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Lo sguardo corto di Meloni e gli interessi dell’Italia @DomaniGiornale

La diplomazia è anche un esercizio, spesso acrobatico, di equilibrismo. Ma, è vero che la politica estera di un paese che sia media potenza deve essere improntata alla ricerca degli equilibri, di volta in volta preferibili, tenendo nel massimo conto le alleanze, gli impegni presi, le promesse fatte agli elettori e, non da ultimo, le posizioni ideali del proprio partito.
Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere consapevolezza del fascio di problemi che il suo esplicito, mai nascosto, sovranismo implicava nei rapporti con gli Stati-membri dell’Unione Europea e con la Commissione, motore delle iniziative e attività. Pur rimanendo con la testa fuori dalla maggioranza che ha espresso e sostiene la Commissione è spesso riuscita a mettere piede nelle decisioni che contano. Lo ha fatto ridefinendo, ridimensionando il suo sovranismo senza tagliare i ponti con i partiti sovranisti al governo in Ungheria e in Slovacchia o all’opposizione, in particolare in Spagna. Però, la risposta alle furibonde e maleducate critiche all’Unione Europe formulate in un documento di strategia del National Security Council degli USA e alla profezia, quasi un augurio di smembramento dell’Unione, non può essere quelle di un delicato pontiere.
Quel ponte, già traballante, fra Usa e Unione Trump e i suoi collaboratori lo hanno distrutto. Non casualmente e non per una infelice e cattiva scelta delle parole, ma perché da tempo nutrivano astio per la costruzione di una unione di Stati che, secondo loro, si facevano/fanno proteggere militarmente senza pagare il conto, in maniera furba e egoistica, non più accettabile.
La presidente del consiglio italiana non ha condiviso le risposte severe e preoccupate dei maggiori leader europei. Ancora una volta il suo invito a cercare di capire il punto di vista di Trump è molto ambiguo potendo essere interpretato come sostegno alla posizione del Presidente appare come un indebolimento preventivo delle risposte che l’Unione riuscirà ad approntare e dare. Per di più la reazione di Meloni ha lo sguardo molto corto. Non vede che le elezioni americane di metà mandato nel novembre 2026 potrebbero già trasformare il Presidente in carica, se i repubblicani perdessero la maggioranza in una o entrambe le Camere in un’anatra zoppa, comunque già non rieleggibile nel 2028.
Non dovrebbe essere difficile neanche per i dirigenti politici che non sappiano ragionare sul lungo periodo, come fanno gli statisti, cogliere la volatilità della situazione. I molto eventuali vantaggi derivanti da un rapporto privilegiato con l‘attuale Presidente dovrebbero essere valutati alla luce degli inconvenienti e delle critiche che causeranno nei rapporti con gli stati-membri dell’Unione Europea. Quegli ipotetici vantaggi non contemplano affatto una crescita di prestigio per il governo Meloni e per la Nazione Italia, Anzi sono vantaggi limitati, di breve periodo, effimeri. Da un momento all’altro possono rivelare la contraddizione congenita e insanabile del sovranismo.
Se ciascun governante antepone e impone il suo interesse nazionale, lo Stato più forte vincerà cosicché il sovranismo Maga è regolarmente destinato ad avere la meglio su qualsiasi concorrente solitario. Qui sta l’altra contraddizione del sovranismo che intenda sfruttare vantaggi dalla sua tanto orgogliosa quanto presunta autonomia. Non sostenuta dagli USA, vista con sospetto dalla maggioranza partitica e politica dell’Unione Europea, Giorgia Meloni rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’UE in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale e migliorare il coordinamento politico in senso federalista, l’esatto contrario di qualsivoglia sovranismo. In una Unione indebolita anche l’Italia sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale, certamente meno sovrana.
Pubblicato il 10 dicembre 2025 su Domani
La pace di Kiev è ostaggio di un incrocio di debolezze @DomaniGiornale

Qualcuno vince oppure i combattenti la guerra giungono ad un accordo. Se è saggio, chi vince non impone costi altissimi a chi perde, ma accompagna la sua vittoria con qualche concessione generosa. I perdenti umiliati costituiscono un pericolo futuro. I belligeranti si accordano quando appare loro evidente che la vittoria è molto improbabile e lontana e comporta prezzi elevatissimi che, probabilmente, i loro concittadini non vorrebbero pagare. A mio parere, historia magistra vitae, vale a dire che esistono riflessioni basate su conflitti precedenti che consentono di imparare almeno quali errori evitare, qualche volta quale sequenza di azioni porre in essere. Prioritario, sempre, è il “cessate il fuoco”, condizione che la “operazione militare speciale”, ovvero l’aggressione di Putin all’Ucraina, non comporta. La situazione è diventata ancora più complicata poiché altri attori si sono trovati più o meno intenzionalmente coinvolti, poiché quella guerra illumina lo stato del considerevole disordine mondiale e può avere conseguenze gravi anche in almeno un’altra zona problematica. Per la precisione i governanti della Cina, che sostengono Putin in maniera sostanziosa, lo fanno senza nascondere che una sua vittoria darebbe impulso alla loro mal/mai celata ambizione di annettere (riprendersi) Taiwan.
Nessuna delle soluzioni finora proposte alla guerra in corso appare accettabile poiché sono fondate su visioni egoistiche e di corto respiro. Il Piano in 28 punti di Trump, forse scritto a Mosca, si sarebbe tradotto in una resa dell’Ucraina, inaccettabile anche dall’Unione Europea e certo non in grado di soddisfare i criteri di nessun Premio Nobel per la Pace. Dimenticare che le motivazioni finora dominanti dell’inquilino fino al 2028 della Casa Bianca sono flagrantemente personali: ambizione e arricchimento, non consente di capirne le contraddizioni e le giravolte. Qualsiasi collaborazione con l’Unione Europea porterebbe ad esiti positivi, ma Trump, da un lato, non potrebbe appropriarsene in esclusiva e vantarsene, dall’altro, l’Unione Europea dimostrerebbe una rilevanza politica che ripetutamente la Casa Bianca ha voluto tarpare e cerca di negare.
