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La minaccia dei sovranisti alla libertà dell’Europa @DomaniGiornale

Tutti i governi hanno la facoltà di criticare i loro predecessori per quello che hanno fatto, non fatto, fatto male. Meglio quando le critiche sono precise e documentate, senza eccessiva acrimonia, costruttive. A maggior ragione la facoltà di critica può, entro (in)certi limiti, essere esercitata da chi, come Giorgia Meloni e alcuni suoi ministri, è stato fermamente all’opposizione, coerentemente non facendosi coinvolgere in accordi sottobanco (ma neanche sopra).

   Tutti i governi hanno l’obbligo politico di rispondere al loro elettorato sforzandosi di attuare le loro promesse elettorali nella maniera più fedele possibile, pur tenendo conto che in un governo di coalizione ciascuno dei contraenti deve rinunciare a qualcosa. Trasformare le promesse elettorali in politiche pubbliche è comunque operazione difficile, per la quale non è consentito ridefinire bellamente quelle promesse. Mi limito ad un esempio. Se la promessa elettorale è “presidenzialismo” la riforma chiamata “premierato” non è affatto una semplice ridefinizione. È una violazione.

   Tutti i governi, in particolare quelli che criticano l’instabilità politica dei predecessori e vogliono dimostrare di essere migliori perché capaci di garantire stabilità politica, debbono sapere delineare un programma per l’intero mandato quinquennale. Quel programma quinquennale sarà tanto più credibile e più significativo se conterrà una visione complessiva del paese che verrà.

   Gravata da non poche posizioni ideologiche, sensibile a non poche pulsioni corporative, legata a alcuni elementi del passato suo e dei suoi numi tutelari di una destra priva di credenziali democratiche, pur avendo proceduto a qualche ridefinizione di posizioni non più sostenibili, Giorgia Meloni non è finora riuscita a formulare neppure a grandi linee la visione di Italia che vorrebbe costruire. Per di più ai suoi ministri manca l’esperienza e talvolta anche la competenza, non per supplire, ma per dare quei contributi parziali, relativi ai loro settori specifici, ma molto importanti per svolgere il compito in maniera positiva. Forse il silenzio sull’Europa, che non ho condiviso, nel discorso del Presidente della Repubblica, era inteso a non interferire sulla campagna per l’elezione dell’europarlamento, a non toccare prerogative dell’attività di governo. Però, il ruolo dell’Italia in Europa riguarda il “sistema paese” e il suo futuro, non soltanto l’attività del governo, di qualsiasi governo.

   Sul terreno europeo si trovano le sfide, le contraddizioni, le opportunità del governo di destra. Non basterà sostenere che bisogna sconfiggere l’attuale maggioranza Popolari, Liberali e Verdi, Socialisti e Democratici, escludendo questi ultimi e sostituendoli con i Conservatori e Riformisti del cui raggruppamento Meloni è la Presidente. Non basterà, ma sarebbe un gesto apprezzabile, di notevole rilievo, prendere le distanze da Santiago Abascal (il capo di Vox) e dall’ingombrante Victor Orbán (capo del governo ungherese e costruttore di una sedicente, contraddittoria democrazia “illiberale”). Ai polacchi ci ha già pensato la maggioranza degli elettori. Non basterà usare l’Europa come alibi per quello che il governo italiano ha assunto l’impegno di fare oppure come capro espiatorio di scelte e politiche che richiedano sacrifici. Bisognerà dire quale e quanta Europa: federale/confederale (“delle nazioni”)/sovranista (che traduco: à la carte), l’eventuale nuova maggioranza ricomprendente l’Italia di Giorgia Meloni e dei suoi Fratelli (e alleati) mira a costruire, con quali politiche sociali, economiche, culturali e civili preferibili a quelle che hanno comunque fatto di questa Unione Europea, lo ripeto, il più grande spazio di diritti e di libertà mai esistito al mondo. Quello spazio che i sovranisti mirano a restringere, e Meloni? Hic Bruxelles hic salta.

Europa più che una cartina di tornasole. Hic Bruxelles hic salta La minaccia dei sovranisti alla libertà dell’Europa

Pubblicato il 3 gennaio 2024 su Domani

Make Europe Great Again (MEGA). Quel che dobbiamo fare per l’Europa, ovvero per noi @formichenews

Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale. La riflessione di Gianfranco Pasquino, europeo nato a Torino, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Accademico dei Lincei.

Non c’è soluzione specificamente italiana ai problemi che in qualche modo riguardano l’Unione Europea e gli altri Stati-membri e i loro cittadini. Chiamarsi fuori significa per l’Italia non soltanto dovere provvedere da sé, ma rendere più difficile, quasi impossibile prendere decisioni che per funzionare richiedono accordi e concordia europea. Due esempi sono sufficienti: l’immigrazione e la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, ma all’orizzonte si staglia l’adesione di nuovi stati a completamento geografico (e politico) dell’Unione Europea. Questa mia premessa è indispensabile per capire quanto alta è e possa diventare la posta in gioco dell’elezione del Parlamento europeo il 9 giugno 2024.

