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Sull’Ucraina non basta pensare solo alla tregua. Bisogna avere un pensiero lungo @DomaniGiornale

L’aggressione russa all’Ucraina ha costituito un test per la politica di molti stati europei e degli USA. Le modalità di una difficile, ma, ovviamente, auspicabile conclusione delle ostilità, certamente non ancora definibile pace, si prospettano come un altro significativo test. L’aggressione ha messo alla prova la disponibilità non soltanto degli USA per ragioni di politica di potenza, ma soprattutto degli Stati-membri dell’Unione Europea ai quali si è rapidamente aggiunta, fatto di assoluta importanza, la Gran Bretagna, a sostenere militarmente e finanziariamente il paese aggredito. Alcuni Stati come Svezia e Finlandia, hanno addirittura sentito la necessità e l’urgenza di uscire dalla loro storica condizione di neutralità per entrare a fare parte della Nato.
Tutti i paesi dell’Unione, con le occasionali prese di distanze dell’Ungheria, che rimangono ai limiti dell’irrilevanza, hanno votato in più round sanzioni economiche, commerciali, di ostacolo alla circolazione alla Russia e ai suoi dirigenti. Non sono mancati coloro che ossessivamente denunciano ritardi e inadeguatezze dell’Unione, ma in quantità e in qualità viste nella loro sequenza le misure prese dalla UE segnalano importanti, in qualche modo imprevedibili, ad esempio quelle del governo italiano semisovranista, convergenze e condivisioni di valutazioni e prospettive. Fra queste prospettive sta la decisioni di procedere a dotare l’Unione di indispensabili strumenti di difesa e la disponibilità dei volenterosi, in ordine alfabetico, Francia, Germania, Gran Bretagna, a continuare a sostenere palesemente e senza riserve l’Ucraina di Zelensky.
La posizione, che non chiamerò USA, ma del MAGAPresidente Trump, quasi ineccepibile per quel che riguarda l’appoggio militare, ha subito enormi oscillazioni politiche e negoziali. La matta voglia di Trump di intestarsi una qualsivoglia pace lo ha portato a eccessi di lodi e di concessioni a Putin e a atteggiamenti sgradevoli e offensivi nei confronti di Zelenski. Quanto all’Unione Europea, il documento di Strategia di Sicurezza Nazionale, oltre a critiche sulla qualità delle leadership politiche europee (da che pulpito!), la dice lunga sulla concezione dei rapporti fra USA e Unione e sulla sua preferenza, forse intenzione di smembrare l’UE, magari contando sull’appoggio di chi continua imperterrita a volerne sostenere alcune posizioni e propositi.
La condizione e lo sbocco dei negoziati Trump/Putin è per l’Unione europea un altro test di grande importanza. Due scelte significative per il presente e per il futuro debbono essere lasciate e non imposte a Zelenski; entrare a far parte della Nato e accedere all’Unione europea. Inaccettabile è una preclusione assoluta senza limiti temporali. Tocca a Zelensky decidere se le garanzie di sicurezza offerte da Trump siano credibili, rassicuranti e sufficienti. Quanto alla adesione all’Unione, il divieto deve essere temporaneo. Non si può consentire alla Russia l’esercizio di un potere di veto che Putin o chi per lui (sic) farebbe valere nei confronti di altri stati aspiranti, ad esempio, la Georgia e la Bielorussia se e quando giungerà l’ea post-Lukashenko.
Trump puntella Putin, ma quel pezzo di ordine politico internazionale che i due vanno con improvvisazione quasi inconsapevolmente costruendo guarda al passato. Nel bene, poco, l’equilibrio del terrore, che c’è stato; nel male molto, l’oppressione di tutta l’Europa centro orientale, dall’altra parte le mani libere sull’America latina, quel passato non può tornare. Sull’impero russo il sole è tramontato da tempo e l’America non tornerà grande come nel tempo in cui la Cina si rotolava nella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Suggerirei ai negoziatori in buona fede che risolvere temporaneamente e precariamente la guerra russo-ucraina, per quanto decisamente utile e importante non basterà in assenza di un pensiero lungo impostato su un nuovo decente ordine internazionale. La Cina non è abbastanza vicina.