Il logorio è destinato a continuare con racconti mai del tutto convincenti spesso plasmati da preferenze e convenienze politiche. Da ultimo sembra che le forze armate russe stiano avanzando anche se lentamente mentre lo scontento emerge in alcuni settori della popolazione. La corruzione, profonda piaga preesistente Zelenski, continua a fare danni economici e al morale degli ucraini. Dall’imprevedibilità di Trump, che nel frattempo sta “risolvendo” il caso del Venezuela, ma anche no, è improbabile attendersi una mossa decisiva. Anzi, è meglio sperare che nessuna mossa avvenga con il rischio che vada a puntellare, come è già avvenuto in due precedenti occasioni, incontro di Anchorage e i 28 punti, il trono di Putin quasi che l’ordine mondiale possa essere affar loro. A Putin, interessato a che quel nuovo ordine nasca riconoscendo le sue mire imperiali, non resta che attendere gli errori e i cedimenti di Trump dell’Unione Europea. Nessuno, però, sembra avere né il potere militare né l’immaginazione politica per spingere verso una soluzione, anche imperfetta, ma che salvi vite e risorse.
A fronte delle critiche di coloro che vedono solo i ritardi e le inadeguatezze dell’Unione vanno segnalati due sviluppi. Il primo è che l’Unione si sta allargando con l’adesione di cinque nuovi stati. Un buon esempio di crescita dello spazio di democrazia e diritti. Il secondo sviluppo è che la preparazione di una seria difesa dell’Europa e dei suoi stati membri continua a fare passi avanti. Il segnale è forte, sperabilmente destinato a risuonare anche a Mosca (e a Washington). Poiché sono kantianamente fermamente convinto che si vis pacem, para democratiam, credo che entrambi gli sviluppi vadano nel senso giusto. Se fosse possibile una reale collaborazione fra USA e UE la soluzione diventerebbe a portata di mano. Al momento bisogna cercare di limitare i danni che, comunque, non debbono essere pagati dall’Ucraina.
Pubblicato il 3 dicembre 2025 su Domani
Non si vive alla giornata. Le vere sfide da affrontare @DomaniGiornale #democrazie #federalismo

Gli alberi li vediamo quasi tutti. Di tanto in tanto qualche albero cade e nuovi alberelli fanno la loro comparsa. Vediamo anche quelli, ma, spesso, non riusciamo a capirne origine e significato. Quello che, a giudicare dai commenti e dalle prese di posizione, sembra sfuggire è la foresta. Sembra che quasi nessuno sia in grado di cogliere il significato complessivo delle sfide, la loro portata, l’intensità dell’impatto, meno che mai le conseguenze di medio e lungo periodo.
Le sfide contemporanee riguardano il modo di fare politica, non soltanto nei regimi democratici. Però, avviene in special modo, in questi regimi come, ovviamente, anche quello italiano, poiché il loro elemento distintivo è quello di essere società aperte, caratterizzate dalla competizione e esposte alle incursioni, interne e esterne. Pur essendo vero che le democrazie imparano, qualche volta l’apprendimento richiede tempo e sperimentazione. In quella fase un demagogo può avere conquistato il potere e brandirlo contro i diritti e le istituzioni della sua e di altre democrazie. Giunto al vertice dello Stato avrà l’opportunità di ricorrere a tutti gli strumenti del deep state, del profondo e dell’oscuro. Da questo punto di vista, la disponibilità delle tecniche dell’intelligenza artificiale può rivelarsi molto preoccupante, come sostengono gli esperti subito ammettendo di non essere in grado di esplorarne e valutarne tutti le potenzialità e i rischi.
Le incursioni esterne possono farsi forza anche dell’intelligenza artificiale nonché di manipolazioni politico-elettorali-comunicative diversificate e in casi estremi dei droni che distruggono qualsiasi resistenza. Tenendosi a debita distanza dal dibattito politico italiano al fine di vederlo meglio, poco o nulla di tutto questo, intelligenza artificiale e manipolazioni, sembra considerato importante e significativo. Le tematiche preminenti e prorompenti sono altre, non prive di una qualche rilevanza nell’immediato, ma soccombenti di fronte alle sfide di ben più alto livello.
Comprensibilmente nel centro sinistra la ricerca riguarda il/la figura del federatore, con lo sguardo rivolto al passato, fino al non resuscitabile e non imitabile Ulivo di trent’anni fa. Quando si passa alle politiche al primo posto non vengono collocate la libertà, l’autodeterminazione, le opportunità dei cittadini di oggi e di domani, ma lo scambio fra cannoni e burro. Meno soldi per fare e comprare armi con il molto problematico risparmio semplicisticamente destinato a investimenti nella sanità. Che l’Italia e il mondo di oggi e di domani esigano una cittadinanza dotata di alto e modernissimo livello di istruzione non sembra essere prioritario, forse neppure compreso appieno.
Il centrodestra di governo si gode il vantaggio di posizione, una vera propria rendita. Può mettere le difficoltà sulle spalle del passato nel quale stava all’opposizione e può rivendicare alcuni piccoli, ma reali successi: economia galleggiante senza tensioni e stabilità di governo. Non butta il cuore oltre l’ostacolo poiché sembra non vedere l’ostacolo e non vuole rischiare nessuna destabilizzazione. La sua persistente concezione sovranista ha alleati ugualmente poco orientati al futuro. Vogliono piuttosto tornare a fare qualcosa di grande che ritengono di trovare nel loro passato. Invece, le sfide hanno una caratteristica che le accomuna. Sono di tale portata e entità da richiedere risposte elaborate e concordate da più paesi in grado di mettere insieme le loro intelligenze collettive, le loro energie e le loro risorse.