Anche se è giusto rammaricarsene, è inevitabile, comunque, impossibile da proibire, che i dirigenti dei partiti italiani pensino a sfruttare l’esito delle elezioni europee per rafforzare le loro posizioni in Italia. Assisteremo sicuramente ad un consistente travaso di voti e seggi dalla Lega, più che dimezzata, a Fratelli d’Italia che quadruplicherà i suoi voti e i suoi seggi. Lungi da me affermare che questo esito fortemente positivo per quei Fratelli servirà a poco o nulla se non incidesse sulla formazione della prossima maggioranza nel Parlamento europeo. Certo, dirigenti e eletti del Partito dei Conservatori e Riformisti, di cui Giorgia Meloni è presidente, non saranno davvero soddisfatti se mancheranno l’obiettivo di sostituire i Democratici e Socialisti dando vita ad una nuova maggioranza con Liberali, Verdi e Popolari. Poiché in democrazia, e l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà, di diritti, di democrazia mai esistito al mondo, i voti contano, anche la, al momento probabile, prosecuzione della maggioranza attuale sarà consapevole della necessità di tenere conto della nuova distribuzione di seggi. Ma i seggi senza idee e proposte non fanno cambiare le politiche, forse neppure le cariche come, per esempio, quella della Presidenza della Commissione.

Spetterà alla campagna elettorale andare oltre i temi nazionali e la conta nazionale, pur, gioco di parole, tenendone conto. Finora non si è visto praticamente nulla di concreto, nulla di nuovo, nulla di affascinante. Peggio. La discussione sulle candidature a capolista e in quante circoscrizioni di Giorgia Meloni e di Elly Schlein (e giù per li rami delle altre liste con la lodevole eccezione di Giuseppe Conte che si è chiamato fuori) segnala la persistenza di una fattispecie di malcostume, politico e etico. C’è incompatibilità fra la carica di europarlamentare e quella di parlamentare nazionale. Dunque, poiché, naturalmente, né Schlein né, meno che mai, Meloni rinuncerebbero alla carica nazionale, è troppo poco denunciare che la loro presenza come capolista è uno “specchietto per le allodole”. Si tratta di un vero e proprio inganno a danno degli elettori, inganno che tutti i commentatori/trici e tutti i media dovrebbero, non assecondare con toto nomi e probabili desistenze a favore di fedelissimi/e, ma denunciare ad alta voce misfatti e misfattiste.

  Poiché le decisioni europee nel prossimo parlamento si annunciano molto importanti, la composizione delle liste dovrebbe rispecchiare competenze e esperienze, non solo affidabilità personale e politica che, pure, è giusto che contino. La presenza di europarlamentari capaci è da considerarsi ancor più necessaria e significativa se la maggioranza sarà risicata. Talvolta, una argomentazione convincente riesce a spostare voti, a diventare vincente. Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione Europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale.

Pubblicato il 31 12 2023 su Formiche.net

Trovata una lettera di Giorgia Meloni a Emmanuel Macron @formichenews

Caro Emmanuel,

ho appreso dai giornali che intendi candidare Mario Draghi alla Presidenza della Commissione Europea. Ottima idea. Oltre ad essere un grande europeista, Draghi è italiano, quindi, almeno potenzialmente un patriota. Sono stata una ferma e coerente oppositrice del suo pasticciato governo. Lui ha cavallerescamente apprezzato e mi ha portato molta fortuna politica e elettorale. Non ho pensato di candidarlo a niente dopo averlo sentito dire, con una certa durezza al limite dell’irritazione: “Un lavoro sono in grado di trovarmelo da solo”. Immagino che tu gli abbia parlato de visu della tua pensata, pardon offerta, e che lui ti abbia autorizzato a farla circolare come ballon d’essai per vedere che effetto che fa. Allora, lasciami dire con nettezza che, in questa Unione Europea che io voglio cambiare e cambierò, ci sono delle procedure e delle regole da osservare. Noi, uomini e donne di destre, siamo molto rispettosi dell’esistente, delle tradizioni, delle gerarchie e, non da ultimo, dei risultati dei ludi cartacei, di nuovo, pardon, delle elezioni, in questo caso europee. Non ti nascondo che i miei Fratelli d’Italia sono fiduciosissimi in un ottimo esito: triplicare il numero dei nostri seggi parlamentari. Poi ci vedremo nel Consiglio dei capi di governo, naturalmente lo champagne lo porti tu, e discuteremo.