Pubblicato il 17 dicembre 2025 su Domani
Lo sguardo corto di Meloni e gli interessi dell’Italia @DomaniGiornale

La diplomazia è anche un esercizio, spesso acrobatico, di equilibrismo. Ma, è vero che la politica estera di un paese che sia media potenza deve essere improntata alla ricerca degli equilibri, di volta in volta preferibili, tenendo nel massimo conto le alleanze, gli impegni presi, le promesse fatte agli elettori e, non da ultimo, le posizioni ideali del proprio partito.
Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere consapevolezza del fascio di problemi che il suo esplicito, mai nascosto, sovranismo implicava nei rapporti con gli Stati-membri dell’Unione Europea e con la Commissione, motore delle iniziative e attività. Pur rimanendo con la testa fuori dalla maggioranza che ha espresso e sostiene la Commissione è spesso riuscita a mettere piede nelle decisioni che contano. Lo ha fatto ridefinendo, ridimensionando il suo sovranismo senza tagliare i ponti con i partiti sovranisti al governo in Ungheria e in Slovacchia o all’opposizione, in particolare in Spagna. Però, la risposta alle furibonde e maleducate critiche all’Unione Europe formulate in un documento di strategia del National Security Council degli USA e alla profezia, quasi un augurio di smembramento dell’Unione, non può essere quelle di un delicato pontiere.
Quel ponte, già traballante, fra Usa e Unione Trump e i suoi collaboratori lo hanno distrutto. Non casualmente e non per una infelice e cattiva scelta delle parole, ma perché da tempo nutrivano astio per la costruzione di una unione di Stati che, secondo loro, si facevano/fanno proteggere militarmente senza pagare il conto, in maniera furba e egoistica, non più accettabile.
La presidente del consiglio italiana non ha condiviso le risposte severe e preoccupate dei maggiori leader europei. Ancora una volta il suo invito a cercare di capire il punto di vista di Trump è molto ambiguo potendo essere interpretato come sostegno alla posizione del Presidente appare come un indebolimento preventivo delle risposte che l’Unione riuscirà ad approntare e dare. Per di più la reazione di Meloni ha lo sguardo molto corto. Non vede che le elezioni americane di metà mandato nel novembre 2026 potrebbero già trasformare il Presidente in carica, se i repubblicani perdessero la maggioranza in una o entrambe le Camere in un’anatra zoppa, comunque già non rieleggibile nel 2028.
Non dovrebbe essere difficile neanche per i dirigenti politici che non sappiano ragionare sul lungo periodo, come fanno gli statisti, cogliere la volatilità della situazione. I molto eventuali vantaggi derivanti da un rapporto privilegiato con l‘attuale Presidente dovrebbero essere valutati alla luce degli inconvenienti e delle critiche che causeranno nei rapporti con gli stati-membri dell’Unione Europea. Quegli ipotetici vantaggi non contemplano affatto una crescita di prestigio per il governo Meloni e per la Nazione Italia, Anzi sono vantaggi limitati, di breve periodo, effimeri. Da un momento all’altro possono rivelare la contraddizione congenita e insanabile del sovranismo.
Se ciascun governante antepone e impone il suo interesse nazionale, lo Stato più forte vincerà cosicché il sovranismo Maga è regolarmente destinato ad avere la meglio su qualsiasi concorrente solitario. Qui sta l’altra contraddizione del sovranismo che intenda sfruttare vantaggi dalla sua tanto orgogliosa quanto presunta autonomia. Non sostenuta dagli USA, vista con sospetto dalla maggioranza partitica e politica dell’Unione Europea, Giorgia Meloni rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’UE in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale e migliorare il coordinamento politico in senso federalista, l’esatto contrario di qualsivoglia sovranismo. In una Unione indebolita anche l’Italia sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale, certamente meno sovrana.
