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L’allargamento è coerente con il sogno europeo @DomaniGiornale

L’Europa non è e non è mai stata (solo) una espressione geografica. Sarebbe sufficiente leggere il libro del grande storico Federico Chabod, Storia dell’idea di Europa (Laterza 1961) per rendersene pienamente conto.

L’Unione Europea non è né un sogno né un’utopia. Gli autori del Manifesto di Ventotene (1941), soprattutto Altiero Spinelli, ma anche Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, non avrebbero esitazioni a respingere l’etichetta di sognatori, e la loro storia personale e politica testimonia impegno e concretezza.

Geograficamente, forse l’Europa non va dall’Atlantico agli Urali, come disse il Presidente francese François Mitterrand. Certamente, però, gli europei orientali, a cominciare dagli spesso molto criticati polacchi e ungheresi, lo dimostrano la loro storia e la loro cultura, i loro intellettuali e i loro dirigenti politici, anche quando è possibile e opportuno obiettare alle loro scelte, sono europei. Fanno parte a pieno titolo della storia e della politica, persino delle aspirazioni, degli (altri) europei. Debbo aggiungere “occidentali”? Ma, allora, dove sta la linea divisoria?

Il confine fra europei occidentali e europei orientali si colloca là dove cadde, prontamente denunciata da Winston Churchill, la cortina di ferro? Smantellata quella cortina, l’Unione degli europei occidentali avrebbe dovuto tenere a bada tutti coloro che nell’Europa orientale volevano, vollero produrre i requisiti socio-economici e anche politici necessari a soddisfare le condizioni per diventare Stati-membri dell’Unione? Oppure, come più volte, a mio parere in maniera convincente, ha sostenuto l’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, l’allargamento fu, al tempo stesso, il riconoscimento della “europeità” di quelle donne e di quegli uomini, dei loro rappresentanti e dei loro governanti, ma anche la mano tesa per favorirne la crescita e la stabilizzazione democratica?

Questa motivazione vale ancora e anche per gli Stati che dai Balcani si trovano in uno stadio avanzato di paesi candidati e per l’Ucraina che sta iniziando una procedura inevitabilmente lunga, ma con la prospettiva di un esito positivo. Spinelli non si pose mai il problema dei confini dell’Europa federale che bisognava costruire per superare gli Stati nazionali portatori inevitabili di spinte alla guerra e per conquistare pace (giusta) e prosperità. Qualsiasi obiezione nei confronti dei cittadini e dei sistemi politici “orientali” che si fondi sulla inadeguatezza insuperabile di alcuni di loro alla democrazia e ai suoi (nostri) valori, non soltanto non trova nessuna traccia nel pensiero di tutti coloro che hanno contribuito a dare vita, a ampliare, a migliorare l’Unione Europea, ma contiene elementi di intollerabile etnocentrismo, al limite del razzismo, che certamente cozzano con i valori degli Europei.

Pubblicato il 10 maggio 2022 su Domani

Da Churchill a Conte, è la responsabilità che fa maggioranza. Il commento di Pasquino @formichenews

Noto con rammarico che nessuno mi ha mai riferito che, mentre Churchill combatteva la sua orgogliosa guerra contro Hitler, i retroscenisti inglesi s’ingegnavano a individuare chi stava facendogli le scarpe pronto a sostituirlo. Lo scoop lo fece il very smart retroscenista del Daily Telegraph. Tutti vennero a sapere che a Cambridge John Maynard Keynes non parlava mai di sudore (very unbritish), di fatica (troppo lower-class british), di lacrime e sangue, ma di buttercookies. Lui, Keynes, era pronto a sostituire Churchill sicuro di debellare la guerra e le sue conseguenze. Non se ne fece nulla, ma, nel frattempo, i gossipari e anche i migliori analisti del dopo guerra (54 milioni di morti, un pochino di più di quelli della pandemia Covid-19) avevano annunciato che, vinta la Seconda Guerra Mondiale, Churchill avrebbe vinto anche le prime elezioni in tempo di pace. Re Giorgio VI non mise bocca e vinsero i laburisti di Clement Attlee, junior partners, pacati e sereni, del governo di unità nazionale.

Più che di essere sostituito adesso, Conte, attento lettore delle vicende anglosassoni, teme per l’appunto le elezioni politiche del 2023. Infatti, come lasciano trapelare alcuni perspicacissimi retroscenisti, sta preparandosi per la Presidenza della Repubblica (gennaio 2022). Quanto a Draghi non dà nessun segno di interesse per ottenere un’alta carica istituzionale in Italia. Sembra che la moglie preferisca una vita tranquilla, senza grane e incoraggi il marito a scrivere articoli per “The Financial Times” che diano la linea alle più o meno frugali autorità europee: “MES or Not MES, this is the problem”. Questo è lo stato del dibattito politico in Italia, rallegrato da qualche accusa di tradimento e da inviti a vergognarsi delle menzogne.