   Hai già convinto i presidenti dei Popolari e dei Socialisti e Progressisti a rinunciare ai loro Spitzenkandidaten? Oppure con qualche vostra trama sotterranea e oscura avete raggiunto un ennesimo accordo di spartizione come quelli sui quali noi, non da oggi, sosteniamo avete costruito un’Europa dei banchieri e dei burocrati? Immagino che farai un bellissimo rotondissimo discorso per argomentare la validità, impossibile da mettere in dubbio, del tuo candidato. Non avendo sponsor partitici e non essendosi Draghi mai, proprio mai sottoposto al vaglio elettorale, sosterrò con fermezza, con un filo d’irritazione nella mia voce, che è ora di cambiare e quindi di scegliere una candidatura che rappresenti il popolo europeo o, se preferite, i popoli europei. Comunque, a proposito di rispetto delle regole, sia chiaro che Draghi è in quota della Francia, vale a dire, tu, caro Emmanuel, avrai giocato la tua carta, il tuo asso, ovviamente, di denari, e non potrai nominare nessun commissario francese.

Tutto questo mi pare abbastanza prematuro, ma le mie considerazioni rimangono. Vedremo nella campagna elettorale quali temi emergeranno, uno dei quali, lo annuncio da subito, dovrà essere sicuramente prendere atto che il duetto Germania-Francia ha esaurito, oramai da qualche tempo, la sua carica propulsiva. É ora di sostituirlo con una governance pluralista nella quale l’Italia da me solidamente e stabilmente governata ambisce essere una componente centrale e lo e merita. La campagna elettorale servirà anche a Draghi, se lo vorrà, per esprimersi sulle priorità dell’Unione Europea prossima ventura. Mica si limiterà a rimandarci a quanto ha detto e fatto nel passato? Infine, noi, Fratelli d’Italia, auspichiamo l’emergere di una pluralità di candidature. Diremo di più e a voce molto più alta dopo il voto che ci premierà e ci darà maggior peso politico. Il commissario italiano lo sceglierò io, personalmente. Non sarà un ultrasettantenne e avrà il compito di rappresentare un’altra visione d’Europa.

Bons baisers da Roma

Giorgia

Gianfranco Pasquino
Professore emerito di Scienza politica, Accademico dei Lincei, europeista

Pubblicato il 15 dicembre 2023 su Formiche.net

L’ammuina di Meloni e le proposte da fare in UE @DomaniGiornale

“Non chiedetevi che cosa l’Unione Europea può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per l’Unione Europea”. Questa parafrasi di una delle più efficaci affermazioni contenute nel discorso inaugurale della Presidenza di John Kennedy non può evidentemente diventare patrimonio dei sovranisti, neppure dei più lungimiranti fra loro (no, non rispondo alla richiesta di precisazioni e approfondimenti). Può, tuttavia, oppure, proprio per questo, essere utilizzata per valutare e migliorare le posizioni prese dagli Stati-membri dell’Unione per quel che riguarda il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e il Patto di Stabilità e Crescita.

    Del primo, la possibilità per ciascuno Stato-membro di avere accesso a fondi europei in caso di necessità, non sono in discussione le clausole specifiche, che non è possibile cambiare, ma l’adesione dell’Italia, indispensabile a consentirne all’occorrenza a richiesta l’utilizzo a ciascuno e tutti gli altri Stati, dunque, anche Ungheria e Polonia, quando era sovranista. Benvenuto al governo guidato dall’europeista Donald Tusk che segnala l’esistenza di molti ottimi anticorpi nella democrazia polacca. Il Patto di Stabilità e Crescita ha molta più rilevanza per le politiche economiche e sociali degli Stati-membri nei prossimi cinque anni. Riguarda il tetto del debito pubblico da considerarsi accettabile e le modalità previste/formulate per un rientro più o meno graduale, e il deficit tollerabile, comunque da ridursi in particolare, ma non solo, per l’Italia.

   Non è chiaro se la Presidente del Consiglio italiano Meloni e il Ministro dell’Economia Giorgetti stiano concordemente utilizzando la ratifica del MES come strumento di pressione per ottenere migliori condizioni per il Patto di Stabilità. Già altri Stati-membri, in particolare i paesi del gruppo Visegrad, hanno proceduto di tanto in tanto ad applicare la strategia dello scambio, talvolta, con successo. Fa certamente parte del gioco agire, non troppo spesso, seguendo i dettami del “do ut des”. Forse, però, gli Stati-membri dell’Unione, non soltanto quelli economicamente più forti, nonostante le sue difficoltà attuali la Germania rimane nel club, ma anche quelli che definiamo più frugali, non gradiscono e non apprezzano queste “ammuine” se non vengono accompagnate da proposte alternative, migliorative, in special modo, credibili. La credibilità di queste proposte dipende in maniera significativa dalla loro provenienza, vale a dire se chi le fa ha un passato di impegni presi e rispettati, adempiuti, e dalla loro per qualità. Le proposte debbono anche, per tornare alla frase di apertura, avere di mira il miglioramento di tutta l’Unione Europea, contribuendo alla sua stabilità, alla sua crescita, ad una sua unificazione più stretta. Quest’ultimo, più ambizioso obiettivo certo non può essere il progetto dei sovranisti tranne di quelli che si stanno pentendo, pensando se e come fare outing nel momento più difficile e delicato ovvero nel corso della già iniziata campagna per l’elezione del Parlamento europeo.