Pubblicato il 10 dicembre 2025 su Domani
Duello a sinistra. A chi ha giovato? #dibattito #13Dicembre #Bologna Centro studi sui valori e la tradizione socialista #Controvento La vera storia di Bettino Craxi @rubbettinobooks
Centro sociale Giorgio Costa
Via Azzo Gardino 48, Bologna
Sabato 13 dicembre 2025, ore 10,30
Il Centro Studi sui Valori e la Tradizione Socialista e la rivista Riformismo Oggi organizzano un dibattito sul libro del giornalista della Stampa Fabio Martini
“Controvento – La vera storia di Bettino Craxi”.
Ne discutono con l’autore: il prof. Gianfranco Pasquino, emerito di scienza politica e il prof. Andrea Morrone, ordinario di diritto costituzionale. Presentano: Giuseppe Rossi (CEVTS) e Fabio Busuoli (Riformismo Oggi).
La pace di Kiev è ostaggio di un incrocio di debolezze @DomaniGiornale

Qualcuno vince oppure i combattenti la guerra giungono ad un accordo. Se è saggio, chi vince non impone costi altissimi a chi perde, ma accompagna la sua vittoria con qualche concessione generosa. I perdenti umiliati costituiscono un pericolo futuro. I belligeranti si accordano quando appare loro evidente che la vittoria è molto improbabile e lontana e comporta prezzi elevatissimi che, probabilmente, i loro concittadini non vorrebbero pagare. A mio parere, historia magistra vitae, vale a dire che esistono riflessioni basate su conflitti precedenti che consentono di imparare almeno quali errori evitare, qualche volta quale sequenza di azioni porre in essere. Prioritario, sempre, è il “cessate il fuoco”, condizione che la “operazione militare speciale”, ovvero l’aggressione di Putin all’Ucraina, non comporta. La situazione è diventata ancora più complicata poiché altri attori si sono trovati più o meno intenzionalmente coinvolti, poiché quella guerra illumina lo stato del considerevole disordine mondiale e può avere conseguenze gravi anche in almeno un’altra zona problematica. Per la precisione i governanti della Cina, che sostengono Putin in maniera sostanziosa, lo fanno senza nascondere che una sua vittoria darebbe impulso alla loro mal/mai celata ambizione di annettere (riprendersi) Taiwan.
Nessuna delle soluzioni finora proposte alla guerra in corso appare accettabile poiché sono fondate su visioni egoistiche e di corto respiro. Il Piano in 28 punti di Trump, forse scritto a Mosca, si sarebbe tradotto in una resa dell’Ucraina, inaccettabile anche dall’Unione Europea e certo non in grado di soddisfare i criteri di nessun Premio Nobel per la Pace. Dimenticare che le motivazioni finora dominanti dell’inquilino fino al 2028 della Casa Bianca sono flagrantemente personali: ambizione e arricchimento, non consente di capirne le contraddizioni e le giravolte. Qualsiasi collaborazione con l’Unione Europea porterebbe ad esiti positivi, ma Trump, da un lato, non potrebbe appropriarsene in esclusiva e vantarsene, dall’altro, l’Unione Europea dimostrerebbe una rilevanza politica che ripetutamente la Casa Bianca ha voluto tarpare e cerca di negare.
