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Sulla Presidenza della Repubblica Italiana. Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore #CasadellaCultura @C_dellaCultura

A: Che non si debba parlare dei nomi dei candidati alla Presidenza della Repubblica in anticipo rispetto alla data dell’elezione sta scritto nella Costituzione italiana? O dove?

P: Da nessuna parte, neanche nel dibattito alla Costituente qualcuno si chiese se ci fosse un tempo per tacere e un tempo per parlare di nomi. Nomi se ne sono sempre fatti in anticipo, talvolta per bruciarli talvolta come ballons d’essai, per testarne le probabilità di (in)successo. In qualche caso, per esempio, nel 1992, Andreotti non nascose la sua intenzione, mentre Craxi si interrogava se per la sua strategia non sarebbe stato preferibile eleggere Arnaldo Forlani al Quirinale. Poi andò molto diversamente con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro e il pentapartito venne sepolto sotto il muro di Berlino anche grazie a Mani Pulite e ai referendum del 1993, soprattutto quello elettorale.

A: Nelle altre democrazie parlamentari la discussione sui nomi dei possibili Presidenti è frequente, diffusa, intensa, paragonabile a quella italiana?

P: La risposta è sorprendente. Un buon numero di democrazie parlamentari europee non hanno nessun problema. Infatti, sono –a partire dalla Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda, Belgio, Spagna, Lussemburgo- monarchie. In alcune, Austria, Finlandia, Portogallo, il Presidente della Repubblica viene eletto dagli elettori. Rimangono, la Germania e la Grecia nelle quali è il Parlamento che elegge il Presidente. In Germania senza tensioni, ma con un accordo, sempre rispettato, fra i due grandi partiti. Eletto nel 2017, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier è stato voluto dalla democristiana Angela Merkel. In Grecia è richiesta una maggioranza qualificata a scalare fino alla quinta votazione nella quale è sufficiente la maggioranza relativa. Naturalmente, i nomi circolano un po’ dappertutto, ma senza i recenti eccessi italiani quando ci si è finalmente resi conto che il Presidente della Repubblica gode di notevoli poteri istituzionali e politici. Può essere, nel bene e nel male, un protagonista. Sarebbe, dunque, un contributo utile al dibattito pubblico se i nomi dei candidabili fossero fatti circolare e discussi senza ipocrisie e manipolazioni.

A: Non sono al corrente di autocandidature, ma esistono o sono esistiti criteri utili per scremare il campo dei “pretendenti”?

P: A lungo, grazie al democristiano De Gasperi che nel 1948 fermamente volle il liberale Luigi Einaudi alla Presidenza, il criterio, non formalizzato, ma operativo fu quello dell’alternanza. Ad un Presidente non democristiano seguiva un Presidente democristiano (il candidato che riusciva a sopravvivere alle lotte fra le correnti DC). Il non-democristiano era espresso da uno dei partiti alleati al governo con la DC, prima i liberali: Einaudi (1948-1955); poi i socialdemocratici: Saragat (1964-1971); poi i socialisti: Pertini (1978-1985). Dopo l’89 questo criterio risulta inapplicabile per la scomparsa dei protagonisti. Permane, o almeno così può sembrare, il criterio di un certo distacco del candidato dalla politica attiva di partito. Così è stato per Scalfaro, per Ciampi, per Napolitano e anche per Mattarella. Per tutti ha contato positivamente anche una esperienza istituzionale più o meno lunga e non controversa.

A: Sbaglio se rilevo che nessuno dei menzionati aveva cariche di governo o di partito al momento della sua elezione?

P: Tutt’altro, questa “fuoruscita” dalla politica attiva è stata considerata positivamente, garanzia di non partigianeria, di disponibilità a mettersi super partes ovvero, come disse brutalmente e memorabilmente Napolitano, di essere sì, di parte, ma dalla parte della Costituzione. Contro Aldo Moro nel 1971 fu La Malfa soprattutto a fare valere l’argomento del suo visibile impegno politico ancora evidentemente operante. Se Draghi fosse eletto al Quirinale risulterebbe il primo a passare senza soluzione di continuità da una carica di governo al vertice dello Stato. Certo, questa transizione sarebbe pur sempre mitigata dal suo non avere avuto una carriera politica e non essere il dirigente di un partito.

A: Dovremmo, però, temere che questa (ir)resistibile ascesa di Mario Draghi comporti, come ha segnalato il Ministro Giancarlo Giorgetti, l’irruzione nella Repubblica italiana di un semipresidenzialismo de facto?