    Le opposizioni italiane avrebbero l’opportunità di sfruttare la contingenza favorevole impegnandosi a chiarificare per gli elettori da raggiungere e conquistare quanto alcune proposte, condivisione e azione, contribuendo al buon funzionamento dell’Unione Europeo produrrebbero ricadute positive e rapide sui singoli. Sappiamo, però, che, a causa di molte sue insuperate ambiguità, il Movimento Cinque Stelle non è in grado di dare un contributo efficace a questa strategia. Giusto allora mettere in evidenza l’inconcludenza e la farraginosità della strategia governativa (e delle affermazioni, prese di distanza minimali di Forza Italia), ma impossibile non vedere la trave nell’occhio di una parte delle opposizioni. Una buona politica accetta la sfida e nella campagna elettorale darà il massimo per spiegare agli italiani che quel che vuole fare per l’Unione Europea, anche in termini di proposte operative, e come e quanto servirà a migliorare le condizioni di vita di tutti. Nel passato, spesso è stato proprio così.  

Pubblicato il 12 dicembre 2023 su Domani

Perché le ricette nazionaliste sono un problema @DomaniGiornale

Il sovranismo è il pur lecito desiderio di tornare al passato. Di quel passato, fatto di “nazioni” sovrane e indipendenti, si ricordano e esaltano alcune poche luci, ma deliberatamente e colpevolmente si trascurano le molte ombre, le più grandi delle quali sono due guerre mondiali. Comunque, nessun passato, neppure il più glorioso, può essere fatto rivivere. La scommessa sul recupero delle sovranità nazionali appare azzardata e pericolosa. Per il costo dell’azzardo i sovranisti dovrebbero informarsi dai Brexiters i quali, peraltro, hanno nel loro passato un impero e nel presente una rete di sicurezza nel Commonwealth. Per la pericolosità, quasi tutti i problemi che gli Stati-membri dell’Unione Europea debbono affrontare non troverebbero una soluzione migliore, forse nessuna soluzione, nelle capitali dei sovranisti.

   Giunta è l’ora di chiedere ai sovranisti se bloccando la libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone e tornando alle frontiere delle patrie staremmo tutti meglio o no. La loro la riposta è che l’Unione Europea non ha finora dimostrato di sapere controllare una delle più “minacciose” sfide dei nostri tempi (e di quelli che verranno): l’immigrazione. Però, chiudere le frontiere, fare blocchi navali e ricorrere a altre modalità di esclusione sono rimedi proposti senza nessuna certezza che funzionino, senza nessuna probabilità che vengano concretamente, tecnicamente, praticamente attuati. E poi quali sarebbero le implicazioni per tutti gli Stati sovranisti che, come l’Italia, hanno assoluto bisogno di manodopera non soltanto stagionale? Il controllo dei flussi, come dimostrano i bandi annuali, sembra, per l’appunto, anno dopo anno, inadeguato a soddisfare le richieste dei datori di lavoro e le domande dei potenziali lavoratori.

   Andando al cuore di quella che è stata, da parte degli Stati-membri, non una perdita, ma una cessione consapevole di sovranità accompagnata dalla condivisione a livello più elevato, chi dei sovranisti ha l’ardire di sostenere che sarebbe in grado di garantire la sicurezza nazionale meglio di una Unione Europea anche se non ancora dotata di tutti gli strumenti per la difesa dei (sacri) confini? Se l’Ucraina avesse già fatto parte dell’Unione Europea, la Russia l’avrebbe comunque aggredita? E quanti dei paesi ex-comunisti dell’Europa centro-orientale hanno voluto l’adesione anche perseguendo la loro sicurezza nazionale? Gli Stati dei Balcani non pensano, non credono che la loro inclusione nell’Unione impedirà il risorgere di conflitti devastanti?

   L’Unione Europea è il più grande spazio di diritti e di democrazia, di non discriminazione di genere, di razza, di religione mai esistito al mondo. Il grande allargamento del 2004, dieci nuovi Stati membri, certamente rallentò il processo di integrazione politica, ma è ampiamente giustificabile con la motivazione di sostenere quelle democrazie nuove e prive di esperienza. Troppi dei sovranisti, anche fra quelli al governo, Ungheria e Slovacchia, dando ottimisticamente per scontato, che l’europeista Donald Tusk riuscirà a formare il prossimo governo polacco, mostrano la tendenza a non attenersi ai requisiti essenziali dello stato di diritto, meglio in inglese: rule of law, governo della legge. L’autonomia della magistratura e la libertà di informazione, di stampa e molto più sono troppo spesso sfidate dai sovranisti al governo, ma protette e promosse dalla Commissione Europea e, in special modo, dalla Corte Europea di Giustizia.