La risposta si chiama federalismo. Soltanto alcune voci solitarie a isolate si fanno sentire a favore del federalismo, Anche a livello europeo, le proposte effettivamente federaliste formulate da Enrico Letta e da Mario Draghi sono state accolte da plausi di cortesia e stima, senza finora nessun seguito operativo. Eppure, dicono che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. In Italia e in Europa è già venuta l’ora.
Pubblicato il 19 novembre 2025 su Domani
Avanti con l’Unione Europea #introduzione a Massimo Riva, L’Europa che non c’è, Pisa University Press
Avanti con l’Unione Europea
L’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo. Non ha una Costituzione, come le rimprovera amaramente Massimo Riva, ma neppure la vecchia Gran Bretagna, vero, inimitabile modello politico per tutti i sinceri democratici, ha una costituzione scritta. Laddove i britannici fanno riferimento agli Atti del Parlamento, alle sentenze della magistratura e alle loro tradizioni, gli europei sanno di potere contare sui Trattati approvati nel corso di 75 anni di vita, in particolare sull’ultimo, il Trattato di Lisbona (2007), che nei suoi articoli ha certamente rango costituzionale.
Quello spazio ha garantito ad almeno oramai tre generazioni di europei quello di cui i Padri Fondatori e i loro predecessori, nonni e bisnonni, non avevano potuto mai godere: pace, e prosperità. Nessuna guerra ha avuto luogo fra potenze che avevano causato due guerre mondiali e tutti i paesi che hanno aderito nelle diverse fasi all’Unione sono oggi più prosperi. Sono anche democratici essendo la democrazia uno dei requisiti essenziali per l’adesione e la permanenza. In seguito all’aggressione russa all’Ucraina gli europei si sono resi dolorosamente conto che la pace e la prosperità vanno difese oggi, e domani, con una politica armata comune. Riva ha parole giustamente sprezzanti nei confronti dei pacifisti. Le condivido poiché, fra l’altro, ritengo che i pacifisti indeboliscono l’Unione Europea, sono nemici del processo di unificazione che deve essere protetto anche da sistemi di difesa comune, e perché un’Unione indifesa non sarebbe in grado di svolgere nessuna attività di pace.
Mi pare molto importante ricordare a tutti, non solo ai cosiddetti “sovranisti”, più o meno orgogliosi, e agli euroscettici, più o meno ignoranti, che il sistema politico-istituzionale dell’Unione Europea configura una democrazia di buona qualità. Ha un tutt’altro che inutile e non debole Parlamento che offre efficace rappresentanza ai cittadini dei ventisette Stati-membri grazie ai parlamentari da loro eletti e contribuisce notevolmente alle attività della Commissione Europea. A sua volta la Commissione, che può essere considerata il braccio esecutivo, il motore dell’Europa, è un organismo che esprime al meglio, con un commissario per Stato membro, le preferenze e gli interessi degli Stati-membri, portandoli al livello superiore, cioè quello europeo.
Condivido con Riva l’insoddisfazione nei confronti della Commissione attuale e soprattutto della Presidente in carica, che mi pare fin troppo appagata dal suo essere oramai entrata nella storia. Ma se il convento, ovvero i governi degli Stati-membri, non ha passato di meglio, non è giusto criticare l’Unione Europea. Piuttosto dobbiamo interrogarci sul declino della qualità del personale politico europeo a tutti i livelli. Certo, però, gli USA dimostrano che è possibile fare peggio, molto peggio.
Chi critica la democrazia nella e della Unione Europea abitualmente ha due (facili) bersagli: il Consiglio dei capi di Stato e di governo e il voto all’unanimità. Quanto al Consiglio bisogna volere e sapere distinguere. La sua composizione è sicuramente democratica. Ciascuno dei capi di governo è espressione della maggioranza elettorale e politica del suo paese. Se perde la maggioranza lui/lei sarà sostituito da chi ha conquistato la maggioranza. Meglio di così francamente non si può. Preoccupante, piuttosto, è il funzionamento del Consiglio, in particolare, il fatto che su determinate materie, ad esempio, la politica estera e di difesa e la politica fiscale, per decidere è indispensabile l’unanimità.
Tantissimi anni fa ho imparato da Norberto Bobbio che l’unanimità non è una procedura democratica di voto. In pratica serve a difendere lo status quo, gli interessi acquisiti. Con grande generosità potremmo sostenere che l’unanimità è l’arma che consente ai piccoli di non venire schiacciati dai potenti. Poiché, però, ne sappiamo di più dobbiamo subito aggiungere che, politicamente, troppo spesso la procedura di voto unanime contiene deplorevoli possibilità di manipolazione e ricatto e consente di metterle in atto.
C’è manipolazione, a monte, quando, per lo più informalmente, un capo di governo fa sapere che quella specifica decisione sarà da lui bloccata a meno che venga (ri)scritta seguendo le sue preferenze. C’è vero e proprio ricatto quando, di fronte ad una proposta elaborata dalla Commissione, un capo di governo fa sapere, più o meno trasparentemente, che non la voterà a meno che gli venga dato qualcosa in cambio. L’ungherese Viktor Orbán ha frequentemente, cinicamente fatto ricorso sia alla manipolazione sia al ricatto, spesso ottenendo quel che voleva oppure bloccando quel che non gradisce. Naturalmente, è molo probabile che, informalmente e riservatamente, anche altri capi di governo abbiano tratto vantaggio dalla loro indispensabilità con qualche scambio improprio.
Da qualche tempo esiste un accordo diffuso sulla opportunità di abolire del tutto il voto all’unanimità, ma, al proposito, il gatto si morde la coda. Infatti, per abolire l’unanimità è necessario un voto all’unanimità! Comunque, sono convinto che è solo questione di tempo (ma anche di insondabili volontà politiche). Succederà.