P: Anche in questo caso la stupirò, cara Apprendista. Semipresidenzialismo c’è quando il Presidente della Repubblica (eletto direttamente dagli elettori, che non sarebbe comunque il caso italiano) nomina il Capo del governo che deve, comunque, godere di una maggioranza parlamentare che, come minimo, non gli si oppone, non lo contrasta. Una situazione simile esiste già anche nella Repubblica italiana attuale con una differenza rilevante: il Presidente nomina la personalità che gli è stata suggerita dai segretari dei partiti che la sosterranno nell’azione di governo. Nel caso di Draghi è lecito chiedersi se il suo nome sia emerso dai partiti oppure sia stato proposto dal Presidente Mattarella a quei partiti. Non approfondisco tranne una sottolineatura: i Presidenti della Repubblica italiana godono, se li sanno esercitare, di notevoli poteri istituzionali (e politici). Colgo, da parte di alcuni candidati che già corrono, la volontà di procedere alla rassicurante (per i capi dei partiti) disponibilità ad accettare, comunque a tenere in grandissimo conto, le preferenze che quei capi vorranno esprimere. Insomma, non è alle viste uno Scalfaro che seppe dire no no tanto a Berlusconi quanto a Prodi né un Napolitano che non sciolse il Parlamento nel novembre 2011 e nominò Monti Presidente del Consiglio.

A: Eppure, se ricordo correttamente, lo spazio affinché i Presidenti sviluppino un’azione autonoma nei limiti abbastanza ampi e flessibili, del dettato costituzionale, ci sono eccome. Lei, Professore, li ha addirittura variamente teorizzati.

P: Sì. Con riferimento ai poteri del Presidente e alla loro possibile utilizzazione ho formulato e variamente applicato la “teoria della fisarmonica” la cui fonte iniziale è stata l’immaginazione costituzionale di Giuliano Amato, che non ricorda più dove, ma in un conferenza, e quando. In estrema sintesi, tutta mia, ma discussa con Amato, la gamma dei poteri presidenziali contenuti nella Costituzione è molto ampia. La sua utilizzazione concreta dipende dalla personalità del Presidente, dalla sua competenza istituzionale e dalla sua biografia politica (e professionale). Dipende soprattutto dalla forza dei partiti, quelli che lo hanno eletto, e del sistema dei partiti. Quella gamma di poteri è assimilabile a una fisarmonica. Se i partiti sono deboli e il Presidente sa come suonarla, la fisarmonica giunge alla sua massima estensione. Quando i partiti sono forti non consentiranno al Presidente di aprire la fisarmonica e di suonare quello che vuole, anche se lo spartito rimane comunque quello inscritto nella Costituzione. Non so quanto nei suoi dieci mesi di governo Draghi abbia imparato che gli sia di aiuto nello suonare la fisarmonica dell’ampia gamma di poteri presidenziali. Peraltro, lo vedremmo fin dall’impegnativo debutto quando dovrà nominare il Presidente del Consiglio in sua sostituzione.

A: Siamo allo snodo definitivo. Al di là delle ambizioni personali e delle preferenze particolaristiche, quali dovrebbero essere i criteri per scegliere la candidatura migliore, magari con il concorso dell’opinione pubblica?

P: la Presidenza della Repubblica non può essere il premio alla carriera politica di nessuno. Non deve neanche essere il risarcimento per carriere politiche passate. Non è la carica da attribuire per qualche considerazione di gender parity. Non è qualcosa da scambiare: elezione in cambio di scioglimento del Parlamento, uno scambio indecente che immediatamente scalfirebbe autorevolezza e prestigio del Presidente appena eletto. Al Quirinale deve andare chi rappresenta al meglio “l’unità nazionale”, chi offre la garanzia di tenere la Costituzione come stella polare del suo mandato, chi ha dato prova di europeismo de facto, in pratica. Su questi elementi è giusto aprire la conversazione democratica-istituzionale. Farà bene alla politica.

Bologna 5 novembre 2021

Pubblicato il 5 novembre 2021 su casadellacultura.it

L’Assemblea costituente dei migliori

Da qualche tempo, numerose sono le lamentele sulla bassa qualità della classe dirigente italiana, in particolare, della classe politica. Naturalmente, ciascuno dei critici, a sua volta, membro della classe dirigente, esclude se stesso e la maggioranza dei suoi colleghi dalle critiche. Proprio la presenza di Mario Draghi al vertice del governo certifica e accentua l’inesistenza di una classe politica adeguata. Non è sempre stato così. Anzi, una riflessione sui componenti dell’Assemblea costituente offre la possibilità di capire come si possa reclutare una buona classe politica capace di rappresentare al meglio un paese.

