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La passerella in festa. Pasquino detta l’agenda al Pd @formichenews

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, individua tre-quattro temi da discutere in chiave di programma politico e di impegno pedagogico alla Festa dell’Unità che si terrà a Bologna dal 26 agosto. Ma primo tra tutti: ridurre al minimo le passerelle dei capi e dei sottocapi correnti

Era da moltissimi anni, trentacinque?, che non ricevevo un invito tanto gratificante. Gli organizzatori della Festa dell’Unità che si aprirà a Bologna il 26 agosto mi hanno chiesto di individuare tre-quattro temi da discutere in chiave di programma politico e di impegno pedagogico di un partito a vocazione governativa –quella maggioritaria è andata perduta tempo fa. Rispondendo positivamente ho subito richiesto che siano ridotte al minimo le passarelle dei capi e dei sottocapi correnti.

Al primo posto dei temi ho collocato una discussione sulla Presidenza della Repubblica italiana: che cosa è stata e che cosa dovrebbe essere, con qualche candidato, per esempio, Casini, Veltroni e Franceschini, ma anche Casellati, chiamati a fare non tanto l’identikit, sarebbero sufficienti le loro biografie politiche, quanto l’elenco dei problemi che la prossima Presidenza dovrà inevitabilmente affrontare. Il secondo posto se lo sono guadagnato giustamente le afghane alle quali bisogna non solo offrire scuse e ospitalità, ma sostegno concreto, robusto, vibrante, incessante di prospettive di vita. Chiamare in causa l’Europa è indispensabile, esplorare come un partito progressista può formulare politiche nazionali è imperativo. Ne segue logicamente il tema della cittadinanza.

   La Festa dell’Unità sarà il luogo dove ministri e esperti definiranno esattamente le differenze fra ius soli e ius culturae, diranno come gli altri Stati-membri dell’Unione Europea si comportano in materia, spiegheranno quale Italia e quali italiani non solo immaginano, ma vorrebbero vedere nei prossimi vent’anni: meno, ma migliori? E allora, poiché finalmente tutti, insomma, quasi, hanno imparato che è l’istruzione la leva sulla quale poggiare per produrre crescita culturale e economica, il Ministero dell’Istruzione organizzerà tre o quattro incontri sulla qualità dell’istruzione a tutti i livelli, sulla necessità della valutazione di docenti e studenti, di corsi e istituti, di esiti, inoltrandosi nella selva, densissima, ma tutt’altro che oscura, intitolata “Premiare il merito”. Last but not least, ho chiesto che si tengano alcune vere e proprie lezioni sulla scienza: cos’è il metodo scientifico, come si fanno le ricerche, come si valutano e si aggiornano le conoscenze acquisite.

La Festa dell’Unità è il luogo più appropriato dove mettere a confronto i politici, i decision-makers, i portatori di conoscenze e di competenze. Gli organizzatori mi hanno risposto che prenderanno in seria considerazione tutte le mie proposte chiedendomi un supplemento di istruttoria relativo alle presentazione dei libri di Letta e di Renzi (ho suggerito di farne una congiunta) e i nomi delle giornaliste e dei giornalisti “amici”. Ne è seguito uno scambio un po’ acceso poiché sono un sostenitore di interviste non sdraiate. Ho vinto soltanto su un punto: non inviteranno nessuno di Formiche. Mi hanno anche detto che la mia presenza non è necessaria. Non debbo scomodarmi. Andrà tutto bene; anzi, meglio. La passerella, pardon, la Politica, al posto di comando.  

Pubblicato il 24 agosto 2021 su Formiche.net

La gatta di Letta @pdnetwork

Alla fine Enrico Letta ce l’ha fatta: non è stato eletto, ma solo per poco, all’unanimità. Nel voto segreto a distanza hanno fatto la loro comparsa quattro astenuti e addirittura due contrari. Il nuovo segretario del Partito Democratico è sicuramente consapevole che il suo discorso e i suoi propositi trovano un’opposizione più ampia che, nelle peggiori tradizioni dei democratici, ha preferito nascondersi. Fatti i riconoscimenti necessari al difficile compito che il PD ha adempiuto in questi anni, Letta ha messo la parola fine sulla utopistica “vocazione maggioritaria” affermata da Veltroni e non abbandonata dai successori. Ha detto chiaramente che la politica del partito dovrà essere quella di costruire coalizioni anche con Conte e i Cinque Stelle, ma che escludano Salvini e Meloni. In una democrazia da lui definita malata anche per avere avuto 7 governi in dieci anni, ma, aggiungo io, tutta la storia della Italia repubblicana è malaticcia quanto all’instabilità dei suoi governi, bisogna mirare a una buona legge elettorale e al voto di sfiducia costruttiva che in Germania ha dato esiti altamente apprezzabili. Bisogna anche, senza imporre vincoli di mandato, rendere il trasformismo parlamentare molto difficile e costoso per chi lo pratica.