Qualcuno ritiene che più di quello che abbiamo dai politici e dagli avvocati del popolo attualmente al governo non è possibile ottenere. Quindi, bisogna già adesso pensare al dopo e vietare slogan fuorvianti e, forse involontariamente, minacciosi: “tutto tornerà come prima”. Altri pensano che chi scrive “tutto andrà bene” sia non preveggente, ma privo di televisore. Nessuno sembra pensare che non esiste neanche un esempio, lo scrivo per i nostri comparatisti d’eccellenza, di un governo e del suo capo (Commander in Chief) sostituiti nel corso di una emergenza, di una guerra, senza che si facesse un passaggio elettorale come annunciò solennemente chi poi quel passaggio non lo attese.

Altrove, non soltanto nella primavera del nostro scontento, le opposizioni e i loro giornali, l’opinione pubblica i commentatori indipendenti (ah, dite che non ce ne sono?), invece di sprecare tempo nel fare totonomi, metterebbero il meglio delle loro energie sia a individuare i problemi, anche gravi, del fatto, del mal fatto e del non fatto, sia soprattutto a suggerire, con l’avallo della scienza e delle comparazioni fondate, alternative praticabili. Quegli uomini e donne al governo, nazionale e delle regioni, e quegli uomini e donne all’opposizione saranno chiamati ad assumersi le loro specifiche responsabilità alla scadenza elettorale. Meglio se avendo cooperato per alleviare, ridurre, far passare la “nuttata”, la pandemia e il dolore degli italiani. Tutto il resto non serve a niente; anzi, peggiora quello che è già molto brutto di suo.

Pubblicato il 15 aprile 2020 su formiche.net

L’ipocrisia di dire che tutto cambierà @fattoquotidiano

Di fronte a una catastrofe di proporzioni inaspettate e dalle conseguenze imprevedibili dobbiamo lanciare messaggi di speranza o guardare con occhi lucidi, dietro, intorno e avanti? Non dovremmo tutti controllare le emozioni e affidarci soltanto alle cognizioni? So che non possiamo fare a meno delle emozioni, ma credo che le cognizioni e le ragioni siano più importanti per capire, per reagire e per cambiare. Piuttosto che affermazioni retoricamente ottimistiche, non dovremmo preferire, anzi, pretendere parole di verità: “I have nothing to offer but blood, toil, tears, and sweat”? anche se contro il coronavirus non è in corso una guerra, analogia del tutto impropria. È una guerriglia con i suoi focolai e i nemici stanno già da qualche tempo fra noi come pesci nell’acqua.

Alle prime, ma insopprimibili, manifestazioni del coronavirus, era opportuno (e utile) affermare con un tono di malcelata superiorità, anche morale: “Milano non si ferma”? Serve davvero a renderci meno preoccupati e meno infelici leggere su molte lenzuola stese al vento che “Andrà tutto bene”? Possiamo raccontarlo ai parenti e agli amici di quindicimila vittime per consolarle? Come potrà andare “tutto” bene per coloro che hanno perso nonni, genitori, parenti e, talvolta, figli? È lecito lasciare pensare che d’ora in poi, neanche più discuteremo di un passato dolorosissimo e vicinissimo, perché “tutto andrà bene”? Tutto, che cosa? per coloro che non hanno più la possibilità di lavorare nelle attività autonome che si erano costruite con fatica, impegno e orgoglio. Per coloro che hanno perso il posto di lavoro e sono consapevoli che tutto è andato male e comprensibilmente temono che riprendere non sarà né facile né rapido, che il futuro si presenta sotto una densa scura nube di enormi inconvenienti, avversità, ostacoli? E chi sono, che cosa sanno poi costoro che annunciano il futuro radioso nel quale “tutto andrà bene”? Infine, sentiamo annunciare e leggiamo molto frequentemente che “torneremo come prima”. Sappiamo, me lo auguro, che il “prima” per molti non era affatto una situazione positiva, apprezzabile, nella quale stavano bene, avevano un lavoro e un reddito, forse persino speranze di miglioramenti oppure si sentivano già realizzati. Forse dovrebbero saperlo anche coloro che, “prima”, godevano di situazioni di grande benessere, di potere, di opportunità. Sono coloro che anche in questa occasione perdono poco e rischiano meno degli altri. Se hanno un minimo di capacità riflessiva, però, neppure costoro pensano e desiderano tornare “come prima”. Anzi, dovrebbero riflettere su quello che non ha funzionato e su come trovare, alimentare, diffondere anticorpi, ma soprattutto su come predisporre strutture e cambiare comportamenti.

