a leggere un bel disegno di legge di attuazione dell’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione italiana relativo alla vita dei partiti scritto almeno vent’anni fa da Valdo Spini. Però, sostiene flebilmente l’intervistatrice, le Cinque Stelle quasi attentano alla democrazia e alla Costituzione imponendo una penale di 100 mila Euro ai parlamentari che abbandonino il loro gruppo. Comunico che mi pare una cosa brutta anche se bruttissimo è certamente il trasformismo che, incidentalmente, è sgraditissimo agli elettori italiani. Aggiungo che bisognerebbe affrontare l’argomento cercando di capire, con qualche parere di esperto, se si tratta di un contratto privato oppure che cosa. Quanto poi ai 300 Euro al mese per pagare i costi della piattaforma Rousseau, dopo essermi esibito nella critica di qualsiasi democrazia del click, ricordo all’intervistatrice che come Senatore della Sinistra Indipendente e, in seguito, dei Progressisti versavo regolarmente ogni mese al PCI (e poi al PDS), che mi aveva candidato e i cui elettori mi avevano votato, tre volte più di 300 Euro. Inoltre, contribuivo con i fondi a disposizione dei parlamentari ad un certo numero di iniziative del partito sul territorio. Questo è quel che ho detto nell’intervista che, senza nessuna mia sorpresa, Repubblica-Bologna non ha pubblicato.
Qui aggiungo, a completamento del discorso sui costi della politica, che in tutte le mie campagne elettorali ritenni opportuno e doveroso coprire parte dei costi. Nelle mie tre legislature non cambiai gruppo parlamentare. Quanto all’espressione e all’accettazione del dissenso, nella Sinistra Indipendente non c’era nessuna disciplina di voto e spesso espressi un voto in dissenso dal mio gruppo (o il gruppo votò in dissenso da me!). Neppure quando votai in maniera differente dal gruppo del PCI sulla prima guerra del Golfo e, per esempio, D’Alema mi fece sapere che mi ero collocato alla destra del Sen. Democratico Sam Nunn, a qualcuno venne in mente che dovevo andarmene. Concludo ricordando che, in materia di accettazione, persino valorizzazione del dissenso, dal segretario del PCI di allora Alessandro Natta ricevetti una comunicazione face-to-face su un argomento allora (sic) molto delicato: “non sono d’accordo a fuoriuscire dalla proporzionale, ma tu vai avanti con le tue idee”. Altri tempi, altri partiti, altra classe politica.
Pubblicato il 13 gennaio 2018
2018 elettorale: premesse poco buone
Il decimo anniversario della rivista “ItalianItaliani” coincide con un anno elettorale in Italia. La legislatura 2013-2018 si è aperta male, con una non-maggioranza, si è sviluppata con fenomeni insoliti, la prima rielezione di un Presidente della Repubblica, ha avuto tre Presidenti del Consiglio, è stata segnata da pessime riforme costituzionali che un referendum, trasformato da Matteo Renzi in un plebiscito sulla sua persona e sulle sue non note competenze istituzionali, ha sonoramente bocciato. Anche la Corte Costituzionale ha proceduto a bocciature, tardivamente smantellando la legge elettorale Calderoli, nota come Porcellum, dichiarando incostituzionali alcuni elementi portanti del cosiddetto Italicum di cui nessuno si è assunto la paternità o maternità. Andremo a votare con una legge elettorale comunque pessima che lascia all’elettore il minimo potere di tracciare una crocetta sul simbolo di un partito e sul candidato o viceversa non consentendogli un opportuno e efficace voto disgiunto premiando o punendo differenziatamente partiti e candidati.
Dirigenti di partito, responsabili di questa legge Rosato (PD di non comprovate conoscenze elettorali), e commentatori si affannano ad affermare in maniera ipocritamente dolente che nessuno dei tre schieramenti avrà la maggioranza. Peggio per loro si potrebbe dire. Sappiamo, però, che, pur se sostanzialmente all’incirca il 70-75 per cento dei parlamentari saranno debitori del loro seggio ai dirigenti, sicuri della loro rielezione grazie alla possibilità di essere candidati in cinque circoscrizioni, che li hanno nominati (gli elettori non potendo fare altro che ratificare), una parte non piccola di quei parlamentari si appresterà a saltare sul carro dello schieramento che avrà qualche chance di formare il governo.