   I cenni al partito da (ri)costruire sono stati pochi, ma precisi, però, a mio modo di vedere, non sufficienti a fare pensare che i capi corrente avranno qualcosa da temere. Quasi tutto il discorso di accettazione della carica ha ruotato intorno ad alcune problematiche di governo, l’Italia che Letta vorrebbe, e agli esempi da seguire, a coloro ai quali deve la sua formazione e impostazione politica. Sottolineata l’importanza del ruolo e dei compiti assolti dalle donne e la necessità del riequilibrio di genere, Letta ha preso a nome del partito che guiderà due importanti impegni. Primo, estendere il voto ai sedicenni e, secondo, fare approvare la legge sullo ius soli, decisiva per garantire la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia, legge alla quale molto improvvidamente il suo, mai menzionato, successore alla Presidenza del Consiglio rinunciò.

   Quanto a coloro che gli hanno dato gli insegnamenti politici più preziosi ha citato sia Romano Prodi, implicitamente dichiarando l’apprezzamento per coalizioni larghe e coinvolgenti, sia Beniamino Andreatta, suo vero mentore che gli aprì la strada ministeriale. Consapevolmente, quindi, Letta si è collocato nel solco della sinistra democristiana, dei cattolici democratici. Stile e contenuto del suo discorso, ma anche la sua stessa carriera politica, compresa la scelta di andarsene e di ritornare, fanno di Enrico Letta un progressista, senza contraddizioni, moderato. Non concluderò dicendo che la strada del PD rimane in salita e neppure che Letta è il segretario dell’ultima spiaggia. Dirò, invece, che Letta si è preso una brutta gatta da pelare. Per sua fortuna, quella gatta la conosce e sa anche che nessuno dei suoi sette predecessori è riuscito a pelarla. 

Pubblicato AGL il 15 marzo 2021

Zingaretti e il Pd araba fenice. L’analisi di Pasquino @formichenews

Il Pd, come scriveva Antonio Floridia, è un “partito sbagliato”. Da Veltroni a Zingaretti, non sono mai mancate appassionanti discussioni su nomi e ruoli da dividersi. Sono mancate invece le idee, senza le quali è difficile andare avanti di un passo. Il commento di Gianfranco Pasquino

Mi sono sempre fatto una certa idea del Partito Democratico: un partito sbagliato (è anche il titolo dell’eccellente analisi scritta da Antonio Floridia e pubblicata da Castelvecchi nel 2019). Sbagliato fin dall’inizio quando, nell’estate del 2007, candidato alla guida del neo-nato PD, Walter Veltroni fece una “entusiasmante” e vittoriosa cavalcata dal Lingotto a Roma. Nei suoi molti appassionati discorsi Veltroni riuscì a non dire mai che tipo di partito voleva organizzare e guidare preferendo stilare il programma del suo governo prossimo venturo. Destabilizzò Prodi che, infatti, cadde qualche mese dopo. Da allora, tutte le volte, oramai molte, cinque, che si tratta di eleggere un segretario, i mass media si accaniscono a riportare nomi e persone, aneddoti e storielle, senza chiedere ai candidati che partito cercheranno di costruire.

   Zingaretti se n’è andato proprio o essenzialmente perché il dibattito dentro e intorno al partito era ridotto ad uno stillicidio, “martellamento” di critiche personalistiche con nessuna attenzione a che cosa deve essere un partito democratico in questa fase e a che cosa deve diventare. Purtroppo il (non) nuovo dibattito parte dai nomi, da chi è in pole position e da chi viene candidato/a contro i front runners (uso i termini giornalistici anche se non mi aggradano). Delle persone sappiamo molto. Sappiamo abbastanza anche delle loro idee politiche spesso definite dall’essere “vicini a …”. Qualcuno è vice-segretario; qualcun altro ha vinto le elezioni contro Salvini (ma a me non risulta); qualcuna ha una storia ministeriale e il genere “giusto”. A nessuno si chiede quale è la loro idea di partito e anche quali idee (no ideologia, è troppo) vorrebbero porre a (ri)fondamento di un partito democratico e progressista (posso scriverlo? e audacemente persino auspicarlo?) non solo in questa fase e non solo in Europa.