Il logorio è destinato a continuare con racconti mai del tutto convincenti spesso plasmati da preferenze e convenienze politiche. Da ultimo sembra che le forze armate russe stiano avanzando anche se lentamente mentre lo scontento emerge in alcuni settori della popolazione. La corruzione, profonda piaga preesistente Zelenski, continua a fare danni economici e al morale degli ucraini. Dall’imprevedibilità di Trump, che nel frattempo sta “risolvendo” il caso del Venezuela, ma anche no, è improbabile attendersi una mossa decisiva. Anzi, è meglio sperare che nessuna mossa avvenga con il rischio che vada a puntellare, come è già avvenuto in due precedenti occasioni, incontro di Anchorage e i 28 punti, il trono di Putin quasi che l’ordine mondiale possa essere affar loro. A Putin, interessato a che quel nuovo ordine nasca riconoscendo le sue mire imperiali, non resta che attendere gli errori e i cedimenti di Trump dell’Unione Europea. Nessuno, però, sembra avere né il potere militare né l’immaginazione politica per spingere verso una soluzione, anche imperfetta, ma che salvi vite e risorse.
A fronte delle critiche di coloro che vedono solo i ritardi e le inadeguatezze dell’Unione vanno segnalati due sviluppi. Il primo è che l’Unione si sta allargando con l’adesione di cinque nuovi stati. Un buon esempio di crescita dello spazio di democrazia e diritti. Il secondo sviluppo è che la preparazione di una seria difesa dell’Europa e dei suoi stati membri continua a fare passi avanti. Il segnale è forte, sperabilmente destinato a risuonare anche a Mosca (e a Washington). Poiché sono kantianamente fermamente convinto che si vis pacem, para democratiam, credo che entrambi gli sviluppi vadano nel senso giusto. Se fosse possibile una reale collaborazione fra USA e UE la soluzione diventerebbe a portata di mano. Al momento bisogna cercare di limitare i danni che, comunque, non debbono essere pagati dall’Ucraina.
Pubblicato il 3 dicembre 2025 su Domani
È uscito il fascicolo “L’etica pubblica ma non solo” a cura di Gianfranco Pasquino #Paradoxa Anno XIX– Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2025
Non finisce qui. Le considerazioni con le quali concludo vanno intese come una sorta di prontuario democratico. La prima considerazione riguarda la competizione democratica che, ampia, aperta, allargata, approfondita, trova sempre limiti nell’etica. Ci sono comportamenti vecchi e nuovi, ad esempio attacchi, più o meno infamanti, alle persone in politica, che una pluralità di cittadini ritiene inaccettabili, deplorevoli e riprovevoli. Secondo, truccare la competizione politica dando vantaggi, ad esempio, di finanziamenti e di visibilità, ad alcuni concorrenti che portano in politica risorse suscettibili di produrre poi conflitti di interessi, tocca un punto nevralgico dell’etica in politica. Terzo, è plausibile ipotizzare che il grado di presenza e di effettività dell’etica in politica dipenda dalla sua presenza e effettività nella rispettiva società con potenziamenti e indebolimenti reciproci. Pertanto, uno studio che intenda essere esauriente dovrebbe partire da una ricognizione sull’etica nelle famiglie, nelle scuole, nelle confessioni religiose, nelle associazioni, in particolare nei sindacati e nei partiti, nella cultura politica complessiva. Oserei affermare che esiste un circolo virtuoso di etiche che si rincorrono e si rafforzano.
Così sia.