  Inevitabilmente, i sovranisti opereranno in maniera egoista perseguendo e favorendo interessi nazionali. Inevitabilmente, ne seguiranno conflitti fra loro che, sottotraccia, sono già visibili. Chi garantisce che quei conflitti verrebbero/verranno ricomposti senza sprechi, senza scontri, pacificamente in assenza di una autorità superiore, affidabile, con regole e procedure condivisibili perché previamente condivise? Il sovranismo è un passo indietro verso una situazione di imprevedibile e costosa conflittualità e verso un passato che la stragrande maggioranza degli europei ha voluto, e finora saputo, con successo superare.

Pubblicato il 6 dicembre 2023 su Domani

I patti bilaterali sui migranti non servono a nulla @DomaniGiornale

L’accordo raggiunto fra Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama per la costruzione di due Centri di Permanenza per i Rimpatri gestiti dal governo italiano, ma localizzati in Albania, pur molto diverso da quanto stabilito tempo fa in materia di controllo dell’immigrazione con il presidente della Tunisia Kaïs Saïd, risponde alla stessa logica. Troppo facile, ma indispensabile sottolineare che una parte non piccola dell’attivismo della Presidente del Consiglio italiana è deliberatamente orientata a costruirne, mantenerne, esaltarne la figura e il ruolo di donna politica molto presente, laboriosa, rispettata sulla scena internazionale, capace di fare eccellere l’Italia in tutti i consessi che contano, ma soprattutto nei rapporti bilaterali. Questo aspetto della logica dell’attivismo internazionale sembra anche volere suggerire che all’estero hanno una valutazione del governo Meloni di gran lunga superiore a quella, pure nient’affatto in calo, in patria, e soprattutto molto diversa dalle critiche, stridenti e non particolarmente né efficaci né originali, delle opposizioni. Però, l’attivismo internazionale è dispendioso in termini di tempo e di energie e per lo più non in vetta alle preoccupazioni degli italiani tranne forse proprio per quel che riguarda l’immigrazione.

L’altra componente della logica dell’attivismo internazionale meloniano è complessa, ma decifrabile. Per molti studiosi e operatori, forse anche per la stessa Meloni, l’immigrazione è un problema non soltanto destinato a durare, ma soprattutto non suscettibile di nessuna soluzione ad opera di un solo Stato, per quanto forte e ben governato. La soluzione, difficilissima, che richiederà adattamenti, innovazione, grande concordia, collaborazione convinta e prolungata, non può venire che da decisioni collettive, prese e attuate nella e dalla Unione Europea. Esclusivamente nel contesto di Stati dotati di risorse e di capacità, ma anche consapevoli che hanno già oggi e avranno ancor più domani bisogno di lavoratori da trasformare in cittadini integrandoli nel tessuto economico, sociale, culturale delle rispettive nazioni, si può legittimamente nutrire l’aspettativa di porre sotto controllo, se non addirittura di orientare al meglio flussi migratori epocali, che non cesseranno.

Probabilmente, sia perché conosce preferenze e posizioni dei suoi amici (?) sovranisti, a partire dal più protervo di loro l’ungherese Viktor Orbán, sia perché crede poco alle capacità dell’Unione di produrre una soluzione che accontenti tutti sia poiché vuole dimostrare di essere la prima della classe sia, da ultimo, ma niente affatto infimo, in quanto è alla ricerca di un grande tema di cui lei sia l’interprete più originale e più di successo, Meloni mira a dimostrare che esiste una soluzione nazionale e che lei passo dopo passo accordo dopo accordo bilaterale e bilaterale l’ha trovata quella soluzione e la pone in pratica, se necessario in splendido isolamento, quando possibile senza escludere, capitasse mai, limitate convergenze con Bruxelles. Nel frattempo, riserva alla Commissione una pluralità di rimproveri, in qualche misura appropriati, ma il tema migrazione è di competenza degli Stati nel Consiglio. Giusto che le opposizioni facciano notare che di risultati positivi dall’accordo con la Tunisia non se ne siano visti. Altrettanto opportuno individuare tutte le criticità tecniche e di gestione dei Cpr, ma, in special modo quelle riguardanti gli elementari diritti civili dei migranti, spesso abbondantemente non rispettati o palesemente violati. Al proposito, talvolta Guantanámo è un termine di riferimento non particolarmente polemico né assurdo. In assenza di un pacchetto di soluzioni alternative praticabili in tempi necessariamente brevi, Meloni sta sull’onda alta dei sondaggi sulla sua personale popolarità e si propone di veleggiare verso il Parlamento di Bruxelles con voti e seggi quantomeno quadruplicati.