   Un partito che è nato sulla avvenuta e certificata fine delle ideologie, ma anche sull’evanescenza da nessuno contrastata delle molto indebolite culture politiche dell’Italia repubblicana, non ha mai pensato che al populismo e al sovranismo, ma anche alla “tecnocrazia” (scusate se è troppo) bisogna contrappore una visione ideale, di idee. A suo, troppo breve e troppo quieto, tempo, Bersani annunciò nella campagna per le primarie che bisognava “dare un senso a questa storia”, che era la storia del PCI, mai socialdemocratico: una storia senza futuro. Bisogna, invece, indicare la strada ad un partito che voglia costruire, anzitutto, il suo futuro, poi quello del paese: 2050. Bisogna indicarlo a coloro ai quali si chiede l’impegno a trasformare profondamente il PD attualmente esistente, aprendo effettivamente il reclutamento (le primarie, per evitare le quali a Bologna si svolge un deplorevole balletto, possono servire efficacemente anche a questo scopo), poi a quelli che hanno qualche capacità di elaborazione di idee: un’idea di Europa, un’idea di giustizia sociale, un’idea di partecipazione politica. Mi fermo qui (non sono candidato!).

   Sono convinto che con le idee condivise attraverso discussioni anche aspre e dissensi espliciti, ma ricomposti, si costruisce un partito di uomini e donne che andranno alla ricerca di voti per conquistare cariche (non poltrone), costruire coalizioni, andare al governo, attuare un programma. Questo è il catalogo.

Pubblicato il 7 marzo 2021 su formiche.net

Lo zampino di Renzi nel collasso del partito fin troppo contendibile @DomaniGiornale

In principio ci fu l’idea di aggregare il meglio delle culture politiche riformiste del paese: quella, certamente non socialdemocratica, degli ex-comunisti, quella dei cattolico-democratici, degli ambientalisti, di qualche liberale, con la sorprendente e davvero grave esclusione della cultura socialista. Poi, rapidamente, si vide quanto limitato fosse il tasso di riformismo di quelle culture già allora evanescenti cosicché il Partito Democratico affidò la sua identità ad una aspirazione: la vocazione maggioritaria, e a un metodo: le primarie nella affermazione orgogliosa che la leadership doveva essere “contendibile”. Oggi, dopo le sempre corte segreterie di Veltroni, Bersani, Renzi più Renzi e Zingaretti, quattro segretari che pure avevano vinto le primarie e con reggenti Franceschini, Epifani, Martina loro subentrati solo temporaneamente, possiamo dire che la leadership è stata fin troppo contendibile. Dunque, gli aspiranti stregoni messisi all’opera per costruire un partito che non è mai esistito nei sistemi politici europei hanno semplicemente dimostrato la loro inadeguatezza. Inoltre, la verità è che il PD non aveva messo insieme culture politiche trionfanti, ma due ceti politici declinanti e in buona sostanza dotati del potere di mantenersi a galla senza sapere né volere rischiare elaborando idee e proposte.

   Di nessuno dei segretari è possibile effettuare un collegamento con proposte nuove dirompenti. Non vale neppure la pena cercare di ricostruirle quelle non-proposte con l’obiettivo di “dare un senso a questa storia”, l’espressione usata da Bersani nel corso della sua vittoriosa, ma tutto meno che innovativa, cavalcata nelle primarie. Bisognava, bisognerebbe, bisognerà delineare una storia nuova. Al momento non ce ne sono neppure i presupposti minimi. Si chiamino pure pudicamente “sensibilità” o “anime”, le aggregazioni personalistiche ovvero intorno ad un leader, rigorosamente uomo, che si formano e si riproducono nel partito, non sono neanche vere correnti. Troppo spesso le donne si agganciano alla leadership di un uomo e lì rimangono per ottenere cariche e promozioni. Le polemiche da loro montate perché fra i tre ministri spettanti al PD non c’era neppure una donna (mi) sono apparse del tutto pretestuose e comunque del tutto prive di contenuti effettivamente politici.

   Se un partito non sa, non riesce e non si cura di produrre idee politiche, di confrontarle, di aggiornarle, inevitabilmente il discorso si sposta sulle cariche, che, per qualcuno/a possono anche essere, con cedimento populista, chiamate poltrone. Senza fare politica sul territorio, questa volta il politichese appare appropriato, le poltrone inevitabilmente diminuiscono di quantità e di numero. Dove ci sono poche idee e nessun dibattito, gli “idealisti” se ne vanno e rimangono gli arrivisti/carrieristi. Costoro non daranno (non sanno/non vogliono) nessun contributo alla crescita culturale del partito. I loro obiettivi sono altri e, se dimostrano fedeltà al leader di turno, riusciranno a passare da una carica ad un’altra, persino a prescindere dagli impegni presi con il loro elettorato.

   Nonostante le loro grandi maggioranze, i vari segretari del PD non hanno mai davvero, dopo una luna di miele, acquisito il pieno controllo e sostegno del partito. Forse il segretario più forte da questo punto di vista è stato Matteo Renzi, ma il suo stile di leadership ha provocato molte tensioni e conflitti sicuramente deleteri anche perché orientati più al rafforzamento quasi plebiscitario della sua leadership piuttosto che al rafforzamento del partito e al perseguimento coerente di una politica riformista mai compiutamente delineata (e probabilmente non nelle sue corde).