Contributi:
Lo spazio dell’etica in politica
Gianfranco Pasquino
Etica e politica: rapporti tesi
Giovanni Giorgini
L’etica del servizio
Maurizio Viroli
Etica costituzionale
Francesca Rescigno
«La Repubblica delle pere indivise»: etica, politica e non solo nell’Italia contemporanea
Antonio Maria Orecchia
Un giornalismo etico è ancora possibile
Roberto Vicaretti
Viva la contesa. Ma si pensi agli elettori perduti @DomaniGiornale

La contendibilità (del governo) sta, in maniera non dissimile dalla bellezza, negli occhi di chi guarda. Vedere che i voti del proprio schieramento sono cresciuti è confortante. Constatare che i concorrenti si sono trovati in un sostanziale stallo è quasi altrettanto incoraggiante. Ma il futuro non è mai la semplice prosecuzione dell’oggi poiché numerosi altri fattori sono destinati a fare la loro comparsa. Votando (o no) nelle elezioni regionali, gli elettori erano ampiamente consapevoli della posta in gioco e anche delle problematiche alle quali i candidati presidenti, i loro partiti e, ancor più, le loro coalizioni avevano formulato le loro risposte programmatiche. In Veneto, in Campania e in Puglia non c’era nessun Presidente ricandidato che potesse trarre vantaggio dalle sue prestazioni di governante mettendole in contrapposizioni con le inevitabilmente meno solide promesse degli sfidanti. Peraltro, qualche vantaggio esiste quasi sempre, in termini di visibilità e di relazioni, per le coalizioni governanti. In tutt’e tre i casi, quei governi regionali potevano vantare una lunga storia, quantomeno decennale. Non ne è venuta nessuna sorpresa, ma soltanto una lezione di cui peraltro politici e commentatori attenti non dovrebbero avere necessità: se le sparse membra del centro-sinistra riescono a (ri)comporsi la loro somma può superare il numero di voti che raggranellati dal centro-destra.
Proiettare gli esiti delle elezioni regionali sulle nient’affatto imminenti elezioni politiche del 2027 (a proposito i partiti di governo ci risparmino il brutto gioco di scegliere la data solo in base alle loro convenienze e comunque decidano con un congruo anticipo), non è operazione facile. Chi la fa come, non da sola, la giustamente soddisfatta segretaria del Partito Democratico, deve essere consapevole che il “suo” campo non potrà permettersi nessuna defezione a livello nazionale, anche la più piccola potendo risultare decisiva. Quello che a livello regionale, gli elettori giustamente trascurano, vale a dire la politica estera, non potrà essere eluso a livello nazionale. Oggi come oggi e probabilmente anche domani, le differenze fra i protagonisti del campo largo, sono notevoli e non facili da spingere sotto il tappeto. Vero che la politica estera non è una priorità per l’elettorato italiano, ma basterebbero due o tre per cento di elettori che, particolarmente preoccupati, facessero mancare i loro voti perché l’ago della bilancia pendesse a destra.
Anche se sarebbe sempre preferibile che le elezioni venissero vinte da chi ha le proposte migliori e offre garanzie credibili di saperle attuare, da tempo i dirigenti dei partiti si dedicano alla manipolazione opportunistica delle leggi elettorali. Sbagliano quasi sempre; sbagliano male, e insistono rivelando di conoscere poco la materia (non sono i giuristi gli esperti dei sistemi elettorali). Qui mi limito a sottolineare che una disposizione europea ha sancito da tempo che le leggi elettorali non debbono essere cambiate nell’anno in cui si tengono le elezioni. Aggiungerei anche che è ora di smetterla con la ricerca spasmodica di stampelle sotto forma di premi in seggi per evitare pareggi immaginari. Negli occhi di chi guarda non dovrebbe trovarsi soltanto la bellezza della contendibilità del governo, fenomeno da valutare sempre in maniera positiva. Dovrebbero trovarsi le tracce anche di quei tanti, ad un certo punto sarò costretto a scrivere troppi, elettori e elettrici che alle urne, per molteplici ragioni, comprensibili, ma da me quasi mai ritenute assolutorie, non ci vanno (più). Allora, una buona contesa per il governo del paese sarà quella che sospinge dirigenti, partiti e candidati a cercare gli astensionisti e a incentivarli a tornare con noi. L’interesse di partito e di coalizione coinciderebbe con l’interesse del sistema per una crescita dei votanti. Apprezzabile effetto della ben tornata contendibilità che sarà sotto gli occhi di tutti.
Pubblicato il 26 novembre 2025 su Domani
Gianfranco Pasquino: “Brutto testo quello sul premierato” @LaPortadiVetro Domani sera #27novembre ad Alessandria dibattito con Mario Deaglio

Intervista di Alberto Ballerino
Gianfranco Pasquino e Mario Deaglio si confronteranno domani, 27 novembre, sui problemi del nostro paese, tra economia e politica, nella sede dell’associazione Cultura e Sviluppo in piazza De André ad Alessandria. Un’occasione importante per riflettere su una fase storica complessa con due tra i più originali intellettuali italiani.