No, non dobbiamo affatto augurarci che “tutto tornerà come prima”. Al contrario, dobbiamo fare sì che il nostro sangue, il nostro lavoro, le nostre lacrime e il nostro sudore servano a cambiare profondamente le società nelle quali viviamo e le modalità con le quali ci comportiamo. No, non sono affatto sicuro che abbiamo capito che la nostra libertà finisce dove comincia la libertà degli altri e che siamo liberi proprio nella misura in cui gli altri accettano l‘idea/la necessità/l’imperativo della loro stessa libertà “condizionata”. Che abbiamo capito che davvero esiste la società, non individui singoli fieri, presuntuosi, autosufficienti. Che “no man is an island entire of itself; every man is a piece of the continent”. Che la vita può diventare “solitary, poor, nasty, brutish, and short”, se non impariamo a rapportarci agli altri rispettando le regole che ci siamo dati oppure cambiandole di comune accordo. Allora, meditando, nell’ordine, quanto detto dall’uomo politico Winston Churchill, dal poeta John Donne, dal filosofo Thomas Hobbes, affermiamo consapevolmente e convintamente che nulla tornerà come prima. Faremo il possibile affinché molto del nuovo sia per il più alto numero di persone (come vorrebbe John Rawls) migliore, di gran lunga migliore, di prima.

Pubblicato il 10 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano

Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader #letture.org #intervista

Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader Università Bocconi Editore 2018

Professor Pasquino, Lei è autore del libro Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader edito da Università Bocconi Editore: cosa si intende con l’espressione “deficit democratico”?

La democrazia, potere del popolo, è esigente. Richiede al popolo che desideri, come dovrebbe, esercitare il potere che gli appartiene, di interessarsi alla politica, di informarsi sulla politica, di partecipare alla politica. Richiede ai rappresentanti e ai governanti, rispettivamente, di prendere e tenere in grande considerazione le preferenze e gli interessi del popolo, naturalmente, selezionando quelle preferenze e quegli interessi, e ai governanti di tradurre preferenze e interessi in politiche pubbliche. Impone a governanti e a rappresentanti di essere responsabili di quello che hanno fatto, non fatto, fatto male e consente agli elettori periodicamente di valutare l’operato dei governanti e dei rappresentanti, cosa che gli elettori riusciranno a fare nel migliore dei modi se avranno acquisito il massimo possibile di informazioni. Dunque, qualche deficit democratico si può trovare fra rappresentanti irresponsabili e governanti incompetenti. Altri deficit stanno negli elettori che non si informano e non partecipano. Altri ancora possono trovarsi nelle istituzioni se funzionano in maniera opaca, chiusa, autoreferenziale. Grandi deficit stanno, infine, nelle leggi elettorali, quelle che danno poco o nullo potere agli elettori, ad esempio, non consentendo loro di votare per i candidati preferiti, ma obbligandoli a scegliere esclusivamente i partiti, come è stato a causa della legge Calderoli (Porcellum) e della davvero pessima legge Rosato. Ridimensionare e minimizzare il potere elettorale significa togliere potere al popolo, quel potere che è alla base di tutte le democrazie. Le distorsioni che ne seguono, per esempio, che i parlamentari nominati risponderanno, peggio, ubbidiranno ai dirigenti di partito e di corrente e non cercheranno di capire quali sono le preferenze dell’elettorato, sono gravi. Danno corpo a un deficit di rappresentatività e di responsabilità che si ripercuote su tutto l’assetto democratico: deficit di democrazia nella democrazia.

I deficit democratici abitano anche nella società?