   Renzi non si lasciò sfuggire l’opportunità di designare la maggioranza dei componenti dei due gruppi parlamentari. Ne è conseguito che, vincendo le primarie, il segretario Zingaretti ha ottenuto la maggioranza negli organismi dirigenti del partito: Assemblea Nazionale e Direzione. Però, non soltanto la maggioranza dei componenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato sono stati nominati da Renzi, ma i due capigruppo hanno un recentissimo passato di strettissimi collaboratori di Renzi. Non desidero formulare nessuna ipotesi, ma penso che sia corretto concludere temporaneamente che, da un lato, è in corso un tentativo ad opera di Italia Viva e del suo capo di scompaginare sia il Partito Democratico sia il Movimento 5 Stelle, dall’altro, con le sue dimissioni Zingaretti potrebbe avere deciso di mettere fine all’esperienza del PD per procedere alla costruzione di un partito diverso, migliore. È un’operazione difficile, ma possibile. Se qualcuno ha davvero pensato che con il governo Draghi la politica si sarebbe ristrutturata, la decisione di Zingaretti potrebbe rivelarsi il primo importante passo in quella direzione.   

Pubblicato il 5 marzo 2021 su Domani

Rischi calcolati, non profezie di sventure #fase2 #coronavirus #Covid_19

Il rischio calcolato di una riapertura relativamente cauta delle attività produttive ai più vari livelli è stato preso. Gli italiani hanno finora sostanzialmente mostrato una buona propensione a seguire le regole, i cosiddetti protocolli. Non c’è nessuna ragione perché si permettano adesso, in un momento di delicata transizione, che può essere decisiva nel riuscire ad andare avanti o nell’essere costretti ad una brutta regressione, di comportarsi troppo disinvoltamente. Purtroppo, però, sono alcuni commentatori che hanno deciso di essere inopinatamente spregiudicati nelle loro previsioni.

È indubbio che esistono numerose situazioni di grande sofferenza, che non sarà possibile sanare in tempi brevi, ma alle quali i provvedimenti del governo mirano a procurare sollievo, almeno temporaneo. Anche gli enti locali, le regioni, ma soprattutto i comuni, sono impegnabili e impegnati nell’opera di conforto ai loro cittadini i cui bisogni conoscono, comprensibilmente, molto meglio delle autorità nazionali. In una società nella quale l’informazione circola liberamente poiché la libertà di stampa non è stata in nessun modo ridimensionata, come succede nei regimi non democratici, i comunicatori hanno grandi responsabilità. Debbono, anzitutto, spiegare, possono individuare e cogliere criticità, le cose che non vanno, e suggerire soluzioni, come migliorarle. Non debbono in nessun modo offrire visioni edulcorate, che non corrispondano alla realtà, ma neppure ritrarsi dal segnalare, anche con asprezza, problemi aperti, se non addirittura, problemi che si apriranno qualora i governanti non sappiano predisporre per tempo gli indispensabili rimedi. Quello che, invece, mi pare che i commentatori dovrebbero assolutamente evitare sono due atteggiamenti: il vittimismo e l’allarmismo.

Siamo, questa è una severa lezione della pandemia, tutti nella stessa barca, dunque, non ci sono stati complotti e non esistono vittime designate, ma certo c’è chi soffre di più. A costoro, non è in nessun modo utile dire che andrà anche peggio. Ho trovato, ma non sono stato il solo, gravissima l’affermazione-previsione di Concita De Gregorio “la rabbia generata dalla disperazione economica esploderà”. Non ho apprezzato le parole di Andrea Purgatori che in TV in un dialogo con un preoccupatissimo Veltroni, sostanzialmente lo invitava a dire che la crisi sociale è probabile e condurrà a comportamenti violenti. Sappiamo che altri sono i rischi più imminenti e immanenti, in particolare, quello della criminalità organizzata, alla quale certo non manca la liquidità per impadronirsi di molti settori in difficoltà. Invece di creare allarmismo, di cui al momento non si vede nessuna evidenza, sarebbe di gran lunga preferibile concentrare l’attenzione dei cittadini e delle autorità su sfide minacciose che, identificate, possono essere meglio affrontate. Meno profeti di sventura più cittadini informati, consapevoli, solidali e pronti a mobilitarsi.

Pubblicato AGL il 20 maggio 2020

Riforme, leggi elettorali e Pd. Così il prof. Pasquino ribatte ad Arturo Parisi @formichenews

Ieri, ma soprattutto oggi, ritengo che chiamare maggioritarie le leggi elettorali proporzionali sulle quali viene innestato un premio di maggioranza è sbagliato e manipolatorio. Il commento del prof. Pasquino

Formiche.net mi ha invitato a esplicitare e chiarire le mie critiche variamente espresse (anche con pungenti tweet) ai pensieri politici e istituzionali che il mio amico Arturo Parisi pronuncia di frequente (qui l’intervista). Lo faccio volentieri, non per una resa dei conti personale, ma con l’obiettivo di dare un contributo alla comprensione del sistema politico italiano e alla costruzione di un suo migliore futuro.

