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Scrivere una legge elettorale europea
Nelle democrazie, le leggi elettorali le scrivono i parlamentari, non i governi, meno che mai i giudici, neppure quando sono giudici costituzionali. Tuttavia, è sempre opportuno e giusto che i giudici valutino la costituzionalità delle leggi elettorali, come le due più recenti leggi italiane, Porcellum e Italicum, relativamente alla loro conformità ai principi sui quali si regge e secondo i quali deve funzionare la Repubblica. Congegnata per compiacere Berlusconi ai tempi del Patto del Nazareno, formulata dal governo Renzi e poi imposta con addirittura tre voti di fiducia, la legge nota come Italicum era poco meno che un Porcellum rivisto e solo parzialmente corretto. Smantellato dalla Corte costituzionale il Porcellum con la sentenza n.1/2014, apparve subito ovvio che l’Italicum non era esente da vizietti di incostituzionalità molto simili a quelli del suo predecessore. Piovvero i ricorsi sui quali, chiamata a decidere, la Corte prese tempo in attesa dell’esito referendario che, mantenendo in vita il Senato, rende indispensabile anche una nuova legge per la sua (ri-)elezione.
La laboriosa decisione della Corte, che segnala significative differenze sia tecniche, vale a dire sui meccanismi, sia politiche, ovvero sull’impatto che la sentenza avrà sul governo, sul Parlamento sul sistema politico, è stata resa ancora più difficile dall’esistenza di una precedente indicazione di fondo della Corte stessa. Nessun organismo costituzionale può rimanere privo della legge che ne consente l’elezione. Dunque, quando la Corte smantellò il Porcellum, quello che rimase in piedi, detto Consultellum, era una legge elettorale, del tutto proporzionale, che molti ritennero immediatamente applicabile. Dichiarati incostituzionale il solo ballottaggio, peraltro, il cuore dell’Italicum, quello che rimane è quasi certamente una legge altrettanto applicabile, ma migliorabile da più punti di vista, anche grazie alla necessità di estenderla e, come ha chiesto il Presidente della Repubblica Mattarella, in maniera armonica, al Senato.
Adesso, nulla osta che il Parlamento, non il governo, rimetta le mani nella comunque ingarbugliata matassa della legislazione elettorale. Formalmente, non c’è fretta poiché la legislatura può durare fino a febbraio-marzo 2018. Politicamente, alcuni dirigenti di partito vogliono anticipare il ritorno alle urne perché pensano di trarne qualche profitto, ma raramente gli elettori italiani hanno premiato chi ha interrotto la vita di un Parlamento. Per di più, come dovrebbe essere noto anche a chi vive nel Palazzo, la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Non sembra proprio il caso che i partiti continuino ad anteporre i loro interessi di breve respiro, calcolati sulla base dei sondaggi, per scrivere una legge elettorale che un eventuale ricorso potrebbe fare tornare alla valutazione della Corte. Nelle democrazie, non solo europee, di lunga durata, soltanto in rarissimi casi (uno dei quali, importantissimo, è la Francia, che nel 1958 fece un cambio di regime), le leggi elettorali sono state cambiate.
Sarebbe bello e utile conoscere le opinioni, non solo dissenzienti, dei giudici per sfruttarne la ratio al fine di formulare una buona legge elettorale. Comunque, adesso è augurabile che, con due obiettivi fondamentali in mente: potere degli elettori e rappresentanza dei cittadini, i parlamentari in carica scrivano una legge elettorale di stampo europeo, vale a dire già vista all’opera, che venga accettata da tutti, o quasi, perché equa, perché non garantisce vantaggi a nessun partito esistente, non impedisce la nascita di partiti nuovi, purché godano di un adeguato consenso elettorale, offre ai cittadini la possibilità di scegliere il partito e i candidati preferiti, incoraggia la formazione di coalizioni governo, consente di sperare che la sua vita sia lunga e che il sistema non si blocchi ancora a causa di incompetenza e partigianeria.
Pubblicato AGL il 26 gennaio 2017
I giudici e la miopia dei politici
In nessuna democrazia in nessun momento della loro storia, i parlamentari e i governanti si sono mai fatti scrivere la legge elettorale dai giudici, neppure da quelli costituzionali. In nessuna sono mai giunti a stabilire che, come hanno inserito nell’Italicum, la legge elettorale da loro formulata e approvata, addirittura con ricorso da parte del governo Renzi al voto di fiducia, dovesse essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale prima di essere utilizzata. In nessuna democrazia la legge elettorale è rimasta oggetto del contendere per vent’anni e più (con il “più” che rischia di continuare). Questa è la situazione italiana in attesa della sentenza sull’Italicum che i giudici costituzionali hanno, credo lo si debba sottolineare, rinviato un po’ troppo nel tempo così come avevano lasciato vivere una legge, il Porcellum, considerata incostituzionale quasi nella sua interezza, addirittura per tre elezioni nazionali.
