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Verso il 25 settembre, il voto più utile è degli indecisi @formichenews

Il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarantotto ore prima del voto. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e Professore Emerito di Scienza politica e autore di “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet 2022)

Raramente ho assistito a una campagna elettorale tanto prodiga di informazioni sui leader, sui partiti, sulle tematiche. Sono giunto alla conclusione che se la campagna viene definita “brutta” è come la bellezza: sta negli occhi di chi, commentatori di poco senno e fantasia, la guarda (o forse no: guardano solo i concorrenti, per “copiarli”). Sappiamo che Giorgia Meloni, una volta richiamato Draghi, è la front runner. Sta conducendo una campagna elettorale il cui punto d’arrivo potrebbe essere Palazzo Chigi. Atlantista per sua definizione, si è convincentemente collocata dalla parte dell’Ucraina, ma si è trovata appesantita da un passato che non passa, e che qualche saluto fascista riporta all’ordine del giorno, e dalla sua appartenenza di genere che non sa né respingere né valorizzare. La zavorra più pesante e per lei (ma anche per gli italiani tutti) è il suo incomprimibile, indeclinabile sovranismo che si accompagna a deplorevoli compagni (oops, chiedo scusa) di strada: da Orbán a Vox. Se nell’elettorato italiano è passato il messaggio che, forse troppo poco troppo tardi, il Partito Democratico di Letta ha cercato di mandare: “tutto con l’Europa niente fuori d’Europa”, allora il consenso presunto per i Fratelli d’Italia potrebbe risultare ridimensionato. Chi con qualche strambato di cui non era ritenuto capace ha risollevato il suo consenso che sembrava in caduta libera è Giuseppe Conte.
Ambiguo la sua parte sia sull’Unione Europea sia su come affrontare l’aggressione russa all’Ucraina, Conte può ringraziare gli attacchi mal posti e male argomentati al reddito di cittadinanza, l’unica riforma davvero innovativa che il Movimento 5 Stelle di governo possa effettivamente rivendicare. Che i voti per i pentastellati di lotta crescano nel Sud rispetto a previsioni fosche è dovuto all’impatto positivo del reddito di cittadinanza e alla volontà di difenderlo. Anche su questo gli elettori hanno ricevuto utili informazioni. Immigrazione e sicurezza, scuola e sono finiti in secondo piano perché maiora premunt, c’è qualcosa di più importante destinato a essere una sfida duratura. No, personalmente non me la sento mai di parlare a nome degli italiani, ma il prezzo del gas e, più in generale, del carrello della spesa sono le due criticità che non ci abbandoneranno troppo presto. Non sarà il governo prossimo venturo a risolvere il problema. In verità, nessun singolo governo europeo ha la chiave della soluzione. Solo gli europei europeisti possono approntare una difesa decente e passare all’attacco con una politica energetica concordata.
Berlusconi ha rapidamente capito che il suo aggancio con il Partito Popolare Europeo è importantissimo per Forza Italia e, impostosi garante del (governo di) centro-destra, ha ipotecato i Ministeri degli Esteri e dei Rapporti con l’Europa. Però, ma non ce la fa proprio ad abbandonare la tassa che non è né piatta né, poi, neppure tanto bassa come quella proposta dal giocatore d’azzardo Matteo Salvini a corto di tematiche e di fiato. A testa bassa sia per tentare di trovare l’agenda perduta, quella di Draghi, sia per incornare il Partito Democratico, i quartopolisti Calenda e Renzi non hanno lasciato traccia nella campagna elettorale. Ma anche questa è una notizia utile per gli elettori. Ne sappiamo tutti di più. Certo, partivamo con le nostre preferenze che probabilmente sono cambiate di pochissimo (rispetto ai sondaggi). Alla fine, il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarant’otto ore prima del voto. Faites vos jeux. Ma, in democrazia non finisce qui.