Nella stagione referendaria fui presente, eccome, in quanto convinto promotore. Scrissi anche un editoriale per Repubblica: 1 aprile 1990, nel quale lodavo e appoggiavo la proposta della FUCI di un referendum sulla legge elettorale. Ritenevo necessario cambiarla, non perché le leggi elettorali proporzionali sono brutte e cattive (qualche commentatore continua, stupidamente, a ritenerle la causa della tragedia di Weimar), ma perché in Italia quel tipo di PR era uno degli ostacoli più difficili da superare per rendere praticabile il meccanismo all’alternanza al governo fra coalizioni diverse. Fin da allora, però, sostengo che il sistema elettorale preferibile per l’Italia è il maggioritario a doppio turno nei collegi uninominali di tipo francese (a richiesta argomenterei più a fondo).

Ieri, ma soprattutto oggi, ritengo che chiamare maggioritarie le leggi elettorali proporzionali sulle quali viene innestato un premio di maggioranza: Legge del Porcellum Calderoli e Legge dell’Italicum Renzi (con zio D’Alimonte) è sbagliato e manipolatorio. Se Prodi e Parisi sono “maggioritari” perché vogliono un premio di maggioranza, comunque attribuito, sbagliano. Ad ogni buon conto, quel tipo di legge elettorale non deve essere definita “maggioritaria”. Non c’è nessun ritorno alla PR che abbiamo conosciuto. Comunque, se congegnata in maniera tale da dare potere agli elettori, qualsiasi legge PR sarebbe molto meglio della pessima legge Rosato. Fatemi sentire alte e forti le voci di Prodi, di Veltroni e, naturalmente, di Parisi che chiedono che si metta fine all’obbrobrio delle pluricandidature e delle liste bloccate. O la qualità del ceto parlamentare è una variabile irrilevante?

A suo tempo, ho molto apprezzato l’Ulivo la cui definizione, incidentalmente, non può essere affidata in esclusiva a qualche parlamentare prodiana miracolata, senza arte né parte. L’Ulivo fu il benemerito tentativo di rinnovare il ceto politico aprendosi alla società (sì, civile). Riuscì solo parzialmente. È ancora quasi tutto da realizzare. Con il doppio turno francese non è difficile pensare a candidature nei collegi uninominali capaci di vincere e di rappresentare quelle società in modo e misura di gran lunga migliori di quelli dei politici di professione/di cooptazione. Sto aspettando Prodi, Veltroni, Parisi e anche, se lo vorrà, Enrico Letta, sulla sponda del fiume doppio turno. Sono certo che lì non arriverà mai Matteo Renzi, le cui riforme istituzionali, pasticciate, confuse, inadeguate, Prodi e Parisi hanno sostenuto con il loro “sì”. Portavano ad una democrazia maggioritaria, bipolare, dell’alternanza? Ad una tanto vantata (ma inesistente negli studi degli specialisti) democrazia “decidente”? O del decisore unico? Aprivano spazi veri alla società? Contenevano e realizzavano il modello del “Sindaco d’Italia”? Non chiedo a nessuno di esultare per lo scampato pericolo. L’ho fatto io, per molti, mentre Parisi se ne doleva, quella sera del 4 dicembre 2016.

Ma l’Ulivo, poi, è stato il padre del Partito democratico? Proprio no. Eppure né Prodi né Veltroni né Parisi espressero riserve e critiche su quella fusione gelida del 2007 che salvava le poltrone (eh, sì, lo scrivo proprio così) dei dirigenti, ma escludeva quasi programmaticamente e in maniera brutale tutte le associazioni che si erano mobilitate per l’Ulivo d’antan. Il Pd suscitò, raccolse, valorizzò le migliori culture riformiste dell’Italia? E quale cultura politica e istituzionale ha oggi il Pd? Qualcosa di elaborato da Parisi e Prodi? da Veltroni? Da altri, e chi? Quale democrazia hanno voluto i collaboratori di Prodi? Quella che sarebbe sbucata dalla vittoria del sì al referendum? Per usare le parole di Parisi: da chi venne l’ispirazione di una democrazia diversa e verso quale modello si orienta oggi la sua aspirazione?

Da Parisi ho imparato molto nei quasi trent’anni trascorsi insieme fra Mulino e Istituto Cattaneo. Ho imparato soprattutto che è un dovere scientifico, ma anche etico, mettere in discussione le spiegazioni date per acquisite, spesso pappagallescamente ripetute, e le proposte non argomentate. Rovesciare. Oggi mi sembra che Parisi e con lui molti altri commentatori e politici (con me stanno pochi followers, ex-studenti…) si nutrano di luoghi comuni e rinuncino alla critica dell’esistente in nome di qualcosa che non è mai esistito. Dunque e comunque, non finisce qui.