Non contenti della loro inadeguatezza di riformatori elettorali (a quella dei riformatori costituzionali hanno già ovviato gli elettori del NO nel referendum), parlamentari e governanti hanno trascorso quasi cinquanta giorni in attesa della sentenza della Corte fornendo materiale ai cosiddetti retroscenisti affinché almeno i cittadini che leggono i giornali fossero informati delle loro preferenze particolaristiche. Ripetutamente è stato scritto che Renzi non vuole rinunciare al premio di maggioranza, ma neppure al ballottaggio. La posizione di gran parte del Partito Democratico sembra essere favorevole a un ritorno al Mattarellum che, fra l’altro, avrebbe il pregio di accertata costituzionalità. Salvini con la sua Lega e i Fratelli d’Italia accettano il Mattarellum che li renderebbe entrambi preziosi alleati di chi volesse costruire una coalizione di centro-destra. Da soli, non andrebbero da nessuna parte. Pur avendo vinto due elezioni su tre con il Mattarellum, ma erano altri tempi, Berlusconi, già considerato, con qualche esagerazione, l’artefice del bipolarismo italiano, dichiara alta e forte la sua preferenza per una legge elettorale proporzionale. Commentatori e retroscenisti si affrettano a scrivere che quella preferenza è motivata dal desiderio di risultare indispensabile alla formazione di un governo che escluda il Movimento Cinque Stelle. Anche Alfano è favorevole alla legge proporzionale purché non le s’introduca una troppo alta soglia percentuale per l’accesso al Parlamento. Il Movimento 5 Stelle, al quale i sondaggi attribuiscono la prevalenza in caso di ballottaggio su scala nazionale, sia per non cercare alleati sia, forse, per timore di andare al governo, s’inventa un legalicum, legge proporzionale, che gli darebbe notevole peso in Parlamento consentendogli di rimanere duro e puro, quasi di governare, come, sbagliando, dissero molto tempo fa i comunisti, dall’opposizione.
Nell’imbarazzato silenzio delle due maggiori responsabili dell’Italicum: la sottosegretaria Maria Elena Boschi, già Ministro delle Riforme Istituzionali, e chi l’ha sostituita in quella carica, vale a dire Anna Finocchiaro, già Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, sempre schierata a sostegno di tutte le scelte di Renzi in materia elettorale e costituzionale, nessuna voce si leva a difesa del potere degli elettori e della rappresentanza politica dei cittadini italiani. Periodicamente, quasi tutti i parlamentari diventano garantisti, rigorosamente a difesa dei loro colleghi, preferibilmente dello stesso partito, e deplorano la magistratura che supplisce e soppianta la politica. Adesso, sappiamo il perché della supplenza e della invadenza dei giudici. Su quello che è il meccanismo più importante di un regime democratico che serve a tradurre i voti in seggi, parlamentari e governanti non riescono a ragionare oltre i loro obiettivi miopi, particolaristici, legati alle contingenze e alle carriere. Qualcuno potrebbe anche paventare che, dovendo applicare la sentenza della Corte Costituzionale, i parlamentari non soltanto ci metteranno un sacco di tempo a scrivere una legge elettorale decente, ma soprattutto faranno molti pasticci. È un timore fondato.
Pubblicato AGL il 23 gennaio 2017
Renzi, molto ambizioso ma poco responsabile
Intervista raccolta da Marco Sarti per LINKIESTA
«Renzi è rimasto in carica più di mille giorni, credo che possa ritenersi soddisfatto». Mentre il presidente del Consiglio si prepara a lasciare Palazzo Chigi, il noto politologo Gianfranco Pasquino non sembra avere grandi rimpianti. Professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, già senatore della sinistra indipendente e dei progressisti, Pasquino ricorda errori e contraddizioni dell’ex rottamatore appena sconfitto al referendum costituzionale: dall’eccessivo protagonismo all’incapacità di selezionare una classe dirigente adeguata. Il giudizio di Pasquino, che in questa campagna ha sostenuto con forza le regioni del No, è a tratti impietoso: «Berlusconi aveva carisma, per Renzi parlerei piuttosto di fortuna». Sullo sfondo, resta il futuro incerto del segretario del Pd. «Ma alla fine – continua il politologo – non credo che la sua ambizione lo porterà ad abbandonare la politica».
Professor Pasquino, non siamo ancora ai titoli di coda del renzismo. Forse il presidente del Consiglio dimissionario rimarrà sulla scena e avrà il tempo di trovare la sua rivincita. Eppure la clamorosa sconfitta al referendum chiude in maniera evidente una fase politica.