Peraltro, si potrebbe procedere anche altrimenti, ad esempio, come suggerisce Riva e come condiviso da molti, me compreso, progettando e ponendo in essere una Europa a più velocità. Più materie importanti decise da chi ci sta perché vuole avanzare verso maggiore integrazione più rapidamente è una soluzione sulla quale saggiare la convergenza di quanti e quali Stati membri. Disponiamo già di un esempio più che positivo: l’Euro moneta comune di 20 dei 27 Stati membri. Quel che si è fatto per l’Euro potrebbe essere fatto anche per altri ambiti: banche, fisco, tassazione dei colossi del web, difesa, immigrazione? Non partiamo da zero e sulla scorta delle preziose indicazioni contenute nell’importante Rapporto Draghi, l’Unione Europea potrebbe fare passi da gigante, proprio come vorrebbe Massimo Riva.
Aggiungo quella che a mio modo di vedere è molto più che una postilla. Le decine di milioni di migranti che rischiano la vita per approdare in Europa fanno giorno dopo giorno un omaggio incommensurabile all’Unione Europea e, naturalmente, anche all’Italia. Non è soltanto un omaggio alle opportunità di lavoro, ma anche alle condizioni e alle prospettive di vita per loro e i loro figli. Non sottovalutiamo queste motivazioni.
Cosa manca, dunque, per procedere e che cosa sarebbe necessario? Fermo restando che i sovranisti, che chiedono a gran voce che la loro Nazione si riappropri della sovranità, si badi, non perduta, ma consapevolmente ceduta ieri e condivisa oggi a livello europeo, praticano un balordo gioco di interdizione, quel che è indispensabile è una leadership all’altezza. E allora, mi esibisco nel wishful thinking, nel rendere pubblici i miei pii desideri nella aspettativa più che fondata che l’autore di questo libro li condivida.
Vedo due carenze, entrambe significative entrambe rimediabili nessuna delle due adeguatamente discussa nel dibattito pubblico e solo sfiorate da Massimo Riva. La prima carenza è stata ampiamente evidenziata dal Rapporto stilato da Enrico Letta (Molto più di un mercato, Bologna, il Mulino, 2024). Consiste nel mancato completamento del Mercato Unico. La strada rimane tracciata, ma troppi governanti europei e troppi alti burocrati a Bruxelles e dintorni non sembrano particolarmente dinamici e innovativi. C’è molto che si può e si deve fare, forse, a questo punto, costretti ad agire anche per dare risposte efficaci ai dazi scelleratamente (im)posti dal Presidente Trump. La seconda carenza riguarda la leadership.
Tutt’altro che priva di capacità e qualità, Ursula von der Leyen ha iniziato il suo secondo mandato (2024-2029) forse troppo preoccupata dalla consapevolezza che la maggioranza che la ha rieletta e la sostiene è meno coesa e meno convintamente europeista. Di conseguenza, la Presidente non si spinge avanti, non cerca di innovare, non vuole rischiare contraccolpi e indebolimenti. Comportamento comprensibile, ma, soprattutto nell’attuale situazione internazionale che richiede iniziative, dannoso.
Quello della leadership politica e democratica è sempre stato, solo da ultimo a livello delle istituzioni europee, un problema molto complesso. In quanto professore di Scienza politica mi sento autorizzato a sostenere che le grandi leadership, quelle che fanno la differenza, emergono in tempi di crisi gravi e in seguito a conflitti seri e profondi. Anche se non ci troviamo in un periodo brillante, l’Unione europea non è a questo stadio. Se, però, crediamo che il problema della leadership esiste, personalmente ne sono convinto, allora bisognerà pensare a modalità elettive della Presidenza che siano in grado di dare una risposta in termini di coinvolgimento dei cittadini europei, di maggiore partecipazione, di effettiva influenza. Con qualche nostalgia vorrei discuterne con Jean Monnet (1888-1979) e con Altiero Spinelli (1907-1986) le capacità e le energie dei quali si sommarono molto positivamente. Suscitata la vostra curiosità, non svelo le mie carte. Attendo per farlo che Riva voglia andare oltre quanto ha qui utilmente scritto fra passione e delusione. Si può; si deve. Buona lettura.
Bologna (Europa), agosto 2025 Gianfranco Pasquino
Introduzione a
Massimo Riva, L’Europa che non c’è, Pisa University Press, 2025,
PP- 7-11

PP- 7-11
Gaza è una tragedia dell’Umanità @DomaniGiornale

Gaza è una tragedia, non “umanitaria”, aggettivo tremendamente ambiguo in questa situazione, ma dell’umanità. Conseguenza anche, ma nient’affatto esclusiva e necessitata, dei crimini commessi da Hamas il 7 ottobre e che probabilmente Hamas avrebbe potuto evitare liberando senza condizioni gli ostaggi israeliani, Gaza sta affondano sotto il tiro incrociato di altri crimini, di gravissimi errori, di deprecabili ambizioni. La rappresaglia, secondo qualsiasi criterio davvero sproporzionata, scatenata dal Primo ministro Netanyahu lo ha giustamente reso un criminale di guerra. Finora la continuazione della rappresaglia contro Hamas e i palestinesi gli è anche servita, obiettivo da non dimenticare, a mantenere la carica e a procrastinare il processo per reati di corruzione.
L’opinione pubblica israeliana, inevitabilmente attraversata da molte linee di divisione, sembra dare priorità allo sforzo bellico. Una piccola parte protesta contro quella che è l’indifferenza del capo del governo alla sorte degli ostaggi ancora in vita. La destra, soprattutto quella religiosa, trae vantaggio dalla situazione che contempla il suo ruolo indispensabile per la continuazione del governo e ne approfitta per espandere gli insediamenti. Grande e fondato appare il timore che la democrazia in Israele venga imprigionata e sottomessa dai comportamenti di Netanyahu e dei suoi sostenitori.