Il libro più recente di Gianfranco Pasquino, non politologo, ma professore emerito di Scienza politica, è Minima Politica (UTET 2020). A qualcuno potrebbe interessare anche Italian Democracy. How It Works (Routledge 2020)

Pubblicato su Formiche.net il 20 febbraio 2020

L’addio al Pd di Matteo Renzi #intervista al professor Gianfranco Pasquino @RadioRadicale

L’intervista realizzata da Roberta Jannuzzi è stata registrata martedì 17 settembre 2019

Con un’intervista al quotidiano La Repubblica, questa mattina Matteo Renzi ha annunciato il suo addio al Partito Democratico.
Abbiamo chiesto un commento a Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.

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L’addio al Pd di Matteo Renzi

 

The never ending game. A proposito dell’ennesimo dibattito, o presunto tale, su una “nuova” legge elettorale

Tornare alla proporzionale? Vantare improbabili meriti maggioritari? Di che cosa si sta parlando? Facciamo il punto nella solita confusione derivata sostanzialmente dall’assenza di conoscenze minime in materia elettorale. Qualche volta mi piacerebbe sentire dalla persino troppo viva voce di molti dei protagonisti quale libro oppure anche soltanto quale articolo hanno letto sui sistemi elettorali. La vigente legge Rosato è per due terzi proporzionale e per un terzo maggioritaria. Dunque, non è che il “ritorno” alla proporzionale cambierebbe in maniera significativa la distribuzione dei seggi, se non per quei burloni di studiosi che hanno incautamente scritto di “effetti maggioritari” di quella legge. A scanso di equivoci, è utile ricordare che l’Italicum era una legge elettorale sostanzialmente proporzionale con un premio in seggi proprio, la ratio era la stessa, come la legge Calderoli (meglio nota come Porcellum), con liste bloccate, vale a dire senza possibilità di scegliere il candidato/a preferita/o. In Italia non abbiamo mai avuto una legge elettorale effettivamente maggioritaria, ma la legge Mattarella (il cd. Mattarellum) – esito, lo ricordo e lo sottolineo, di un quesito referendario voluto e votato dai cittadini – ci è andata piuttosto vicino: tre quarti dei seggi (non delle poltrone) attribuiti con sistema maggioritario in collegi uninominali, un quarto recuperati con sistema proporzionale completato da una soglia di sbarramento del 4%.

Davvero proporzionale fu la legge elettorale italiana con la quale si votò dal 1946 al 1992 compreso. Non provocò sconquassi, niente a che vedere con la, oggi temutissima, soprattutto da chi non ne conosce la storia, Repubblica di Weimar. “La” proporzionale italiana non produsse neppure la proliferazione dei partiti, il cui numero nel corso del tempo rimase abitualmente più vicino a sette che a noveAd ogni modo, “tornare alla proporzionale” è una frase praticamente senza senso poiché di varianti dei sistemi elettorali proporzionali ne esistono molte, delle quali quella caratterizzata dall’aggiunta di un premio di maggioranza è quasi sicuramente la peggiore, mentre la proporzionale migliore è e rimane quella tedesca.

La logica di una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza comunque sia attribuito è molto diversa da quelli dei sistemi maggioritari. Tuttavia, anche in questo caso, affermare, più o meno solennemente, la preferenza per un sistema maggioritario significa poco o niente poiché i due sistemi maggioritari attualmente esistenti, quello inglese e quello francese, sono molto significativamente diversi da una pluralità di prospettive. L’unico elemento, importante, meglio decisivo e dirimente, che condividono, è il collegio uninominale dove vince un solo candidato e tutti i suoi concorrenti perdono e non possono essere ripescati. Quando nei vari commenti leggo, inevitabilmente increspando le sopracciglia, che Prodi e Veltroni si dichiarano a favore del maggioritario, mi chiedo: quale maggioritario, inglese o francese? Rimango in attesa della risposta, magari argomentata con riferimento agli obiettivi che i sedicenti maggioritari desiderano perseguire, per esempio, più potere per gli elettori, migliore rappresentanza politica collegio per collegio, maggiore trasparenza nella formazione di coalizioni che si candidano a governare, persino, qualsiasi cosa voglia significare (accetto suggerimenti) governabilità. Al catalogo aggiungerei ambiziosamente: “ristrutturare partiti e sistema dei partiti”.

Però, non mi chiedo mai se le leggi elettorali maggioritarie servono ad eleggere direttamente i governi. Da nessuna parte è così, ed è meglio che sia così. Chiederei a tutti coloro che entrano nel dibattito, ma soprattutto ai parlamentari e ai dirigenti dei partiti, di essere molto precisi nell’indicazione e nelle motivazioni del sistema elettorale che vorrebbero formulare e utilizzare per eleggere i prossimi 400 deputati e 200 senatori.