Più di 350 parlamentari hanno cambiato partito e gruppo parlamentare nella legislatura che si chiude, qualcuno l’ha fatto anche tre/quattro volte. Non perderanno il vizio, non perderanno tempo. L’italico trasformismo, vizio parlamentare per eccellenza, si riflette anche nel conformismo/opportunismo di molti giornalisti, dei commentatori, di troppi conduttori di salotti televisivi. Anche loro seguiranno, si adegueranno. Sarebbe fin troppo facile dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Sfortunatamente, ma inevitabilmente, le riforme congegnate per fare vincere o per fare perdere (in questo caso, pensate contro il Movimento Cinque Stelle) producono contraccolpi e conseguenze impreviste. Molto bene per i politologi (almeno per i pochi non stupidamente schierati a sostenere il principino di turno) che potranno sbizzarrirsi nelle analisi e nelle critiche. Molto male per i cittadini, in Italia e all’estero, che dovranno cercare di sopravvivere con un sistema politico dal funzionamento inadeguato e con una classe politica insoddisfacentemente selezionata e priva di prestigio e credibilità in sede di Unione Europea.
Auguri: Buon 2018.
Pubblicato il 1° gennaio 2018 su Italianinelmondo.com
Tre sistemi elettorali a confronto: Mattarellum, Porcellum e Italicum
Restaurare non è mai una scelta apprezzabile soprattutto perché, quando sono coinvolti uomini e donne, e non statue e quadri, è impossibile riavvolgere il tempo. Cambiano gli uomini, cambiano le donne, entrambi imparano, il tempo passa e crea nuove situazioni. Dunque, non si “restaurerà” il Mattarellum che abbiamo conosciuto e che, utilizzato in tre elezioni, produsse esiti di volta in volta migliori. Riflettendo su vent’anni di elezioni e tre sistemi elettorali, è possibile fare meglio.
Qui cercherò in maniera sintetica di esaminare gli effetti del Mattarellum e del Porcellum paragonandoli a quelli proposti e promessi dall’Italicum che mai fu. Un sistema elettorale, tutti i sistemi elettorali debbono essere valutati, anzitutto, con riferimento al potere che danno agli elettori, in secondo luogo, con riferimento al Parlamento che eleggono, in terzo luogo, con riferimento alla formazione del governo. Il potere degli elettori varia a seconda che possano votare solo per un partito oppure anche per il candidato che li rappresenterà oppure anche per la coalizione preferita. Nelle democrazie parlamentari, gli elettori non votano mai per il governo. Il loro voto dà vita ad un parlamento nel quale si formerà il governo che da quel parlamento potrà essere “rimpastato” oppure sostituito nella sua interezza.
Tenendo a mente questi cinque elementi (scelta dei candidati, voto ai singoli partiti, elezione dei parlamentari, indicazione delle coalizioni, formazione del governo), è possibile costruire un indice che misuri il potere elettorale complessivo dei cittadini. A ciascun elemento sarà assegnato un punteggio che va da 0 (nullo) a 3 (massimo), con punteggi intermedi che indicano un potere ridotto (1) o medio (2). L’indice di “potere degli elettori” andrà, dunque, da 0 (nessun potere agli elettori) a 15 (massimo potere elettorale).
Partiamo dal Mattarellum. Questo sistema consentiva di votare per i candidati nei collegi uninominali e, alla Camera, anche per liste di partito. Dal momento che gli imperativi elettorali spingevano alla formazione di coalizioni pre-elettorali a sostegno dei candidati nei collegi uninominali, gli elettori avevano anche la possibilità di scegliere fra coalizioni che si candidavano al governo. La tabella che segue sintetizza questi elementi.
Nel caso dei candidati il punteggio non può essere il più elevato poiché grande fu il numero dei candidati paracadutati, quindi, 2. Per quel che riguarda le coalizioni sempre si trasformarono in governi. Quindi, 3. Le coalizioni “mascheravano”, almeno in parte, i partiti, quindi, punteggio 2 per il voto di partito. Nel caso del Parlamento, tenendo conto dell’alto numero dei trasformisti, il punteggio deve essere non più di 1. Soltanto inizialmente i governi furono espressione delle coalizioni. In nessuna delle tre elezioni 1994, 1996, 2001, il governo che aveva iniziato la legislatura riuscì a concluderla. La composizione dei governi cambiò, rispettivamente: molto nel 1996, abbastanza nel 2001, poco nel 2006 (punteggio 2).
Molto diversi sono stati gli effetti del Porcellum, un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che ottiene il più alto numero di voti e liste bloccate.
Con il Porcellum, gli elettori erano confinati a tracciare una crocetta sul simbolo della coalizione e nulla più in questo modo acconsentendo all’elezione dei candidati nell’ordine deciso dai capipartito (punteggio 0). I simboli dei partiti coalizzati erano visibili (punteggio 1), ma nell’opzione di voto la coalizione ha sicuramente avuto il sopravvento (punteggio 2). Anche i parlamenti eletti con il Porcellum (2006, 2008, 2013) sono stati caratterizzati dalla comparsa di un alto numero di trasformisti (punteggio 1). I governi ai tempi del Porcellum sono stati molti. Pochi derivanti dall’esito elettorale: Prodi 2006-2008 e Berlusconi 2008-2011. Altri nacquero in corso d’opera: Monti 2011-2012; Renzi 2014-2016; Gentiloni 2016-2017. Il governo Letta 2013-2014 è un mix, soltanto in parte conseguenza dell’esito elettorale (punteggio 1).