Esistono certamente anche molti deficit democratici nella società. Una società che non sa dare vita a associazioni robuste e autonome dai partiti e dalle lobby, con notevole e frequente partecipazione degli iscritti, dei soci, è ovviamente deficitaria. Laddove prevale l’individualismo: “mi rappresento da solo”, “tratto direttamente con gli uomini e le donne, meno, che hanno potere”, “organizzo esplosioni di protesta (spesso senza proposta”, c’è un deficit che si manifesta in maniera quasi hobbesiana: “la protesta di tutti contro tutti”. Una società nella quale prevalgono le corporazioni (c’è un capitolo apposito nel mio libro), vale a dire associazioni che difendono sempre e comunque gli interessi dei loro associati, come i magistrati, numerosi sindacati di settore, la burocrazia, i giornalisti, i professori, è un ostacolo alla ricerca delle modalità, con le quali, di volta in volta, si può giungere all’individuazione di interessi generali, del bene comune. Una società che si frammenta e che non si confronta in dibattiti pubblici sui grandi temi (uno dei quali, è giusto non dimenticarsene, è come stare nell’Unione Europea e quali riforme proporre) è deficitaria proprio come una società che non sappia/non voglia imparare la propria storia e non studi e conosca la propria Costituzione. Una società priva di senso civico è intrinsecamente deficitaria.

In che modo le democrazie possono apprendere e (auto)correggere i propri deficit di rappresentanza e di decisionalità?

Molto spesso i deficit, ad esempio, quelli di rappresentanza e di funzionamento, sono visibilissimi. Quando qualcuno rivendica le improbabili virtù dell’astensionismo rende visibile il deficit di partecipazione. Quando un partito si nega al confronto parlamentare rende visibile il deficit di rappresentanza. Quando una piccola associazione (i piloti, ad esempio, oppure gli operatori di una linea metropolitana) prende in ostaggio un paese o una città rende visibile la sua volontà di non tenere in nessun conto gli interessi generali, quindi, il deficit di senso civico. Il processo di apprendimento dovrebbe cominciare negli asili e nelle scuole. Dovrebbe continuare sui luoghi di lavoro. Potrebbe, talvolta, emanare dal Parlamento se i rappresentanti sapessero e volessero comunicare alla società quanto importante e difficile è la politica come attività di sintesi fra esigenze diverse, talvolta divergenti. Il processo di apprendimento passa anche e molto attraverso i mass media e gli operatori della comunicazione, troppo spesso non preparati a chiarire concetti e procedimenti complicati come quelli del mondo contemporaneo. Talvolta, ma non è il caso italiano, tranne in pochi momenti della nostra storia, sono i politici stessi, rappresentanti e governanti (decisori) che hanno la grande opportunità di chiamare all’azione per superare i deficit. Li definisco “predicatori” di buona politica, che insegnano con i “sermoni”, ma anche con i loro comportamenti e con i loro stili di vita. Tali, nel XX secolo, sono sicuramente stati Winston Churchill e Charles de Gaulle. Oggi la personalizzazione politica, alla quale ho dedicato un capitolo, sembra favorire la comparsa di politici narcisisti e esibizionisti non di predicatori colti, credibili, capaci di correggere i deficit e di indicare la strada.

Come colmare i deficit?

Colmare i deficit si può, temporaneamente, poiché è il funzionamento stesso dei sistemi politici, alcuni più di altri, che, nel corso del tempo, fa sorgere deficit insospettati. Bisogna operare sia sulla società incoraggiandola ad acquisire interesse e informazione, a essere più partecipante, a combattere le istanze corporative che emergono in continuazione, ad aprire dibattiti sui grandi temi (oggi, oltre all’Europa, l’immigrazione e l’inclusione/esclusione, le diseguaglianze, produttive o intollerabili). Questa è una classica fatica di Sisifo. Con ogni generazione si rischia di dovere cominciare da capo. Sul versante istituzionale, esistono assetti, strutture, istituzioni e regole migliori di altre. Ho già detto delle leggi elettorali, ma aggiungo che bisogna guardare e eventualmente importare quelle che funzionano meglio, quelle che danno più potere di scelta e di influenza agli elettori (anche su questo c’è un capitolo). Bisogna semplificare il circuito istituzionale con chiara ripartizione di compiti e di responsabilità, anche personali, con premi e punizioni. Le democrazie sono diventate tali anche grazie all’attività di uomini e donne che si sono organizzati dando vita a partiti. Molti dei deficit politici e democratici che vediamo e lamentiamo dipendono dal declino dei partiti. Ne discuto nel capitolo intitolato “Dalle oligarchie ai gazebo”. Ricostruire partiti dal funzionamento interno democratico, aperti a cittadini che vogliano partecipare alla “conversazione” politica, ma anche ai processi decisionali, è un compito arduo, ma indispensabile per chi creda che si debbono colmare i deficit politici, sociali, democratici e vogliono impegnarsi a farlo. Tutto questo costa fatica e impegno, studio e azione, ma si può fare. Per non diventare e rimanere cittadini “deficitari” lo si deve fare.

Pubblicato il 10 aprile 2018 su letture.org