Pubblicato il 8 novembre 2023 su Domani

Le democrazie e la lezione della Polonia @DomaniGiornale

L’esito delle elezioni in Polonia, anzitutto sfavorevole al PIS, il partito Diritto e Giustizia, al governo da non pochi anni, in secondo luogo, premiante in termini di voti per Coalizione Civica, l’opposizione progressista pro-Europa, contiene molti insegnamenti. Il primo insegnamento, poiché la partecipazione elettorale è cresciuta significativamente giungendo ad un invidiabile 73 cento, dice che quando cittadini e cittadine percepiscono, anche grazie alla campagna elettorale, che la posta in gioco è alta, decidono di dedicare parte del loro tempo e delle loro energie per andare alle urne, per farsi contare e contare. Ottimo insegnamento democratico. Ne consegue anche che l’importante affermazione di Coalizione civica dipende dall’essere riuscita a caratterizzarsi come schieramento a favore dell’Unione Europea, quella che c’è e che può essere migliorata, contro le politiche di impronta sovranista del PIS. Vero e sincero europeista di lungo e coerente corso, Donald Tusk si è battuto anche in nome dello Stato di diritto, della rule of law, e contro le ripetute violazioni dei principi e dei valori che stanno alla base degli Stati democratici e della stessa Unione Europea. Una parte decisiva dell’elettorato polacco ha indicato con il suo voto che ritiene importantissimi proprio quei principi e quei valori che stanno in totale contraddizione con l’immagine che vuole dare di sé il Partito del Diritto e della Giustizia e con i contenuti delle sue politiche ripetutamente stigmatizzati dal Parlamento europeo e sottoposti a sanzioni dalla Commissione Europea.

   A essere comunque sconfitto non è soltanto il sovranismo e il suo esercizio, ma gli elementi di più o meno sottile autoritarismo che permeano l’ideologia e la pratica politica del PIS e dei suoi governanti e dirigenti. Rimane da temere quanto quei governanti e dirigenti intenderanno fare per non cedere il potere politico alla coalizione che sta formandosi a sostegno del probabile governo guidato da Tusk.

La lezione “polacca” di maggiore rilevanza riguarda la democrazia, le definizioni del suo stato attuale, le analisi che si concentrano sulla sua, non meglio precisata e troppo spesso ripetitivamente, quasi compiaciutamente, denunciata, crisi, le sue prospettive future, qui in Europa e altrove. A chi ha gli strumenti per ascoltare e capire, i risultati polacchi mandano il messaggio che, fintantoché esistono le condizioni minime, di base per una competizione politico-elettorale equa, i cittadini hanno la possibilità di cambiare idee, voto, governi. In Polonia, non era in crisi la democrazia in quanto tale, come ideale. Era sotto attacco da parte di alcune elite, comprese quelle religiose cattoliche, il funzionamento delle istituzioni, a partire dall’ istituzione giudiziaria e dal rapporto governo/parlamento. Non esisteva una crisi generalizzata, tutto coinvolgente. Esistevano problemi di funzionamento e di funzionalità. La situazione appariva, ed effettivamente è, seria e delicata poiché quei problemi, in piccola misura fisiologici, venivano talvolta sfruttati e manipolati talvolta deliberatamente creati dalle elite politiche sovraniste appoggiate da elite economiche e religiose.

La democrazia si conferma il memo peggiore dei modelli di governo realmente esistenti poiché consente a tutti i protagonisti, popolo (sì, scelgo proprio questo termine che è la traduzione di demos) e elite, di imparare. Quando toccano il fondo i modelli autoritari e totalitari di governo si infrangono in misura diversa e variabile. Le democrazie rimbalzano.

Pubblicato il 18 ottobre 2023 su Domani

Un anno non basta. La versione di Pasquino @formichenews

A un anno dalle ultime elezioni politiche, il prof. Pasquino passa in rassegna quanto messo in campo dal governo. Rapporti con l’Europa, questione migranti, proposte economiche. Un bilancio che può migliorare, secondo l’accademico dei Lincei

Non è l’anniversario di un anno di governo, ma quello di una vittoria annunciata, magari non con tanta chiarezza e non con un vincitore, chiedo scusa, una vincitrice tanto consapevole delle difficoltà di governare quanto convinta delle sue capacità, della sua superiorità sui competitors (uno dei quali, il capitano Salvini, si affanna pericolosamente, per sé e per la tenuta e operatività del governo).

Un più credibile e affidabile bilancio sarebbe possibile se Giorgia Meloni stessa estraesse dal suo programma quelle che lei riteneva/ritiene priorità. Arbitrariamente, lo farò io. Primo, “in Europa per cambiare tutto”, bilancio: non proprio così. In Europa cercando di mostrare competenza e affidabilità, ma al tempo stesso senza riuscire a comandare al cuore che continua a battere per Orbán, per Vox e per i polacchi. In Europa con Ursula von der Leyen, ma disposta a drasticamente ridefinire la maggioranza che ora la sostiene. In Europa, ma senza riuscire ad attuare il PNRR, lasciando riemergere la realtà di un’Italia che non riesce mai a rispettare fino in fondo gli impegni presi. Voto tra il 5 e il 6.

Immigrazione: nessuna delle ricette della destra funziona, ma di ricette davvero funzionanti confesso di non vederne … tranne la mia!: provando correggendo riprovando, mai con intenti punitivi che, invece, stanno nel profondo delle viscere di troppi esponenti del centro-destra. Sarò, però, generoso: espulsione dei violenti, no, non fra i migranti, ma fra gli esponenti del centro-destra, loro rieducazione e rinvio al settembre dell’anno prossimo per il Ministro degli Interni, i suoi collaboratori, i suoi consulenti.