   In totale i Costituenti furono 556 dei quali soltanto 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque. Anche se non è giusto sostenere che erano tutti uomini e donne di partito, qualifica che sarebbe subito stata respinta dai 30 rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, i Costituenti erano stati selezionati dai dirigenti dei rispettivi partiti e del Fronte e eletti anche, forse, soprattutto, in quanto rappresentanti di quelle liste. Dunque, vi si trovavano dirigenti di partito: Alcide De Gasperi, Lelio Basso, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, che avrebbero avuto una lunga carriera politica. C’erano molti che avevano combattuto il fascismo, finendo in carcere anche per diversi anni, come Vittorio Foa e Umberto Terracini poi presidente dell’Assemblea Costituente. Altri avevano avuto un ruolo importante nella Resistenza: Ferruccio Parri, Antonio Giolitti, Luigi Longo. Alcuni erano stati esuli come Leo Valiani in Francia e diversi comunisti in Unione Sovietica.

   Le biografiche politiche dei Costituenti segnalano anche che un certo numero di loro, fra i quali Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale, era stato eletto in Parlamento per alcuni anni prima dell’avvento del fascismo. La componente della Democrazia cristiana era molto variegata. Accanto ai professorini, Fanfani, Lazzati, Dossetti, Moro, alcuni dei quali provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolici Italiani, si trovarono esponenti delle professioni, avvocati e banchieri, persino alcuni notabili locali, cioè persone note e apprezzate nelle loro comunità. Poiché bisognava scrivere una Costituzione democratica, tutti i partiti decisero di fare eleggere nelle loro fila autorevoli professori capaci di dare un apporto scientifico altrimenti non disponibile: Piero Calamandrei per il piccolo Partito d’Azione, oltre ai professorini Costantino Mortati indipendente nella Democrazia Cristiana, Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Francesco De Martino per il PSI, Tomaso Perassi per il Partito repubblicano.

   Non socialmente rappresentativi, per estrazione sociale, titolo di studio, esperienze di vita, i Costituenti sono un esempio difficilmente imitabile di come si crea una classe politica. Nient’affatto specchio della società italiana, offrirono la migliore rappresentanza politica possibile: indicarono una strada e delinearono come intraprenderla.

Pubblicato AGL il 3 giugno 2021

Nostalgia (del futuro da costruire) #prefazione di “Due grandi tradizioni politiche”

Tratto da Tarcisio Cellini, Due grandi tradizioni politiche. La vanagloria distruttiva di un piccolo uomo. Un serio cammino di resilienza, Bosia (CN), @ A.C. “R.E.T.I.” 

Nostalgia (del futuro da costruire)

Ho avuto spesso buoni rapporti con gli uomini della sinistra democristiana, anche quando erano troppo conservatori istituzionali e troppo critici di Bettino Craxi. Mi piacciono i resoconti di coloro che hanno dato tempo e energie alla politica attiva e ne sono usciti dolorosamente delusi. Però, nel libro di Tarcisio Cellini, per il quale scrivo con gusto questa presentazione, c’è qualcosa di più della delusione. Ci sono indignazione e riprovazione per la ribalderia del Renzi, il mancato statista di Rignano. Il fatto è che quel Renzi era il prodotto quasi inevitabile delle trasformazioni della DC e del PCI che l’autore segue con grande attenzione e significativa partecipazione, anche emotiva. Non voglio dire che la strada alla pur resistibile ascesa del fiorentino l’abbiano preparata Moro e Berlinguer, nell’ordine, i due politici, unitamente a Benigno Zaccagnini, preferiti e ammirati dall’autore. Certamente, quella strada era stata lastricata dalle, non so quanto buone, intenzioni di Fassino e Rutelli, di Prodi e Veltroni. Mi rimane la convinzione che neppure adesso si siano resi conto delle loro enormi responsabilità. Fra l’altro, Fassino, Prodi e Veltroni dichiararono il loro voto favorevole al referendum (plebiscito, meglio) costituzionale del 4 dicembre 2016 con il quale l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi mirava soprattutto ad aumentare e consolidare il suo potere politico personale.