Sì, credo che si possa dire così. Se Matteo Renzi pensava di cambiare la politica italiana a colpi d’accetta e con grande velocità, l’operazione non gli è riuscita. Forse gli è mancata un po’ di saggezza.
Resta un’esperienza politica significativa, destinata a lasciare il segno. Eppure velocissima. Dall’ascesa di Renzi alla sua sconfitta sono passati solo tre anni.
Sono cambiati i tempi della società, del mondo globale. E inevitabilmente sono cambiati anche quelli della politica italiana. Renzi ha bruciato i tempi. In ogni caso è rimasto in carica per poco più di mille giorni, credo che possa essere soddisfatto. Il suo è uno dei cinque governi più longevi della storia repubblicana. Una nota a piè di pagina sui libri di storia se l’è guadagnata anche lui.
Il renzismo come fenomeno politico. Tra gli aspetti caratteristici c’è l’idea di un uomo solo al comando. Anche nell’ultima campagna elettorale Renzi ha giocato la partita da unico protagonista. È d’accordo?
Questa è stata una sua scelta. Uno stile personalistico che Renzi ha sempre avuto, fin da quando era presidente della provincia di Firenze. Lui non ha mai voluto contare fino in fondo sul partito. Lo ha conquistato, ma ne è rimasto sempre fuori. Ha sempre pensato di poter fare a meno del Partito democratico. Lo teneva da parte, non ne ha mai tenuto conto. E in questo è stato confortato dal successo alle Europee del 2014, che effettivamente è stato un suo successo personale. In quell’occasione il Pd era al 30-31 per cento, ma lui è stato in grado di portarlo fino al 40 per cento.
Forse uno degli errori di Renzi è stato proprio questo? La personalizzazione e l’assenza di un gruppo dirigente all’altezza?
Il gruppo dirigente all’altezza lo avrebbe anche trovato, se solo lo avesse cercato. Invece ha preferito circondarsi di debuttanti, personalità prive di esperienza politica. Penso a Maria Elena Boschi, a Lorenzo Guerini. Anche a Luca Lotti, che dicono essere il suo potentissimo braccio destro. Si è affidato a una classe dirigente di neofiti.
C’è un tema che ritorna nella carriera politica di Renzi. Se la sua ascesa politica si è caratterizzata per gli slogan sulla rottamazione, la sua ultima campagna elettorale si è incentrata sulla lotta alla Casta.
Ed è stata un’operazione poco credibile. Se si vogliono elencare i sostenitori della riforma, al primo posto troviamo proprio Giorgio Napolitano, eletto in Parlamento nel lontano 1953. Poi c’è Luciano Violante, entrato a Montecitorio nel 1979. Seguono i due ex presidenti di Camera e Senato Pierferdinando Casini e Marcello Pera. Ci metterei dentro anche Fabrizio Cicchitto, anche lui un grande sostenitore della riforma, un altro parlamentare di lungo corso. Vede, in questa strategia della rottamazione c’è una grande contraddizione: al referendum sono stati gli elettori sopra i sessant’anni a votare con più convinzione per il Sì. Mentre i giovani sotto i trent’anni hanno votato in prevalenza per il No.
Eppure Renzi ha portato un gran cambiamento nella politica italiana, non è d’accordo? Un premier giovane, tra slide e tweet, in grado di prendere le distanze dai rituali ingessati di Palazzo.
Naturalmente la rappresentazione mediatica era un suo obiettivo. In ogni caso credo che si possa fare qualche tweet e al tempo stesso svolgere la politica con una certa dignità, offrendo un’immagine di serietà. Ma in Renzi questo si è visto poco, contava di più la spettacolarizzazione.
Il presidente del Consiglio ha sempre sofferto l’assenza di una legittimazione elettorale. E alla fine l’affannosa ricerca del voto popolare gli è costata la poltrona.
Dal punto di vista formale la legittimazione di un presidente del Consiglio passa dal voto di fiducia. E in questi anni le occasioni non sono mancate. Tutte le volte che Renzi ha chiesto un voto di fiducia in Parlamento, e sono state anche troppe, l’ha ottenuto. Se voleva così tanto una legittimazione popolare forse aveva la coda di paglia.
In questi anni Matteo Renzi ha dimostrato un’ambizione rara. In politica non è una dote importante?
L’ambizione in politica è molto importante. Prima di me lo diceva James Madison, uno dei principali autori della costituzione americana. Ma dovrebbe sempre fare i conti con la necessità di essere responsabili. Renzi, invece, ha cercato di sfuggire a questa responsabilizzazione. Pensando alla sua esperienza è interessante notare un dato: non c’è mai stata una vera riflessione, il presidente del Consiglio si è sempre occupato di rilanciare. E invece in politica, di tanto in tanto, è importante anche qualche pausa per riflettere.