Economia: le vacche grasse non abitano più qui, ma regalie e esenzioni, tasse basse e piatte, assenza di una concezione di ripresa della crescita dicono che neanche il più bravo, il Ministro Giorgetti, presiederà al miracolo economico prossimo venturo, concepibile solo se anche nell’Unione Europea faranno la loro comparsa solutori più che abili. Condivisione e compartecipazione sono le parole chiave che il centro-destra non riesce a declinare preferendo sussurrare sovranità e patria. Il patriottismo economico è quasi sinonimo di stagnazione.

Istituzioni: qui l’abbandono della proposta portante è clamoroso. Se è il (semi-)presidenzialismo quello che sta nel programma come modello di governo per garantire la stabilità governativa, ma non l’efficacia decisionale, che dipende dalla qualità dei decisori, il premierato è un tradimento programmatico, peggio poi se fosse una caramella data ad Italia Viva per avere un mucchiettino di voti, pur non sufficienti ad evitare il referendum. Zero.

Sondaggi e previsioni: le mie valutazioni sobrie e informate contano (sic), ma, giustamente, molto di più conta il parere del popolo, oops, degli elettori ai quali, non senza criticarli e senza cercare di fare loro cambiare opinione, mi inchino democraticamente. La Presidente del Consiglio continua ad avere un alto, maggioritario gradimento. Il suo partito è cresciuto passando dal 25 per cento di un anno fa a intenzioni di voto intorno al 30 per cento. Questo conta. Gli elettori promuovono Giorgia. Però, si può fare di più, di-verso, di meglio (anche come stile e come rilettura del passato). Studiare.   

Pubblicato il 24 settembre 2023 su Formiche.net

Insensato gestire le migrazioni come fossero un’emergenza @DomaniGiornale

Soltanto in parte è lecito e utile definire l’immigrazione una emergenza. Infatti, il fenomeno è strutturale, destinato a durare per un periodo di tempo indefinito. Uomini, donne e bambini continueranno a lasciare l’Africa, il Medio-Oriente, Pakistan e Bangladesh incessantemente. Nei loro paesi ci sono governi autoritari e repressivi, spesso aiutati e sostenuti dagli occidentali, ma anche dai russi e dai cinesi. Nei loro paesi non ci sono opportunità di lavoro, di istruzione, di una vita decente. Se ne vanno tutti coloro che hanno qualche conoscenza, qualche ambizione, qualche volontà di miglioramento. Così facendo impoveriscono ulteriormente il loro paese e indeboliscono le opposizioni agli autoritarismi. Nessuno dei governi occidentali che, trattando con quei regimi, li puntella, può incolpare chi se ne va. Nessuna delle opinioni pubbliche che accettano come fatti loro quei regimi e quei dirigenti oppressivi può girare le spalle ai migranti per fame, anche di libertà.

   All’emergenza vera, cioè il grande e costante afflusso, bisogna rispondere, ma non in modo emergenziale, non con hot spot, confinamenti, trasferimenti. La risposta ovviamente dell’intera Unione Europea deve essere strutturale poiché quei migranti nell’Unione sono venuti, nell’Unione vogliono restare, qui vogliono che vivano i loro discendenti. Sbandati e espulsi molti cercheranno di tornare meglio attrezzati. La risposta strutturale è comprensibilmente molto costosa e esigente. Tutte le procedure di identificazione vanno espletate al contempo acquisendo le informazioni essenziali sulla personalità, sugli obiettivi e sulle preferenze dei migranti. Avvilente è vedere centinaia di uomini e donne giovani in grado di lavorare e studiare abbandonati per lunghi mesi a se stessi in baracche con nessuna attività da svolgere, nessun compito cui adempiere. Molti di loro non sono manovalanza, semplici raccoglitori di frutta e pomodori, ma hanno conoscenze e capacità di vario tipo acquisite e esercitate nei rispettivi paesi di provenienza. Molti sono disposti a imparare, a guadagnarsi la vita.

   Nell’emergenza del quotidiano è possibile collocare due risposte strutturali: affidare lavori da loro eseguibili, insegnare la lingua a grandi e piccoli. L’inizio sarà molto difficile, ma di gran lunga preferibile e persino meno costo della detenzione nell’ozio forzato. Non è un compito effettuabile dalle sole strutture statuali, ma può essere affidato con lungimiranza, sostegno, controllo a una pluralità di associazioni private. Quel pluralismo di cui le democrazie occidentali giustamente si vantano è in grado di offrire molte soluzioni, non immediate e miracolose, ma costruite con pazienza e efficacia, anche, se necessario, rivedute e corrette. Una volta “ricollocati”, per lo più, nei limiti, numerici e di opportunità, del possibile, l’integrazione che nasce dal lavoro e dalla scuola dovrà essere perseguita con un monitoraggio costante che premi coloro che più s’impegnano e che punisca, fino all’espulsione, degli inadempienti.