Pubblicato il 13 settembre 2019 su rivistailmulino.it

Come sbagliare le primarie

Quando un partito, i suoi dirigenti, i commentatori politici, persino gli studiosi continuano a definire “primarie” quelle che sono votazioni per eleggere il segretario di quel partito, c’è un problema. Anzi, ce ne sono due. Primo, qualcuno non sa che cosa fa. Secondo, qualcuno ha manipolato senza ritorno il significato di un procedimento di coinvolgimento e di partecipazione di iscritti e elettori ad un avvenimento molto importante nella vita di qualsiasi partito che intenda essere democratico. Secondo, che, in un paese dalla diffusa ignoranza sul funzionamento delle istituzioni, delle procedure, dei partiti, è altamente probabile trovare chi non sa. C’era una volta, però, quando i partiti non solo avevano al loro interno “intellettuali organici”, ma sapevano, anzi, spesso erano lieti di ricorrere al parere degli intellettuali.

Quanto alla manipolazione essa può essere più o meno consapevole. Certo è che nelle votazioni per il segretario del Partito Democratico, essa si manifesta fin dall’inizio. La lunga cavalcata estiva di Veltroni nel 2007 dal Lingotto alle votazioni che lo consacrarono primo segretario del PD con una maggioranza che può essere definita bulgara solo da chi non sa che il sistema partitico bulgaro ha da tempo una dinamica bipolare, delineò il programma di governo che Veltroni desiderava attuare. Non tanto incidentalmente quella “delineazione” costituì una ferita mortale al già malaticcio governo Prodi il cui programma era oggetto di rivendicazioni e di ricatti. Certo, quale partito dovesse sovrintendere al programma di governo Veltroni non lo precisò mai. D’altronde, era in ampia, nient’affatto buona, compagnia.

I fondatori del PD avevano preferito affabularsi sulla contaminazione delle (peraltro, già pallide e esauste) culture politiche riformiste dalle quali nasceva il PD piuttosto che discutere più laicamente della strutturazione del partito che, naturalmente, richiedeva sporcarsi le mani per radicarlo sul territorio. Che quel partito, fatto ad immagine e somiglianza di Veltroni (quando leggo di “partito del leader” mi interrogo su quanto grande è stata la responsabilità del “partito di Veltroni”, a vocazione maggioritaria, nella democrazia bipolare dell’alternanza) non sapesse poi difendere Veltroni dai suoi errori è la logica conseguenza di seguaci che non osano contraddire il leader e del leader che non presta ascolto a parole e interpretazioni difformi dalle sue.

A fronte di capi di partito che controllavano saldamente persone e funzionamenti (Berlusconi e Bossi), il balletto del PD e dei suoi segretari è stato tanto intenso e frequente quanto inadeguato a strutturare un partito che non riusciva a trovare, ma in verità neppure cercava, una via di mezzo fra sezioni (“circoli”) e gazebo. La sequenza è impressionante: dopo Veltroni, Franceschini, poi votazioni dalle quali emerge Bersani a “dare un senso a questa storia” (ma il senso non lo si trovò neanche nella narrazione esplicitata in campagna elettorale), a rappresentare una “ditta” che produceva poco e male e perdeva i suoi “venditori”, e che il suo concorrente voleva addirittura “rottamare” (fenomeno del tutto sconosciuto persino nei partiti di sinistra che più si erano rinnovati: il Parti Socialiste di Mitterrand nel 1971 e il New Labour di Tony Blair nel 1995), poi Epifani a supplire per poco tempo prima della vittoria di Renzi, seguita da dimissioni e immediata rielezione e, per fare le cose in grande, da nuove dimissioni date, sospese, mantenute. In tutte queste fasi è legittimo chiedersi dov’era, se c’era, il partito oppure se quel che esisteva erano soltanto aggregazioni personalistiche, a cominciare dal partito di Renzi.

La situazione non è affatto migliorata nella fase depressiva e deprimente seguita alle seconde dimissioni di Renzi e al congelamento di un PD del tutto imbambolato dopo la pesante sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Stancamente rilanciato senza nessuna riflessione sulla sua inadeguatezza, il rito delle votazioni fra gli iscritti prima di giungere ai gazebo di marzo ai quali affluirà il più basso numero di sempre di elettori (eccezion fatta, azzardo la previsione, per la Campania del molto Democratico governatore De Luca) non è stato accompagnato da nessuna proposta su come (ri)costruire il/un partito degno del suo nome, cioè, anche democratico. La proposta più dirompente e perfettamente inutile è quella di fare a meno del simbolo tanto per cominciare alle elezioni europee. Peso degli iscritti e loro potere, albo degli elettori per cercare di trasformarli in attivisti non occasionali e poi in iscritti partecipanti, nuovi strumenti di formazione e di influenza politica? No, grazie. Il partito sbagliato (titolo di un eccellente pungente libro di Antonio Floridia, Castelvecchi editore) neanche si pone il problema di correggere i suoi errori. Si accontenta, ma oramai non ha più neppure la faccia tosta di vantarsene, di fare eleggere il suo segretario da platee disordinate e faziose (oh, pardon, divise in fazioni). Sic transeunt (quod non fuerunt) primariae