Recentemente Silvio Berlusconi ha parlato di Renzi come dell’unico leader politico presente in Italia. Lei gli riconosce lo stesso carisma?
Io questo carisma non lo vedo. Non per come lo intendeva Max Weber, che ha introdotto il termine in politica. Lo vedevo in Silvio Berlusconi, semmai. Un uomo che irrompe nella scena mentre il Paese vive una fase di ansia collettiva, i partiti sono crollati e nel centrodestra c’è un enorme vuoto. Crea dal nulla una forza politica, Forza Italia, e vince le elezioni. Renzi non ha fatto nulla di simile. Lui il partito lo ha trovato, è riuscito a conquistarlo grazie alla generosità di Pierluigi Bersani. Per il resto sappiamo come è andata. Parlerei più di fortuna, meno di carisma.
Ammetterà almeno che nel primo discorso dopo il referendum Renzi ha riconosciuto la sconfitta con grande onestà. Una dote rara in politica…
E ci mancherebbe altro. Con il No in vantaggio di venti punti cos’altro avrebbe potuto dire?
Dopo questa sconfitta crede che Renzi cambierà mestiere o proverà a tornare a Palazzo Chigi?
Non credo che la sua ambizione lo porterà ad abbandonare la politica. Renzi ha ancora un certo appeal, la capacità di stare sulla scena non gli manca, ha saputo spettacolarizzare un confronto politico altrimenti noioso. Vedremo. Sarà lui a decidere se rimanere o preferirà ritirarsi e cominciare a scrivere libri di successo…
Pubblicato il 6 dicembre 2016 su LINKIESTA
Nessun allarmismo per l’esito del referendum italiano
Dissento fortemente dall’analisi di Gianni Bonvicini ” II rischi per l’Italia se vince il NO” (22 settembre 2016) e ancor più dalla sua conclusione: “Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione”. L’accusa di disfattismo e di antipatriottismo mi pare davvero fuori luogo.
Riforme inutili e inefficaci
Credo che sia praticamente impossibile dimostrare che uno qualsiasi dei capi di governo che contano nell’Unione Europea conosca le riforme costituzionali imposte da Matteo Renzi e sia in grado di valutarne, compito difficile anche per gli italiani, l’utilità e l’efficacia. Tanto per cominciare la riforma del bicameralismo italiano, che non è affatto “perfetto” come scrive Bonvicini, produrrà un Senato di consiglieri regionali e sindaci che si occuperanno, con quale preparazione e con quali conoscenze?, certo non ne faranno sfoggio durante le loro campagne elettorali regionali,della politica europea. E’ una scelta assolutamente fuori luogo. Secondo, nel momento in cui sarebbe opportuno valorizzare le regioni e le autonomie locali, anche per attuare compiutamente il principio di sussidiarietà, le riforme approvate reintroducono la “supremazia statale” in molte materie. Avrebbero, invece, se miriamo congiuntamente a rappresentanza ed efficienza, dovuto mirare ad un accorpamento delle regioni e a un’incentivazione della loro efficienza anche in tutti gli ambiti nei quali, a cominciare dall’utilizzo dei fondi europei, debbono operare.
Un bicameralismo non “perfetto”, ma produttivo
Nulla di tutto questo. Bonvicini sembra credere alla non-produttività del Parlamento italiano e alla sua presunta lentezza e farraginosità. Invece i dati, che ho riportato nel mio volumetto NO positivo. Per la Costituzione. Per buone riforme. Per migliorare la politica e la vita (Edizioni Epoké 2016) indicano tutt’altro. Il bicameralismo italiano ha regolarmente “fatto”, ovvero approvato, più leggi e in tempi comparativamente più brevi dei bicameralismi tedesco, francese e inglese. Inoltre, il governo, anche quello di Renzi, ha regolarmente ottenuto le leggi che voleva, spesso nei tempi da lui desiderati, magari ricorrendo alla decretazione d’urgenza e imponendo il voto di fiducia. Semmai, il problema italiano è che le leggi sono quantitativamente troppe e qualitativamente malfatte. Per colpa dei governi, dei ministri, dei direttori generali dei ministeri.
Governi deboli o inaffidabili?