   Le informazioni circolano e raggiungeranno anche parenti, amici, conoscenti che intrattenessero a loro volta l’aspirazione a partire. In tempi relativamente brevi l’impatto economico dei migranti nei paesi di maggiore/migliore accoglienza si farà positivamente sentire. È immaginabile che le opinioni pubbliche si dividano, quindi è auspicabile che, anche nel loro interesse, i governi unitamente all’Unione Europea operino al meglio, senza conflitti egoistici e particolaristici, anche fornendo periodicamente i dati più significativi. Chi pensa che le migrazioni sono una sfida strutturale e culturale ha l’obbligo di affrontarla non (solo) con decreti congiunturali e emergenziali, come sta facendo il centro-destra italiano, ma con una visione. Forse quella che ho delineato, forse con visioni alternative che, però, le opposizioni italiane non stanno convincentemente delineando. Prima si inizia meglio sarà.

Pubblicato il 20 settembre 2023 su Domani

Le prossime europee e la vera posta in gioco @DomaniGiornale

Qualcuno ha scritto che l’Europa è il nostro destino. Altri sostengono che l’Europa è un sogno, un’utopia magari in the making, in corso d’opera. Personalmente, sto con Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni e leggo nel Manifesto di Ventotene un progetto politico. Quanto l’attuale Unione Europea costituisca la realizzazione di quel progetto può certamente essere oggetto di discussione. Facile è sostenere che Spinelli, esigente e intransigente, avrebbe molto da criticare. Tuttavia, non vorrebbe affatto tornare indietro. Si impegnerebbe per indicare come andare avanti, come approfondire e accelerare il processo di unificazione in senso federale, non come rallentarlo e deviarlo secondo mal congegnate ricette sovraniste.

   Ascolteremo oggi quale visione propone la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e quale ambizione la guida. Qualcosa, anzi, molto possiamo già dire sul pernicioso impasto di arroganza, ignoranza e provincialismo di cui sono diversamente portatori dirigenti e esponenti di Fratelli d’Italia e Lega. L’arroganza, formulata come una variante del motto trumpiano, si manifesta all’insegna dell’obiettivo Make Italy Great Again, come se l’Italia da sola fosse in grado di dettare i destini dell’Europa e non, invece, avesse assoluto bisogno di Europa a cominciare dagli ingenti fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In una (in)certa misura l’arroganza della leader del governo di centro-destra si esprime anche nel perseguimento, pure legittimo, dell’obiettivo di conquistare una maggioranza che includa i Conservatori e Riformisti a scapito dei Democratici e Socialisti.

   L’ignoranza si è espressa al suo punto, finora, più elevato nella critica al Commissario Paolo Gentiloni e nella richiesta che “giochi” indossando la maglia della sua nazionale. Signorilmente, Gentiloni non ha replicato, ma qualcuno ha ricordato il principio che presiede alle attività della Commissione e le informa: “i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo”. Per intenderci meglio, tutti i commissari sono tenuti a spogliarsi della maglia della loro nazionale e a indossare la maglia europea con la quale operare nella convinzione, aggiungo, che il conseguimento degli obiettivi gioverà all’Unione e si estenderà agli Stati membri. Naturalmente, il come e il quanto di questa estensione positiva dipendono anche dalle capacità dei governanti nazionali di tradurne l’attuazione sapendo costruire coalizioni con altri Stati-membri. Qui si inserisce il provincialismo dei governanti del centro-destra italiano.

   Vanno alla ricerca dei partiti loro affini, lo spagnolo Vox, il Rassemblement National della francese Marine Le Pen, il partito dell’ungherese Orbán, Giustizia e Libertà dei governanti polacchi invece di costruire consenso sulle tematiche che più interessano e riguardano l’Italia. Non tengono neanche conto della contraddizione, già denunciata e spesso visibile che, nella misura in cui vogliono fare grande il loro paese, i sovranisti riescono a trovare accordi non su cosa fare, ma su cosa respingere. La linea politica divisoria futura, sta scritto nel Manifesto di Ventotene, non passerà più fra destra e sinistra, ma fra, da un lato, gli europeisti e, dall’altro, coloro che si esprimono e agiscono contro l’unificazione politica federale dell’Europa. La campagna, già iniziata, per l’elezione del Parlamento europeo, richiede che le espressioni di, talvolta sguaiato, sovranismo vengano contrastate da un europeismo convinto ancorché non acritico. Dall’Europa che c’è partiamo per andare avanti. Gli egoismi nazionali portano a guerre di ogni tipo, commerciali e culturali incluse. L’Unione Europea è nel solco della federazione kantiana fra “repubbliche”. Gli europeisti debbono agire per portare a compimento il progetto politico democratico di generazioni di europei. 

Pubblicato il 13 settembre 2023 su Domani