 

[“Questioni Primarie” è un progetto di Candidate & Leader Selection e dell’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, realizzato in collaborazione con rivistailmulino.it. In vista delle primarie del Pd, ogni settimana riprendiamo contributi pubblicati nell’ambito dell’iniziativa tutti disponibili anche in pdf sul sito di Candidate & Leader Selection.]

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Il PD e le fazioni poco democratiche

Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico, Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 188, €17,50.

Prendendo le mosse da una domanda apparentemente semplice: “a quale dei possibili, diversi aggettivi della democrazia si è concretamente ispirata la struttura e la dinamica organizzativa dl Pd?”, Antonio Floridia ha scritto un libro eccellente. Quel “amalgama mal riuscito” (D’Alema), quel partito “leggero” (Veltroni), dalla leadership contendibile (Statuto del PD), quella organizzazione nata da una fusione a freddo fra DS e DL (Margherita), privo di una cultura politica condivisibile, viene analizzato da Floridia a partire dallo Statuto. Floridia riesce a collegare Statuto e organizzazione del PD con la scarsa democraticità e la mediocre funzionalità del Partito giungendo a motivare in maniera molto convincente il titolo del suo libro: Un partito sbagliato. Fosse soltanto questo il problema, potremmo tutti rispondere “affari dei più o meno sedicenti Dem”. Invece, no. Con un ragionamento stringente che si nutre della migliore letteratura in materia, ma anche degli esempi concreti nella politica italiana, Floridia sostiene che la cattiva organizzazione del PD e le sue velleitarie norme statutarie hanno già prodotto conseguenze molto gravi che sembrano irreversibili, per il funzionamento del sistema politico italiano e per la qualità della democrazia. Un partito il cui esercizio dominante non è quello di dare rappresentanza a una parte della società, ma di legittimare la leadership attraverso procedure dubbie (votazioni e primarie aperte indiscriminatamente e non con l’obiettivo di creare aderenti, l’Albo dei votanti alle primarie è una specie di oggetto misterioso) che non costruiscono nessuna cultura politica, ma ratificano l’esistenza di cordate, è destinato a isterilirsi quando le vittorie elettorali non arrivano e non consentono di premiare coloro che svolgono un reale lavoro “politico”. Già, perché Floridia ritiene che i partiti non solo abbiano ancora compiti che nessuna altra organizzazione può svolgere, ma che, a determinate condizioni, siano in grado, oggi, di svolgerli meglio che nel passato. Ovviamente, la condizione decisiva è che i partiti facciano ricorso a tutti gli strumenti di comunicazione, di “conversazione”, di azione disponibili. Autore di un precedente ottimo libro sulla democrazia deliberativa, Floridia ritiene che un partito che desideri essere effettivamente “democratico” a quegli strumenti dovrebbe guardare in tutte le fase della sua attività politica: reclutamento di coloro che sono interessati alla politica, loro formazione, selezione, promozione, ma soprattutto discussione delle alternative politiche e preparazione dell’azione di governo e di opposizione. Alcuni utili, precisi, mirati riferimenti ai partiti del passato (DC e PCI) e a quelli delle democrazie occidentali offrono indicazioni su quanto è ancora possibile fare in una società slabbrata alla quale dare coesione. Con noncuranza e protervia, Floridia documenta tutto con un pizzico di acrimonia, Matteo Renzi ha contribuito in maniera decisiva alla distruzione del PD (e aggiungo io, non è finita). Con molta buona volontà Fabrizio Barca, le cui proposte Floridia analizza con grande, forse esagerata, empatia, ha cercato di delineare un partito migliore. Nessuno dei candidati alla segreteria: Zingaretti, Martina e, davvero dovrei menzionarlo?, Giachetti, ha ripreso le proposte di Barca né criticato i devastanti comportamenti dei renziani né detto che partito vogliono. Azzardo che non lo sappiano proprio. Suggerirei loro caldamente la lettura di questo libro che dallo ieri ci conduce in un domani possibile. Però, il dibattito culturale non è proprio il forte dei dirigenti del PD dal 2007 a oggi. La maggior parte di loro ha solo il tempo di cercare e mantenere cariche. Un partito allo sbando non darà rappresentanza agli elettori e la qualità della democrazia italiana rimarrà miseranda.

Pubblicato il 29 gennaio 2019