Cellini inizia il suo libro facendo riferimento alle grandi culture politiche italiane del passato, ma ne individua soltanto due: cattolicesimo democratico e “socialismo (ex PCI)”. Obietto fortemente. Primo, la cultura politica del PCI non era “socialismo”. Era “marxismo più (o meno) gramscismo”, peraltro il pensiero di Gramsci era ancora poco approfondito in tutte le sue implicazioni. Secondo, in Assemblea costituente ci furono almeno altre tre culture politiche importanti: il socialismo di Lelio Basso più che di Pietro Nenni; il liberalismo di Benedetto Croce e soprattutto di Luigi Einaudi; e l’azionismo rappresentato da personalità autorevolissime da Emilio Lussu a Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi fra le quali primeggiò per impegno indefesso e per conoscenze costituzionali Piero Calamandrei. Forse non deliberatamente, ma inconsapevolmente, senza, però, la mia disponibilità a transigere, Cellini finisce per dire che la storia successiva fu in maniera quasi esclusiva confronto/scontro fra DC e PCI. Se fosse stato così, non si capirebbero molte cose a cominciare dal centro-sinistra l’importante fase dell’Italia repubblicana nella quale, grazie in particolar modo ai socialisti e alla loro cultura riformista, si ebbe la unica vera impennata di modernità e di espansione di opportunità per gli italiani.

   L’ammirazione per Moro e Berlinguer può essere anche condivisa, ma da me solo in parte. Infatti, pur riconoscendo ad entrambi la capacità di leggere il corso degli avvenimenti e di elaborare strategie, alla fine il loro bilancio politico non posso considerarlo positivo. No, Moro non avrebbe aperto ad un rapporto di collaborazione con il PCI che sfociasse in una democrazia “compiuta”. No, Berlinguer si dimostrò incapace di trovare una credibile alternativa al fallimento della sua proposta con qualche venatura non propriamente da democrazia avanzata (e compiuta: nessuna alternanza) di compromesso storico. Ė certo che Moro si sarebbe ritratto a fronte delle reazioni della maggioranza della DC. Sono consapevole dei rischi ai quali Berlinguer avrebbe esposto il Partito comunista se si fosse distaccato bruscamente dall’Unione Sovietica, ma i suoi piccoli passi lasciarono il partito in mezzo al guado. Il PCI fu travolto dallo smantellamento del Muro di Berlino che lo svelò privo di una cultura politica effettivamente riformatrice. Dal canto suo, la sinistra democristiana fu sconfitta dalla sua ostinata volontà di mantenere unito un partito nel quale oramai di pensiero innovativo non si trovava nessuna traccia e i conflitti riguardavano solo il potere di governo e le cariche. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la manovre di Andreotti avevano avuto successo anche se al (non troppo) divino Giulio non riuscì di ottenere la carica più alta della Repubblica.

   Non so se e quando avverrà la riscossa dei riformisti. So che allora gli elettori italiani preferirono sperimentare dando il potere di governo ad un impresario televisivo e consentendogli di prosperare nel suo enorme conflitto di interessi, nutrendo l’antipolitica e il populismo. Se il Partito Democratico doveva essere la riscossa non possiamo essere soddisfatti. Gli errori politici sono stati molti, e continuano. La classe dirigente è mediocre e nient’affatto in via di miglioramento che, comunque, non può venire da elezioni primarie mal fatte e spesso manipolate. Di cultura politica non se ne vede neppure un brandello. Eppure, il PD era stato vantato dai fondatori proprio per la sua volontà di mettere insieme le migliori culture politiche del paese, nel 2007 già esauste e scomparse. Nessuno che guardasse alla produzione di cultura politica in Germania, negli USA, in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi. Troppi che si beavano della “anomalia” italiana. Pochi che volessero diventare europei consapevoli e attivi. Nella non grande misura in cui Moro si interessò dell’Europa, fu europeista by default, in mancanza di meglio. La gatta da pelare di Berlinguer, l’URSS, era davvero grossa, unghiuta e aggressiva, oggettivamente e logicamente nemica del processo di costruzione di un’Europa politica. Certo, il segretario comunista preferiva stare da questa parte della cortina di ferro (arrugginito), ma, nonostante l’entusiasmo europeista dell’ex-comunista Altiero Spinelli, grande federalista, il PCI rimase un attore irrilevante sui temi europei fino agli anni novanta.

Anche per questo, forse, l’Europa occupa nel resoconto di Cellini spazio limitato. Concludo queste mie considerazioni, da un lato, affermando extra Europam nulla salus. Dall’altro, invitando alla lettura di questo snello e efficace libro. Fa riflettere e imparare, con qualche nostalgia per un futuro migliore.