Pubblicato il 22 settembre 2022 su Formiche.net
Il modello Orbán sarà la bussola del futuro governo di centro-destra @DomaniGiornale


Davvero qualcuno può pensare che i risultati delle elezioni politiche italiane non interessino al di là delle Alpi e sull’altra sponda del Mediterraneo? L’espressione “la pacchia è finita” fu usata, se ricordo bene, la prima volta (tragedia) dal Ministro degli Interni Matteo Salvini. Annunciava ai migranti che l’accesso all’Italia sarebbe stato loro sbarrato. Non portò bene a Salvini che qualche mese dopo fu estromesso dal governo. La pacchia che starebbe per finire adesso (farsa) è quella di cui, secondo Giorgia Meloni, l’Unione Europea avrebbe goduto a spese dell’Italia. Vale a dire che, secondo Meloni, l’UE avrebbe imposto ai governi e ai cittadini italiani politiche costosissime, evidentemente molto più dei 230 miliardi di Euro concessi per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, controproducenti, addirittura umilianti. Per porre fine a questa pacchia, il prossimo governo di destra si riapproprierà di molti pezzi di sovranità ceduta, strappata, perduta. Il modello, senza esagerare, potrebbe essere Orbán il quale, però, vuole “soltanto” continuare nelle sue politiche illiberali, restringimento dei diritti dei cittadini, dell’opposizione, della magistratura, dei mass media e rigetto della superiorità del diritto dell’Unione sul diritto nazionale. Questa è la “sovranità” che conta per mantenere il potere all’interno dell’Ungheria. Pertanto, è corretto pensare e temere che chi, come Meloni e Salvini, ritiene inopportuno e sbagliato sanzionare il capo del governo ungherese, abbia in mente comportamenti simili. In un certo senso, la questione Orbán è un più o meno involontario intervento a gamba tesa nella campagna elettorale italiana. Allo stesso modo, ma con minore impatto mediatico, l’affettuoso messaggio di auguri di Marine Le Pen a “mon cher Matteo” è assimilabile a un’interferenza, a mio modo di vedere, del tutto comprensibile e nient’affatto riprovevole.
La risposta dei “principali esponenti dello schieramento avversario” (uso parole di venerabile conio veltroniano) non si è fatta attendere. Il cancelliere tedesco, dall’autorevolezza non ancora molto consolidata, ha ricevuto a Berlino il segretario del PD Enrico Letta esprimendo il suo auspicio per un buon esito elettorale. Ci sta, eccome. Dal canto suo, con maggiore autorevolezza, Mario Draghi ha meritatamente ricevuto a New York il Premio Statista dell’Anno, indirettamente il riconoscimento che la sua opera di governo è stata molto apprezzata (peraltro, anche, come hanno rilevato tutti i sondaggi, dall’opinione pubblica italiana) e altrettanto indirettamente segnalando preoccupazione per quel che potrebbe venire.
Tutti i governi democratici acquisiscono legittimazione politica attraverso le elezioni (mi sono a fatica trattenuto dallo scrivere i mussoliniani “ludi cartacei”). Poi, però, debbono mantenere quella legittimazione con appropriati comportamenti nazionali e internazionali. Alcuni governi (e governanti) già sperimentati e già visti all’opera partono avvantaggiati poiché le loro controparti ne conoscono i lati positivi e quelli negativi. Altri, invece, sono oggetti largamente sconosciuti, come Fratelli d’Italia, totalmente priva di esperienze di governo nazionale e con amici europei dal governo ungherese a Vox non propriamente rassicuranti. Quel grande popolo che sono gli inglesi e, con l’omaggio alla regina Elisabetta, hanno ancora una volta dimostrato di essere, sosterrebbero che la prova del budino consiste nel mangiarlo. Però, non biasimerebbero i commensali europei per la loro visibile diffidenza.
Pubblicato il 21 settembre 2022 su Domani
Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).
“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?
Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.
Perché, professor Pasquino?
Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.
Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?
No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.
Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?
Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.
Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?
Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.
In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.
La Scienza politica racconta un’altra storia…
Quale?
Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.
Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista
L’Italia non è la Spagna, non c’è un Sanchez italiano
Uso le profetiche parole di Carlo Rosselli pronunciate nel 1936 a Barcellona, aggiungendovi un indispensabile punto interrogativo, per cautelarmi da un paragone che non può che risultare alquanto azzardato. In effetti, di commenti e riferimenti azzardati, anzi, semplicemente sbagliati e fuorvianti, alla Spagna ne abbiamo sentiti molti in questi anni. Qualcuno ricorderà come attorno a Veltroni si affollassero i sostenitori del sistema elettorale spagnolo quasi fosse un toccasana per l’Italia. Di tanto in tanto, faceva capolino la modalità di elezione del Presidente del Gobierno ad opera di una maggioranza assoluta con la sua rimozione affidata a una mozione di censura che ottenesse a sua volta una maggioranza assoluta contro il capo del governo in carica, strumento importante (ma neppure preso in considerazione dai renzian-riformatori costituzionali) dell’invidiabile stabilità dei governi spagnoli fintantoché i due partiti maggiori rimasero a livelli elevatissimi di consenso. Qualcuno, infine, lodava il bipartitismo spagnolo come se fosse “perfetto”, mentre, salvo poche eccezioni, tutti i governi spagnoli dovettero fare affidamento sui partiti regionalisti (da qualche tempo, diventati più esigenti e meno affidabili).
Non tanto paradossalmente, il successo della democrazia spagnola e la sua crescita economica crearono le premesse di grandi aspettative che, travolte dalla bolla immobiliare, colpirono tutto il sistema partitico aprendo spazi a destra, al centro e a sinistra contribuendo in maniera decisiva alla comparsa di nuovi attori politici e dimostrando che non era il sistema elettorale a favorire e puntellare quel quasi bipartitismo. Erano il PSOE e il PP che, organizzati e strutturati, forti sul territorio e con una leadership capace, attraevano il voto. Oggi, la vittoria del socialista Pedro Sanchez non è il prodotto di un’imponente avanzata in termini di voti e il suo PSOE non si avvicina affatto a quello di Felipe Gonzales né a quello di Zapatero.
A fronte del vero e proprio tracollo del Partido Popular, il voto socialista segnala una ripresa le cui motivazioni sembrano essere di due tipi. Da un lato, anche se non eccezionalmente solida e diffusa, la struttura organizzativa del PSOE è ancora in grado di fare politica sul territorio, di andare a mobilitare parti importanti dell’elettorato e a promettere loro in maniera credibile rappresentanza politica e sociale. Dall’altro lato, la leadership di Sanchez, emergente da una breve, intensa e complessa attività di governo ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide e di meritare di continuare. Tenuta a bada la sfida della nascente estrema destra di Vox, percentualmente il partito sovranista di minor successo fra quelli sorti negli ultimi anni negli altri paesi europei, i Socialisti spagnoli sanno di dovere costruire con pazienza una coalizione capace di durare affrontando prove non facili, a cominciare da quella delle elezioni europee e a continuare con il consolidamento della crescita economica.
Sono sempre molto circospetto nel trarre lezioni per l’Italia da altri paesi, senza mettere in guardia dalla diversità degli assetti istituzionali. Già l’attuale situazione politica italiana complessiva si presenta molto più complicata di quella spagnola, ma soprattutto è il Partito Democratico che, contrariamente al PSOE, non sembra avere ancora imparato alcune lezioni fondamentali. L’elezione del nuovo segretario ad opera di una platea allargata di votanti non ha prodotto nessuna impennata di mobilitazione e nessuna iniezione di energia. Il nuovo segretario, a prescindere da un suo ruolo non molto di spicco nella precedente “ditta”, non ha rotto con il passato recente e sembra guardare al centro piuttosto che a (ri)disegnare un profilo di sinistra, con la conseguenza di lasciare non poco spazio proprio alla sua sinistra. Privo di una oratoria trascinante Zingaretti non ha nulla che ne faccia il Sanchez italiano e neppure che possa consentirgli di mettere in moto un essenziale processo di ricomposizione delle sparse membra della sinistra italiana. Carlo Rosselli non potrebbe che constatare che la Spagna è lontana e non ha praticamente nessuna possibilità di prefigurare il domani italiano.
Pubblicato il 29 aprile 2019 su huffingtonpost.it