Il riconoscimento, da parte di alcuni governi, non soltanto europei, di un improbabile Stato palestinese, risulta essere poco più che una mossa propagandistica più o meno apprezzabile e condivisibile, che purtroppo fa anche correre il rischio che si tralasci di pensare e di operare rapidamente per soluzioni più concrete e praticabili. La foto del segretario di Stato Marco Rubio a Gerusalemme con il Primo ministro israeliano proprio nelle ore in cui questi lanciava l’invasione di Gaza che dovrebbe essere l’operazione finale (non commento la terminologia e la sua macabra assonanza con “soluzione finale”) è certamente meno raccapricciante di quelle dei tre autocrati Xi Jinping, Putin, Kim Jong-un a Shanghai alla ricerca di un diverso ordine internazionale, mai specialità dei dittatori. Però, segnala l’impotenza degli USA e la connivenza del loro Presidente con il governo israeliano.
L’affarista newyorkese insediatosi alla Casa Bianca, stende il tappeto rosso per il criminale di guerra Putin in cambio di nulla (certo non, visti gli esiti del pessimamente organizzato e deprecabile incontro bilaterale, l’agognato Premio Nobel), ma fa di peggio con Netanyahu. Smettesse di sostenerlo economicamente e soprattutto con abbondanti forniture di armi potrebbe cercare di avvicinare la fine del conflitto. Qualcuno dovrebbe far sapere a Trump l’immobiliarista che soltanto a conflitto concluso sarà possibile cominciare i lavori per costruire, incuranti degli ordigni bellici che saranno rimasti in grande quantità, luoghi di vacanze di superlusso. Quanto breve in questa visione malata è il passaggio di Gaza dalla tragedia alla farsa che, però, sarebbe riscattata dalle migliaia di posti di lavoro a disposizione dei palestinesi locali. Questo è, finora non sono arrivate smentite e neppure indicazioni alternative, il livello di raffinatezza del pensiero geopolitico elaborato a Washington.
Immagino che sul continente europeo molti, come me continuino a sentire acutamente un profondo senso di colpa per i comportamenti dei loro governanti e dei loro connazionali ai tempi dell’Olocausto. Nessuno creda che la tragedia di Gaza offra l’opportunità di liberarsi di sensi di colpa. Anzi, dovremmo tutti interrogarci sulle ragioni della nostra inadeguatezza di pensiero e di azione. Giusto armare l’Unione Europea per dissuadere gli attacchi dal fronte orientale e difendersi adeguatamente, In qualche modo, però, interrogandosi sugli errori commessi in Medio Oriente l’Unione Europea deve provvedere anche a elaborare una strategia ad ampio raggio per il perseguimento di paci giuste fuori del suo continente, a cominciare da quel che resterà di Gaza.
Pubblicato il 17 settembre 2025 su Domani
Chi vuole la pace deve costruire la democrazia @DomaniGiornale

Si vis pacem, para bellum. Crediamo tutti di sapere che cosa significa questa frase latina. È il chiaro invito ad armarsi per rendere noto e evidente a tutti i potenziali aggressori che il nostro paese, pardon, la nostra Nazione è pronta, forse non solo militarmente, a difendersi. Qualcuno pensa, a mio parere correttamente, che prepararsi alla guerra non voglia dire preparare la guerra, che la difesa richieda non solo armamenti, ma convinzioni, condivisioni e motivazioni, che, concretamente, più di quarant’anni (1946-1989) di preparazione alla guerra sul continente europeo abbiano garantito la pace. Certo, l’equilibrio del terrore fu il prodotto della (rin)corsa agli armamenti fra le due superpotenze: USA e URSS, e anche della consapevolezza di entrambe che un bellum nucleare avrebbe significato il loro reciproco annientamento. Insomma, in qualche modo, prepararsi alla guerra in maniera visibile contribuì a mantenere la pace (almeno sul continente europeo). Che in materia di preparazione attiva e consapevole si possa scrivere molto altro è pacifico (sic), another time another place. Ma queste considerazioni mi paiono sufficienti a delineare in maniera non fumosa il problema e la soluzione che viene proposta.
Si vis pacem, para pacem è quel che, senza nessuna elaborazione, alcuni politici e intellettuali, non soltanto italiani contrappongono a chi indica la strada della preparazione alla/della guerra. Credo che sarebbe opportuno soffermarsi a pensare non soltanto quale pace dovremmo preparare, ma soprattutto in che modo, delineandone tempi, ritmi, strumenti, protagonisti. “Svuotare gli arsenali e colmare i granai”, come suggerito da Sandro Pertini nel suo primo discorso da Presidente della Repubblica italiana (1978-1985), è una bella frase ad effetto che riecheggia quanto auspicato dal profeta Isaia: “spezzare le spade per farne aratri, trasformare le lance in falci”. Con la stessa logica, ma non vorrei proprio essere blasfemo, chi sostiene, in Italia sono molti collocati a sinistra, che le spese per le armi vanno a scapito di quelle per la sanità, dovrebbe volere trasformare i carri armati e i droni in autoambulanze, perorando e agendo affinché, condizione essenziale, lo facessero tutti gli Stati. Rimane più che lecito chiedere a chi non vuole che l’Italia partecipi al riarmo dell’Unione Europea quale contributo alternativo la nostra Nazione dovrebbe impegnarsi a dare per la difesa degli stati membri dell’UE.
Preparare la pace significa anche, preliminarmente, riflettere sulle cause delle guerre, proporre spiegazioni storico-comparate, segnalare le modalità con le quali un certo numero di guerre sono state prevenute e impedite. Non vedo nulla di tutto questo nei discorsi di coloro che dicono di voler preparare la pace.
Si vis pacem, para democratiam. Nelle relazioni internazionali una generalizzazione molto robusta e finora non smentita è che le democrazie non si fanno la guerra fra di loro. È vero che le democrazie sono entrate e continuano a entrare in guerra per una pluralità di motivi, ma l’avversario, il nemico è regolarmente, provatamente uno Stato, una Nazione non democratica. Al proposito, fa la comparsa in tutta la sua pregnanza e lungimiranza la lezione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804). La sua tesi è che la pace perpetua è conseguibile ampliando l’area delle Repubbliche, termine usato allora per definire i paesi governati, non nell’oppressione e nella repressione, ma con il consenso, e procedendo alla costruzione di una Federazione di Repubbliche. L’Unione Europea ne è un ottimo esempio.