Gianfranco Pasquino

Bologna, 10 dicembre 2020

La lezione di queste regionali

Due regioni, che più diverse fra loro non si potrebbe, vanno al voto anticipato la stessa domenica. La più povera regione italiana, la Calabria, e una delle più prospere, l’Emilia- Romagna, entrambe sciolte per la condanna, definitiva, per il Presidente della Calabria, in primo grado per quello dell’Emilia-Romagna. Inoltre, in questa regione, un tempo il faro del buongoverno “rosso”, hanno suscitato grande scandalo rimborsi impropri, anche se non a livello di quelli della Regione Lazio, richiesti da 42 consiglieri su 50. Diverso anche il background politico delle due regioni. La Calabria è stata spesso governata dal centro-destra, al cui schieramento appartiene il Presidente scalzato dalla magistratura. L’Emilia-Romagna ha avuto governi di comunisti e socialisti e poi di centro-sinistra per tutta la sua storia. In entrambe, il centro-destra appare in declino con la Lega in corsa per superare Forza Italia. Proprio perché tanto diverse, le due regioni offrono il migliore dei test per raccontare lo stato della politica in Italia. Il primo test è facile.

Poiché è sicuro che in Emilia-Romagna vincerà il candidato del PD ed è probabile che il candidato del centro sinistra vincerà anche in Calabria, Renzi potrà considerare questi successi una conferma della bontà dell’azione del suo governo. Un’interpretazione plausibile, ma un po’ eccessiva, soprattutto se il secondo test darà risultati meno confortanti, se non addirittura preoccupanti. Regolare e costante è la differenza fra le due regioni in termini di percentuali di votanti. In Calabria gli elettori che vanno alle urne sono di solito il 10 per cento in meno degli emiliani-romagnoli. Questa volta, però, il “rischio astensionismo” sembra altissimo anche in Emilia-Romagna. Alle primarie ha votato un numero di elettori inferiore agli iscritti al PD nel 2013 (nel frattempo, si è anche scoperto che il numero degli iscritti 2014 sta crollando). Potrebbe essere che vada a votare poco più del 50 per cento degli emiliano-romagnoli cosicché il candidato del PD si troverebbe eletto, se raggiunge lui il 50 per cento dei voti, da un quarto degli elettori della sua Regione.

Non è questa la mia previsione che, però, rimane inquieta poiché se viene meno il senso civico in Emilia-Romagna, per di più in una fase nella quale l’Italia è chiamata a uno sforzo notevole per riprendere a camminare a passo spedito (in verità, Renzi vorrebbe farci “correre”), allora il significato complessivo è che la fiducia nelle capacità della politica di cambiare passo (e di migliorare la vita) è venuta meno in uno dei luoghi di forza del PCI, del Partito Democratico e, cifre alla mano, del renzismo. Non è bastato rottamare la vecchia guardia. Bisogna ricostruire un tessuto connettivo non con annunci, ma con riforme rapidamente approvate e prontamente attuate. Questo si aspetta anche la Calabria, terra nella quale il test non è soltanto numerico/percentuale, ma alla luce dell’espansione nel Nord della ‘ndrangheta, consiste soprattutto nella distruzione della criminalità organizzata senza famigerati inchini ai boss nelle processioni locali.

Da ultimo, Calabria ed Emilia-Romagna sono sotto osservazione anche da un altro, importantissimo punto di vista. Le Regioni, tutte, erano state create nel 1970 con l’idea che avrebbero significativamente contribuito alla riforma dello Stato. Con grande saggezza, il repubblicano Ugo La Malfa chiese che la costruzione di un ennesimo livello di governo, quello regionale, fosse accompagnato dall’abolizione delle province. Soltanto nell’anno in corso è iniziata un’abolizione parziale attraverso accorpamenti delle province. Nel frattempo, con pochissime eccezioni, tutte le regioni, nelle quali gli italiani continuano a identificarsi molto limitatamente, hanno dato davvero cattiva prova di sé. Il “voto” degli astensionisti, espresso con i piedi che non li porteranno alle urne, potrebbe essere interpretato anche, se non come una condanna delle regioni, come il messaggio che le Regioni sono diventate irrilevanti. Ne sapremo di più nella prossima primavera quando quasi tutte le altre regioni andranno alle urne.

Pubblicato AGL 23 novembre 2014