Governo “debole”, Presidente del Consiglio ingabbiato? Supponendo che qualcuno possa credere, senza dati, a queste fattispecie, dovrebbe allora interrogarsi sul perché nelle riforme costituzionali che saranno sottoposte a referendum non si trovi nulla che riguardi direttamente e specificamente né il governo né il suo capo. Rimanendo in Europa sarebbe stato semplicissimo e auspicabilissimo introdurre il voto di sfiducia costruttivo la cui esistenza tantissimo ha giovato alla stabilità dei Cancellieri tedeschi e delle loro compagini governative. Allo stesso modo, una forte Camera delle regioni avrebbe dovuto essere impostata come il Bundesrat tedesco. Naturalmente, punto che, ne sono certo, Bonvicini condivide con me, la “forza” di un capo di governo nell’Unione Europea non dipende tanto e neppure essenzialmente dalla struttura del suo Parlamento, dall’organizzazione del potere locale, da una legge elettorale che contempli un cospicuo premio di maggioranza (che i greci avevano, to no avail, e che hanno recentemente abolito).
Quasi tutte le democrazie europee meglio funzionanti hanno sistemi elettorali proporzionali e governi di coalizione, più rappresentativi delle preferenze dei loro elettorati e con programmi in grado di accogliere in maniera più soddisfacente interessi e preferenze diversificate. La forza di quel capo di governo dipende dalla sua credibilità politica e personale che implica non fare promesse che non può mantenere e non farsi paladino di riforme costituzionali controverse le quali, creando conflitti interistituzionali e confusione di competenze, renderanno le sue promesse ancora più difficili da mantenere.
Unità d’intenti
Infine, un “sistema-paese” diventa e rimane un interlocutore affidabile, non soltanto per e nell’Unione Europea, anche quando non solo, ma in primis, i suoi politici e poi gli intellettuali e gli istituti di ricerca non fanno allarmismo, quando dichiarano convintamente (e cooperano a fare sì che…) che l’esito di consultazioni democratiche sarà comunque governabile. Che i nostri partner europei non hanno nulla di cui preoccuparsi. Che l’allarmismo interno ed esterno non è affatto giustificato. Che i sostenitori del NO non sono nemici del loro paese, ma pensano semplicemente che altre riforme siano possibili e migliori e sanno anche quali riforme introdurre. Questo, soltanto, questo è il messaggio da inviare ai quotidiani economici straneri, alle grandi banche d’affari, all’Ambasciatore USA, che avrebbe fatto meglio a parlare dopo avere ascoltato i rappresentanti dei due fronti, ai partners europei.
Pubblicato il 3 ottobre 2016 su AffarInternazionali
Una vicenda in cui hanno perso tutti
Sono in molti ad avere perso qualcosa in questa brutta vicenda di un disegno di legge di origine parlamentare sulle unioni civili che avrebbe portato l’Italia al livello al quale sono giunte da tempo la grande maggioranza delle nazioni europee. In primis, hanno perso tutti coloro che desideravano unioni fra persone dello stesso sesso che ottenessero quanto, in termini di eguaglianza e di dignità, hanno coloro che contraggono un matrimonio. Parecchio è stato ottenuto sul piano economico, che conta ed è importante. Molto meno su quello, altrettanto importante, del riconoscimento dei figli avuti dal partner prima che si stipulasse l’unione civile. Il resto, come forse troppo spesso avviene, è stato affidato alla magistratura, probabilmente anche alla Corte Costituzionale, che si troveranno obbligate, come hanno fatto alla grande sulla legge 40, fecondazione assistita, a supplire alle gravi carenze della politica (e, magari, venendo poi criticate per la loro indispensabile interferenza).
Hanno perso tutti coloro che credono che fare le leggi sia un compito che il Parlamento adempie attraverso un dibattito aperto e trasparente che serve a spiegare ai cittadini come e perché, con quali conseguenze, ad educarli alla complessità delle scelte e alla ragionevolezza delle decisioni. Questa volta, probabilmente, la società ne sapeva, sulla propria pelle, molto di più di quanto troppi parlamentari volessero intendere e capire. Hanno perso i senatori delle Cinque Stelle poiché il loro messaggio si è abbattuto sul muro di gomma dei renziani e non sono riusciti a diventare determinanti. Avevano probabilmente ragione, ma sono arrivati tardi e male, percepiti, non del tutto erroneamente, come strumentali, al momento delle decisioni cruciali. Non hanno davvero vinto i Democratici poiché in definitiva hanno dovuto ingoiare tutte le richieste del partito di Alfano e finiranno per trovarsi debitori anche dei voti che il giustamente spregiudicato Verdini farà valere pesantemente sul voto di fiducia. Si aprirà davvero la porta alla mutazione antropologica del Partito Democratico in Partito della Nazione?