Qui si pone il problema di come preparare la democrazia. Troppo facile sostenere che non è possibile esportare la democrazia chiavi in mano. Piuttosto le democrazie e i democratici, soprattutto coloro che vogliono la pace, hanno il dovere politico e morale di favorire e incoraggiare tutti quei molti comportamenti che nei differenti paesi vanno nel senso della protezione e promozione dei diritti civili e politici, sostenendo coloro che se ne fanno portatori e difensori. La diplomazia, vigorosa, insistente e generosa, delle idee e delle risorse è il modo migliore per fare sbocciare i fiori democratici.
Ne concludo che chi vuole la pace deve coerentemente e insistentemente operare per portare, piantare, innaffiare quei fiori democratici a cominciare dai paesi responsabili di operazioni militari più o meno speciali e affini. Hic et nunc. Il resto sono chiacchiere.
Pubblicato il 10 agosto 2025 su Domani
Le ambizioni di due ego non portano alla pace @DomaniGiornale

Con l’aggressore russo bisogna certamente parlare. Senza illusioni. Le più o meno velate minacce reciproche e negozialmente propedeutiche Trump e Putin se le sono già scambiate. Per ciascuno di loro l’incontro in Alaska serve anche obiettivi che sono congiuntamente personali e politici. Almeno per il momento, Putin ha ottenuto il riconoscimento di interlocutore privilegiato del Presidente degli USA. Da parte sua, perseguendo il Premio Nobel per la pace, Trump vuole porre fine all’operazione militare [molto] speciale che da più di tre anni il governo autoritario russo conduce contro la democratica Ucraina. Entrambi sono largamente consapevoli che, riuscissero a raggiungere un accordo, non soltanto la loro leadership rifulgerebbe, ma ne conseguirebbero anche due effetti collaterali di enorme importanza.
Il primo effetto sarebbe quello di dimostrare l’impotenza dell’Unione Europea, apparentemente nano militare e diplomatico, comunque finora incapace di porre fine ad un gravissimo conflitto sul suo territorio. Ad entrambi molto sgradita, l’UE si è, peraltro, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, dimostrata capace di contribuire in maniera decisiva allo sforzo bellico degli ucraini. Il secondo effetto, inevitabile, se l’aggressione venisse premiata con la cessione di territorio ucraino, uno, forse il principale e più sbandierato, degli obiettivi russi, si configurerebbe come l’accettazione a non troppo futura memoria di un esito simile per Taiwan insistentemente rivendicata da Xi Jinping come parte integrante della sua Cina. Il compiaciuto amichevole silenzio della Cina sulla guerra contro l’Ucraina è molto eloquente.
Premiare le ambizioni e le azioni russe creerebbe un precedente pesantissimo a tutto scapito della sovranità e della democrazia di Taiwan. In qualche modo, però, è necessario non sottovalutare le preoccupazioni russe e tenerle in grande conto per aprire qualsiasi negoziato. Siamo ancora ai preliminari che non possono non consistere prioritariamente nel cessate il fuoco accompagnato da uno scambio di prigionieri e, soprattutto, dalla restituzione dei bambini rapiti agli ucraini. A questo punto, lo sapremo prestissimo, si porrà il problema di una vera propria conferenza di pace.
Forse, Trump si renderà conto che senza la partecipazione, in particolare di Zelensky, ma anche dell’Unione Europea, qualsiasi pace “giusta e duratura” è semplicemente impensabile. Se l’operazione militare speciale russa è stata davvero motivata dalla inquietudine dell’autocrate del Cremlino che sentiva la Nato “abbaiare” ai suoi confini, la rinuncia ufficiale di Zelensky a entrare nell’Alleanza Atlantica è cruciale. Appena meno essenziale è che l’Unione Europea affermi, senza specificarne i tempi, che non esistono le condizioni per l’adesione dell’Ucraina all’UE. Meglio non addentrarsi nel complicatissimo e conflittuale discorso sulla neutralità dell’Ucraina. Inevitabile, invece, è affrontare l’argomento delle terre rare abbondantemente presenti sul territorio controllato dal governo ucraino e fortemente concupite da Trump e da Putin. Saranno necessari impegni ucraini di garantire l’accesso e la commercializzazione senza pregiudizi e senza discriminazioni di quelle preziosissime risorse.
Al momento queste considerazioni possono tutte sembrare premature, ma è indubbio che fanno parte del bagaglio di aspettative e aspirazioni con il quale Trump e Putin si apprestano al loro incontro in Alaska. Quanto più problematico e meno produttivo risulterà l’incontro tanto più probabile diventerà il ritaglio di un ruolo importante per il Presidente ucraino e per chi, Ursula von der Leyen e/o Kaja Kallas verrà designata a rappresentare l’Unione europea. L’esito peggiore dell’incontro sarebbe la continuazione del conflitto, se non addirittura una congiunta, più o meno sottile, ma vergognosa e irricevibile richiesta di capitolazione a Zelensky. Estote parati.
Pubblicato il 13 agosto 2025 su Domani
Le lezioni da imparare dalla sconfitta con il tycoon @DomaniGiornale

Quella che si è combattuta al Golf Club di Turnberry, Scozia, di proprietà personale del Presidente USA Donald Trump, è stata una battaglia importante, ma non campale e, meno che mai definitiva nella guerra dei dazi da Trump voluta. Quasi tutti i commentatori sostengono che Trump ha imposto una pesante sconfitta alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e di conseguenza all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri compresa l’Ungheria dello stupidamente giubilante Viktor Orbán. Tutti i commentatori sollevano molti dubbi sull’effettiva praticabilità di alcune misure concordate, in particolare, l’obbligo di acquisto di energia e equipaggiamento militare USA per 750 miliardi di dollari e di investimento di 250miliardi sul mercato USA. Si preannunciano molte, inevitabili, costose e prolungate controversie fra USA e UE che potrebbero essere un serio danno collaterale di questa guerra.