Per quel che riguarda l’Italicum, la legge che, secondo Matteo Renzi (e i suoi corifei), “tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato”, stiamo parlando, tecnicamente, di un aborto: una legge nata morta. Tuttavia, mentre attendiamo la probabilmente inutile e sicuramente tardiva sentenza della Corte Costituzionale, possiamo valutare quelli che sarebbero stati i suoi potenziali effetti.
All’incirca il 60 per cento dei parlamentari diventerebbe tale per designazione dei capipartito/capicorrente (punteggio 1). I rimanenti avrebbero dovuto conquistarsi i voti di preferenza (disprezzatisssimi da molti corifei). Gli elettori sono costretti a votare i partiti (punteggio 2). Il parlamento potrebbe comunque esibire un alto numero di trasformisti (punteggio 2). Nessuna coalizione avrebbe interesse a formarsi (punteggio 0). Al ballottaggio gli elettori attribuirebbero un premio in seggi che consentirebbe/obbligherebbe il partito vittorioso a governare (punteggio 3). In buona misura questo sistema avrebbe, da un lato, fortemente distorto la rappresentanza politica e enormemente ridimensionato il ruolo del Parlamento, dall’altro, avrebbe prodotto la fuoruscita dal modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana.
Il punteggio complessivo comparato, per i tre sistemi elettorali, è indicato nella figura 1.
Alla luce di questa graduatoria comparata, c’è molto da lavorare per soprattutto per quei riformatori elettorali che mirino, ancora una volta, presuntuosamente, a inventare qualcosa che tutta l’Europa ci invidierebbe, invece di imitare il meglio che in Europa funziona da almeno cinquanta e più anni.
Pubblicato i 19 gennaio 2017 su ParadoXaforum
Lo spartiacque è il 1994: i partiti non sono più figli di vere culture politiche
Intervista raccolta da GIA.RO. per Il Fatto Quotidiano
“Nella Prima Repubblica i cambi di casacca erano rarissimi perché i partiti erano figli di grandi culture politiche: quella cattolica, quella liberale, repubblicana e socialista. Ce lo vedete un comunista diventare socialista o un liberale diventare democristiano? Il dissenso era accettato, ma sempre all’interno di un perimetro preciso. Poi, dal 1994, quelle culture sono scomparse“.
Gianfranco Pasquino, politologo, guarda sconsolato al trasformismo parlamentare che ormai sembra diventato endemico della seconda repubblica, e di questa legislatura in particolare. E individua tre cause.
“INNANZITUTTO“, spiega Pasquino, “c’è la totale perdita di controllo su Forza Italia da parte di Silvio Berlusconi, che non riesce più a tenere unite le truppe, con la conseguenza di diaspore continue. In secondo luogo, ci sono i numerosi movimenti dei grillini, in parte espulsi da Beppe Grillo e altri in fuga volontaria. Infine – continua il professore – l’ultima causa di questi smottamenti è il forte dissenso della minoranza del Pd nei confronti della leadership di Matteo Renzi, un malcontento che ha già provocato diverse uscite che il premier si è guardato bene dal frenare“. Civati, Fassina, D’Attorre, ecc… “A Renzi non interessa nulla del Pd. Anzi, più se ne vanno meglio è, perché al prossimo giro, con l’Italicum, piazzerà in lista solo i fedelissimi. Quelli che escono dal partito per lui sono un problema in meno”, osserva il professore. In questo modo siamo arrivati al record di transfughi di questa legislatura. “Siamo nel pieno di una fase di destrutturazione dei partiti. Ma, ripeto, tutto parte dal disfacimento di Forza Italia. Perché, se il partito berlusconiano avesse tenuto, anche Renzi avrebbe dovuto preoccuparsi di serrare le file” afferma Pasquino. Il quale, se da una parte condanna il trasformismo “come una grave malattia della democrazia parlamentare“, dall’altra difende l’articolo 67 della Costituzione che consente al singolo deputato o senatore di non avere vincoli di mandato.
“IL PARLAMENTARE deve essere libero dai partiti e dalle lobby“, precisa Pasquino, “questo però non consente di fare i furbi: se si viene eletti per realizzare un programma, a quello ci si deve attenere. Sul resto, invece, si può votare secondo coscienza, ma le scelte devono essere ben motivate. Insomma, prima di agire in dissenso dal proprio partito o addirittura abbandonarlo, ci vorrebbe una riflessione profonda. Che, come vediamo, non sempre c’è“.
Pubblicato il 4 gennaio 2016