Infine, ha perso una certa concezione del Parlamento e della sua funzione di legislazione. Il testo del disegno di legge prima firmataria la senatrice dem Cirinnà avrebbe dovuto, secondo l’art. 72 della Costituzione italiana, essere discusso e “approvato articolo per articolo”. E’ sfuggito all’operazione esageratamente truffaldina implicita nell’emendamento canguro, della cui legittimità bisognerà pur discutere, che mangia tutti gli altri. Però, è stato poi divorato dal maxiemendamento del governo il quale ha, addirittura, posto la fiducia su un atto che non è di governo, non attiene al programma, non riguarda obiettivi strategici. Un governo che ottiene quello che vuole, in questo caso, quello che ha voluto una delle componenti della coalizione, a spese del parlamento, piegandolo e in sostanza umiliandolo, intraprende una strada pessima che, forse, dovrebbe essere bloccata dai Presidenti delle Camere e, possibilmente, se vi sarà un debito ricorso, dalla Corte Costituzionale. Questo non è neppure il nuovo modo di governare. Purtroppo, è l’aggravamento del vecchio che da cattivo diventa pessimo.
Pubblicato AGL il 26 febbraio 2016
Il voto al governo Renzi è un 6- Promette molto, realizza poco
ROMA. Professor Gianfranco Pasquino, che voto dà a Renzi?
Un 6 meno
All’orlo della sufficienza, motivazione politica?
L’allievo è volenteroso, si applica con impegno, corre molto con le parole ma le realizzazioni sono scarse. Promesse roboanti, fatti declinanti.
Di buono che ha fatto?
Poche cose, ma ci sono. Il Jobs Act dovrà comunque produrre qualche cambiamento positivo. La Buona scuola era necessaria, resta da vedere la sua applicazione da parte del ministero e dei presidi: quanti eserciteranno fino in fondo il loro potere.
Noto che non include Italicum e Senato.
Perché il mio giudizio è molto negativo. La legge elettorale è brutta, non rispetta la sentenza della Consulta e ha elementi di’incostituzionalità, come diceva Napolitano prima di diventare renziano. Quella del Senato è una trasformazione, non un’abolizione. Non è una Camera delle autonomie alla tedesca, né un Se nato francese più piccolo. In più, ha 5 senatori nominati dal Quirinale. La riforma è confusa, crea un sistema squilibrato e neppure chiarisce i compiti dei senatori.
Renzi lega il suo destino al referendum: mossa giusta?
No, così lo trasforma in un plebiscito su se stesso e usa in modo scorretto la Costituzione, che lo vuole promosso dai cittadini, non dal governo. Minacciare: se va male me ne vado serve a dire che lui interpreta il sentire del popolo.
Negli ultimi 2 anni in parlamento c’è stato un gran mercato, con continui passaggi da un partito all’altro.
L’Italia ha una lunga tradizione di trasformismo. Dal 2013 circa un terzo dei parlamentari ha cambiato casacca, credo 22 per il Pd di Renzi. Che attrae quasi automaticamente nuovi adepti, perché è grande, in grado di offrire risorse e poltrone, in più ha la prospettiva di vincere le elezioni.
Il premier ama governare con maggioranze variabili?
Una brutta storia che il trasformismo incoraggia. Se un governo ha una maggioranza dovrebbe reggersi su quella. Altrimenti, deve ricompensare di volta in volta i nuovi arrivati togliendo o mettendo qualcosa nelle leggi.
Il Rottamatore è rimasto fedele ai suoi primi slogan?
In parte sì, perché una certa classe politica Pd l’ha rottamata. Ma se Veltroni e D’Alema erano da rottamare, perché pescare vecchi nomi per ruoli che vorrebbero facce nuove? fl problema è che Renzi non ha una prospettiva complessiva di come rinnovare il Pd. Mi preoccupa sentire che la nuova classe dirigente nascerà dai comitati referendari. Così fa fuori la sinistra.
Il Pd perderebbe ancor più la connotazione di sinistra?
Per me, l’ha già persa.
Renzi punta al partito della Nazione?
L’idea è tremenda, lui di tanto in tanto la smentisce. Abbiamo già visto la De, che occupava solidamente il centro impedendo l’alternanza, ma per la democrazia ci vuole competitivita. Come segretario Pd ha concentrato nelle sue mani il potere, lo stesso ha fatto come premier. Ma almeno eviti di usarlo male, imponendo emendamenti canguro e voto di fiducia che limitano il dibattito parlamentare, come per le unioni civili. E su una materia non di governo, ma che investe il nostro modo di pensare.
Come finirà?
Sono politologo, non astrologo. Renzi ha capito che non deve consentire a M5S di gridare vittoria. Probabilmente toglierà la stepchild per far passare il resto.
E l’attacco all’Europa?