Nel frattempo, naturalmente, opportunamente e tristemente, tutti i produttori e investitori europei, grandi, medi e piccoli, stanno facendo il conto delle molto probabili perdite e ingegnandosi a trovare alternative e rimedi. Almeno in parte, con fantasia creativa, i migliori operatori economici ci riusciranno, ma ad una sconfitta, politica prima ancora che economica, dovranno essere le autorità politiche e istituzionali europee a dare una riposta potente e inequivocabile, elaborata congiuntamente e fermamente condivisa.
Senza nessuna caccia alle streghe (sic), bisogna subito chiedersi se coloro che, come, Imperterritamente, Giorgia Meloni e la stessa von der Leyen, predicavano l’attesa e preannunciavano la ricerca di accordi con l’imprevedibile Trump, non abbiano gravemente indebolito la posizione negoziale dell’Unione e, quindi, non siano almeno in parte responsabili della pesantezza della sconfitta. Al proposito ricorrere al senno di poi è un’operazione che può essere molto fruttuosa. Peraltro, il senno di prima consigliava chiaramente di non presentarsi come appeasers alla Neville Chamberlain 1938, che traduco liberamente come calabrache e calabrachette.
Andare a cercare, talvolta con insistenza, di comprendere le ragioni dei comportamenti irragionevoli di Trump non era un gesto generoso e potenzialmente utile. Al contrario, era, come ha scritto su queste pagine Nadia Urbinati, un segno penoso di vassallaggio, degenerazione di un tipo di sovranismo. Per di più questo vassallaggio suggeriva a Trump che, non credendo fino in fondo alle sue minacce, l’Unione Europea non stava dedicando abbastanza tempo e energie alla formulazione di contromisure da temere per qualità e per efficacia. L’imposizione di dazi più o meno pesanti aveva e mantiene come obiettivo trumpiano anche quello di dimostrare che l’Unione Europea non è (ancora) una grande potenza e comunque non sa e non riesce a comportarsi come tale. “Parassiti” (termine usato dal Vice-Presidente Vance) in materia di difesa militare, “profittatori”, secondo Trump, grazie alla libertà di commercio tutelata dagli USA, gli europei si meritano non una, ma molte lezioni. Probabilmente, sì, molte sono le lezioni da imparare mentre i dazi iniziano il loro accidentato e balordo percorso. La lezione politica più importante, però, la dovrebbero già conoscere tutti: l’Unione fa la forza. Jean Monnet e Altiero Spinelli l’hanno scritta e praticata in tutte le salse, senza tentennamenti. Fare i free riders (no, non i “portoghesi”) nell’Unione Europea indebolisce l’Unione senza dare molti vantaggi e premi a chi devia. La seconda lezione consegue. Bisogna porsi subito l’obiettivo di potenziare la leadership politica e istituzionale dell’Unione. Ursula von der Leyen deve essere la prima a interrogarsi sui suoi errori, su quelli della Commissione e sulle malaugurate prese di distanza di alcuni capi di governo europei. Governare la prima sconfitta e prepararsi alla battaglia prossima ventura richiede autocritica e visione. Von der Leyen 2.0 è sufficientemente attrezzata?
Pubblicato il 30 luglio 2025 su Domani
Cercasi leader credibili per un nuovo ordine mondiale @DomaniGiornale

Troppi si sono già dimenticati, oppure, forse non hanno mai realizzato, che l’ordine mondiale del dopoguerra, che non fu mai del tutto “liberale”, è stato il prodotto di due fattori. Da un lato, il ruolo, questo sì effettivamente liberale, svolto dagli Stati Uniti da Bretton Woods in poi nelle grandi organizzazioni internazionali, in particolare quella per il Commercio e nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale. Dall’altro, quel tanto di ordine internazionale che ha caratterizzato il dopoguerra fino al 1989 dipese, lo scriverò con l’enfasi degli studiosi che lo battezzarono, descrivendolo e monitorandolo, dall’equilibrio del terrore (nucleare) fra USA e URSS. Il meritato disfacimento dell’URSS ha creato una situazione nella quale gli USA si sono ritrovati superpotenza solitaria, ma, in parte restia in parte incapace, di costruire un nuovo ordine internazionale. La guerra del Golfo nel 1991 comunicò comunque che la creazione di una ampia coalizione con obiettivi condivisi è una soluzione possibile, forse la soluzione anche auspicabile. Nel frattempo, però, alcuni Stati, cresciuti grazie all’ordine che era esistito, hanno cercato di imporsi sulla scena internazionale con l’obiettivo, talvolta meritorio, di raddrizzare qualche squilibrio. Impropriamente, li chiamerò un po’ tutti Brics, consapevole, ovviamente, che Russia e Cina giocano anche un’altra partita e su tavoli diversi.
L’operazione militare speciale di Putin, vale a dire la brutale aggressione all’Ucraina, non è stata lanciata perché la Nato abbaiava (però, senza mordere) ai confini della Russia, ma perché il capo del Cremlino sta tentando di arrestare il declino, in buona parte già avvenuto e irreversibile, del suo paese. La ricca Ucraina rimane una preda ambita, anche se sarà quasi impossibile rilanciare il prestigio della Russia il cui potere militare sembra attualmente dipendere dalle armi, e persino dai soldati, provenienti dalla Corea del Nord.
In altri tempi, il Presidente degli USA avrebbe probabilmente cercato di contrapporre all’aggressore una coalizione, includendovi, per esempio, l’Unione Europea, non, come ha fatto Trump, prima con una specie di ammuina a Putin, poi facendo la faccia feroce e lanciando ultimatum: cessate il fuoco entro 50 giorni. La assoluta necessità di una coalizione capace di imporre la fine del conflitto Hamas-Israele è lampante. Anche in questo drammatico contesto le dichiarazioni di Trump sembrano non sortire alcun effetto con Netanyahu che continua arrogante e imperterrito a perseguire obiettivi che sono anche suoi personali.