L’idea di riacquistare un ruolo sulla scena europea è buona, ma realizzata male. Lo scontro frontale non produce niente di positivo, anche Cameron ha ottenuto poco e ha più potere di Renzi. Quando si critica bisogna avere una soluzione e degli alleati. Lui non ha né l’uno né l’altro, chiede solo maggiore flessibilità, cosa non molto popolare a Bruxelles. Bene l’operazione di imporre la Mogherini per la politica estera Ue, ma perché poi non la sostiene?
Nello duello Renzi-Monti chi vince?
Nessuno ne esce vincitore, ma ha ragione Monti perché conosce meglio l’Europa e la sua burocrazia. È una visione da tecnocrate? Non so, forse va corretta, ma comunque va ascoltato.
Pubblicato il 23 febbraio 2016
Insicurezza e tracotanza del premier
La decisione di Renzi di porre la questione di fiducia sugli articoli della legge elettorale è, al tempo stesso, un segno di insicurezza e un messaggio di tracotanza. E’ lecito porre la fiducia sulle leggi ordinarie che un capo del governo consideri essenziale per la sua attività e per gli impegni presi con gli elettori, anche se l’Italicum non è mai stato presentato agli elettori. E’ sbagliato vedervi aspetti di incostituzionalità e prodromi di derive autoritarie. Tuttavia, di fronte ad un dissenso sia delle minoranze interne al PD sia del contraente dell’oramai dissolto Patto del Nazareno, Renzi avrebbe potuto ascoltare e forse cambiare alcuni meccanismi discutibilissimi e tutt’altro che “europei”. Non c’era, non c’è nessuna fretta poiché, comunque, la legge stessa contiene una cosiddetta clausola di salvaguardia. Entrerà in vigore il 1 luglio 2016 quando anche la riforma costituzionale del Senato sarà definitivamente approvata.
Evidentemente insicuri delle loro scelte e delle loro argomentazioni, Renzi e Boschi hanno preferito tappare la bocca ai dissenzienti, facendo, grazie alla richiesta di fiducia, cadere gli emendamenti e rinunciando a migliorare una legge alquanto imperfetta che dà la garanzia di consegnare una maggioranza parlamentare ampia al partito vittorioso, ma non di produrre effettiva governabilità. Renzi ha usato del voto di fiducia anche per dimostrare, per l’appunto, con tracotanza, di essere in controllo non soltanto della Camera dei deputati, ma soprattutto del suo gruppo parlamentare e del suo cosiddetto Partito della Nazione. Nei confronti delle minoranze, il segretario del Partito Democratico/Capo del governo ha applicato un metodo che chiamerò della tenaglia. Da un lato, con una lettera assolutamente inusitata ai segretari dei circoli del PD ha richiesto sostegno e disciplina in nome della “dignità” del partito (meglio tutelabili escludendo subito tutti, ma proprio tutti gli inquisiti). Forse voleva dire della “responsabilità” del partito di governo nei confronti, presumo, dei suoi declinanti e mutevoli iscritti e dei votanti alle primarie che lo incoronarono. Dall’altro, ha fatto balenare chiaramente la possibilità di non ricandidare i dissenzienti, cosa che potrà fare data l’ampia maggioranza di cui gode nell’Assemblea nazionale del PD, ponendo termine a carriere politiche di lungo, ma anche di breve corso.
Dal canto loro, le minoranze non hanno saputo costruire una visione condivisa delle riforme necessarie. Inoltre, non sono riuscite a sconfiggere quello che è attualmente il senso comune: è ora di fare le riforme. Chi non le fa oppure le impedisce non giova agli interessi del paese. Anche se i sondaggi indicano, inesorabili, che gli italiani si dividono quasi a metà fra i favorevoli e i contrari all’Italicum, Renzi sa che la convinzione che una nuova legge elettorale è indispensabile è molto più diffusa. Non gli è stato difficile spingere gli oppositori nell’angolo dei conservatori fannulloni istituzionali che portano la responsabilità di anni di riforme non fatte. Ha anche potuto criticare con successo Forza Italia per la sua incoerenza: favorevole al Senato, contraria al testo nella stessa stesura adesso in votazione alla Camera. Insomma, Renzi ha dimostrato grande astuzia e enorme capacità di manovra. Certamente, continuerà con le stesse tattiche e con simili rivendicazioni di riformatore anche nei due prossimi voti di fiducia. I numeri della prima fiducia sono appena inferiori a quelli sperati. Il rischio si paleserà nel voto segreto sul testo complessivo della legge sul quale il governo non può porre il voto di fiducia.