Nessuno degli studiosi delle relazioni internazionali ha mai scritto che potenza e prestigio dipendono esclusivamente dalle condizioni economiche di un paese. Tutti o quasi gli studiosi di economia sostengono che il libero commercio è fattore di crescita, nazionale e internazionale. Qualcuno aggiunge che il commercio riduce le tensioni e agevola comportamenti di collaborazione, pacifici. Dazi e protezionismo non fanno diventare grande proprio nessuno. Le guerre commerciali finiscono sempre male, più o meno. Sicuramente le guerre commerciali non servono a ristrutturare le modalità di commercio mondiale che, sostiene Trump, risultano in svantaggi consistenti e persistenti per le imprese e gli operatori economici USA. Dei consumatori il Presidente non sembra curarsi. Anche in questo caso le sue dichiarazioni sono roboanti, talvolta offensive, e gli ultimatum quasi perentori.
Il Presidente Trump ha già perso molta credibilità, e i sondaggi USA lo rilevano e rivelano senza eccezione alcuna. Un Presidente non credibile con comportamenti erratici e non prevedibili non ha nessuna possibilità di (contribuire a) costruire un nuovo ordine internazionale. Anzi, la continuazione del disordine è assicurata dalla crescita, anche, come ambizioni, della Cina della cui visione di ordine internazionale è legittimo essere preventivamente preoccupati. Please, Unione Europea, batti un colpo, anche due.
Pubblicato il 16 luglio 2025 su Domani
L’essenza di quel che è imperativo sapere su pace e guerra #Paradoxaforum

Si vis pacem, para bellum. Crediamo tutti di sapere che cosa significa questa farse latina. È il chiaro invito ad armarsi per rendere noto e evidente a tutti i potenziali aggressori che il nostro paese, pardon, la nostra Nazione è pronta, forse non solo militarmente, a difendersi. Qualcuno pensa, a mio parere correttamente, che prepararsi alla guerra non voglia dire preparare la guerra, che la difesa richieda non solo armamenti, ma convinzioni, condivisioni e motivazioni, che, concretamente, più di quarant’anni (1946-1989) di preparazione alla guerra sul continente europeo abbiano garantito la pace. Certo, l’equilibrio del terrore fu il prodotto della (rin)corsa agli armamenti fra le due superpotenze: USA e URSS, e anche della consapevolezza di entrambe che un bellum nucleare avrebbe significato il loro reciproco annientamento. Insomma, in qualche modo, prepararsi alla guerra in maniera visibile contribuì a mantenere la pace (almeno sul continente europeo). Che in materia di preparazione attiva e consapevole si possa scrivere molto altro è pacifico (sic), another time another place. Ma queste considerazioni mi paiono sufficienti a delineare in maniera non fumosa problema e soluzione
Si vis pacem, para pacem è quel che, senza nessuna elaborazione, alcuni politici e intellettuali italiani contrappongono a chi indica la strada della preparazione alla/della guerra. Credo che sarebbe opportuno soffermarsi a pensare non soltanto quale pace dovremmo preparare, ma soprattutto come, delineando i tempi, i modi, i passi. “Svuotare gli arsenali e colmare i granai”, come suggerito da Sandro Pertini nel suo primo discorso da Presidente della Repubblica italiana (1978-1985), è una bella frase ad effetto che riecheggia quanto auspicato dal profeta Isaia: “spezzare le spade per farne aratri, trasformare le lance in falci”. Con la stessa logica, ma non vorrei proprio essere blasfemo, chi sostiene, in Italia sono molti a sinistra, che le spese per le armi vanno a scapito di quelle per la sanità, dovrebbe volere trasformare i carri armati e i droni in autoambulanze e agire affinché, condizione essenziale, lo facessero tutti gli Stati. Rimane più che lecito chiedere a chi non vuole che l’Italia partecipi al riarmo dell’Unione Europea quale contributo alternativo la nostra Nazione dovrebbe impegnarsi a dare per la difesa europea.
Preparare la pace significa anche, preliminarmente, riflettere sulle cause delle guerre, proporre spiegazioni storico-comparate, segnalare le modalità con le quali un certo numero di guerre sono state prevenute e impedite. Non vedo nulla di tutto questo nei discorsi di coloro che dicono di voler preparare la pace.
Si vis pacem, para democratiam. Nelle relazioni internazionali una generalizzazione molto robusta e finora non smentita è che le democrazie non si fanno la guerra fra di loro. È vero che le democrazie sono entrate e continuano a entrare in guerra per una pluralità di motivi, ma l’avversario, il nemico è regolarmente, provatamente uno Stato, una Nazione non democratica. Qui fa la comparsa in tutta la sua pregnanza e lungimiranza la lezione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804). La sua tesi è che la pace perpetua è conseguibile ampliando l’area delle Repubbliche, termine usato allora per definire i paesi governati, non nell’oppressione e nella repressione, ma con il consenso, e procedendo alla costruzione di una Federazione di Repubbliche. L’Unione Europea ne è un ottimo esempio.
Qui si pone il problema di come preparare la democrazia. Troppo facile sostenere che non è possibile esportare la democrazia chiavi in mano. Piuttosto le democrazie e i democratici, soprattutto coloro che vogliono la pace, hanno il dovere politico e morale di favorire e incoraggiare tutti quei molti comportamenti che nei differenti paesi vanno nel senso della protezione e promozione dei diritti civili e politici, sostenendo coloro che se ne fanno portatori e difensori. La diplomazia, vigorosa, insistente e generosa, delle idee e delle risorse è il modo migliore per fare sbocciare i fiori democratici.
Ne concludo che chi vuole la pace deve operare per portare, piantare, innaffiare quei fiori democratici a cominciare dai paesi responsabili di operazioni militari più o meno speciali e affini. Hic et nunc.
Pubblicato il 30 giugno 2025 su PARADOXAforum