Qualcuno pensa di continuare la battaglia chiamando in causa il Presidente della Repubblica, ma probabilmente all’orizzonte l’unico ostacolo vero che si intravede è la valutazione che potrebbe venire dalla Corte Costituzionale. L’Italicum è una brutta legge, ma non è né la prima né l’ultima brutta legge approvata dal Parlamento italiano. Per adesso, quello che conta è vedere quanto grande sarà lo sconquasso interno al Partito Democratico e quanto e come influenzerà le prossime scelte/riforme del Presidente del Consiglio.
Pubblicato AGL 30 aprile 2015
Sopruso politico dei renziani
Sostituire i componenti di una Commissione non viola né il regolamento della Camera né, tantomeno, la Costituzione. Il titolare è malato oppure, come avviene abbastanza spesso, è impegnato in un’altra Commissione -quelle non permanenti prosperano. Oppure è bloccato da inconvenienti logistici, trasporti difficili e in ritardo, oppure è in missione ufficiale in Italia/all’estero. La sostituzione, riguardante uno al massimo due componenti di un gruppo, non soltanto è praticabile, abitualmente decisa dal capogruppo (che, lo dico subito, nel Partito Democratico al momento non esiste), è anche indispensabile per garantire il numero legale e la funzionalità della Commissione. Il caso estremo, ma molto importante, è dato dalla sostituzione temporanea, ad rem, vale a dire per un provvedimento specifico, affinché subentri un parlamentare particolarmente esperto della materia in discussione. Nulla di tutto questo si applica alla sostituzione di massa, addirittura dieci, degli esponenti della minoranza del Partito Democratico in Commissione Affari Costituzionali. Non risulta che i subentranti, il cui unico titolo è quello di essere renziani “spinti”, siano più competenti in materia elettorale di coloro che hanno sostituito né che posseggano expertise non altrimenti acquisibile né, quel che conta molto, abbiano seguito il dibattito, lungo, aspro, serrato e quindi siano particolarmente preparati e in grado di dare qualche contributo per migliorare l’Italicum. Anzi, i sostituti sono stati chiamati per stare zittissimi e votare la linea. Curioso che gli stessi renziani che sostengono che non esiste un sistema elettorale perfetto difendano l’Italicum come se fosse perfetto e non accettino, per principio, nessuna miglioria.
Da qualsiasi prospettiva la si guardi la sostituzione di massa dei Commissari della minoranza non è soltanto una forzatura. E’ un sopruso politico. Grave sarebbe se diventasse anche un precedente. Tutte le volte che un capogruppo subodora che un Commissario del suo gruppo/partito esprimerà riserve o, peggio, addirittura il suo esplicito argomentato dissenso (lasciando nei resoconti una traccia significativa) che potrebbe culminare in un voto contrario, voilà, procederà fulmineamente alla sua sostituzione, naturalmente, ad rem, solo per quella discussione e votazione. Renzi, Boschi, Guerini e Serracchiani, all’unisono con tutti i renziani della prima e delle prossime ore, ovvero le ore delle (ri-)candidature, dichiarano che un partito non è e non deve essere un’armata Brancaleone (che, lo ricordo, era variegata, ma anche molto divertente). Preferiscono fare del PD una caserma dove i soldati sono costretti all’obbedienza assoluta senza discussione dai sergenti di turno. La democrazia non abita nelle caserme anche se, qualche volta, per migliorarne la funzionalità persino i sergenti ascoltano i soldati che ne possono sapere di più su aspetti specifici della vita militare.
No, i pasdaran renziani non hanno questa volontà e neppure la capacità di ascolto. Sostengono, contro tutto quello che hanno scritto i teorici della democrazia da Hans Kelsen a Norberto Bobbio, che la democrazia è decisione a maggioranza “senza se e senza ma”. Imponendo di uniformarsi alla maggioranza del gruppo, adesso in Commissione, poi, lo hanno già annunciato, coartati dal voto di fiducia, anche in Aula, i renziani rischiano di calpestare l’art. 67 che prescrive ai parlamentari di esercitare le loro funzioni “senza vincolo di mandato”. Purtroppo, non posseggo la famosa e indispensabile sfera di cristallo per prevedere che Renzi voglia comunque utilizzare l’Italicum per andare subito, facendo saltare la riforma, peraltro non di spettacolare qualità, del Senato, a elezioni anticipate sia se approvato sia se bocciato. Sono sicuro che, comunque vada, la sostituzione dei dissenzienti in Commissione è il prodromo della loro non ricandidatura. Peccato, l’imperfetto Italicum rimarrà brutto e cattivo, il Partito Democratico darà dimostrazione che il suo aggettivo non è perfettamente attinente, i cittadini non avranno maggiore potere elettorale e le prossime elezioni non miglioreranno la qualità dei parlamentari (ancora nominati per circa tre quarti).
Pubblicato AGL 23 aprile 2015