Una transizione infinita? Politica ed economia dalla fine del Novecento a un futuro da riprogettare è il titolo dell’appuntamento, in occasione del quale si parlerà anche dell’ultimo libro di Pasquino, In nome del popolo sovrano. Potere e ambiguità delle riforme in democrazia (Egea). Un volume in cui vengono dati giudizi molto severi, a partire dalle riforme fino ad oggi fatte o proposte. “Mediocri – ci dice l’autore -, alcune sbagliate e respinte dai referendum”. Tra le più importanti finora attuate c’è sicuramente quella dell’articolo V sulle autonomie e il decentramento amministrativo. “Gli italiani non hanno mai capito bene cosa significa avere il decentramento. In realtà tutto va ripensato, tenendo presente che siamo in Europa: il decentramento deve creare delle entità autonome in grado di rapportarsi direttamente ad essa. Non vedo nessuno in grado di farlo. Probabilmente l’unico con idee valide in materia era Gianfranco Miglio, che però esagerava perché era interessato soprattutto alle regioni del nord. Oggi non c’è un vero federalista e abbiamo una cattiva distribuzione del potere tra le varie regioni”.
Sulle riforme al centro del dibattuto politico attuale è molto duro. Per quanto riguarda quella sulla giustizia, ritiene che sia sbagliata e diretta a consentire al potere politico di controllare quello giudiziario: “Nordio ha avuto una battuta infelice ma rivelatrice, dicendo che bisogna riequilibrare i poteri con la politica, dando più poteri a quest’ultima. Non è così che si fanno le riforme della giustizia: credo che sia giusto andare al referendum, il quale peraltro deve essere chiesto dagli oppositori e non dal governo perché altrimenti è un plebiscito. E ai plebisciti si risponde con un No”.
Altrettanto negativo il giudizio sul premierato: “Il testo è pessimo perché spacca uno dei principi cardine del costituzionalismo democratico come la separazione dei poteri e cambia la forma di governo, da parlamentare a non parlamentare, direi extra parlamentare e forse anti parlamentare. Una riforma brutta che mira a togliere i poteri al presidente della Repubblica di nominare il capo del governo (scelto dagli elettori) e di sciogliere il Parlamento (sciolto dal capo del governo o dalla sua maggioranza). Il governo avrebbe più poteri del presidente della Repubblica, mentre, invece, il dualismo è indispensabile nel funzionamento del parlamentarismo italiano”.
Tra l’altro, per quanto riguarda le attività degli organi costituzionali, è proprio sulla presidenza della Repubblica che vanno i giudizi migliori: “Recentemente è quello che ha funzionato meglio. Il governo ha avuto alti e bassi mentre il Parlamento non è riuscito ad acquisire una sua autonomia. Funziona positivamente quando ci sono parlamentari capaci altrimenti non va particolarmente bene, va riformato. Per avere un Parlamento potenziato bisogna utilizzare una legge elettorale decente mentre l’attuale non lo è”.
Oggi, Pasquino sarebbe favorevole a una sola riforma: “Quella del voto di sfiducia costruttivo. Il capo del governo viene eletto direttamente dal Parlamento, in seduta congiunta eventualmente, e può essere sostituito soltanto da una maggioranza assoluta che abbia la capacità di eleggerne un altro. Questo responsabilizzerebbe il capo del governo, le maggioranze parlamentari e farebbe fare un salto di qualità all’intero sistema. Tutto il resto va bene così com’è. Nessuno di noi, né oggi né ieri, è in grado di fare meglio dei costituenti. Quella italiana è un’ottima Costituzione”.
INVITO Una transizione infinita? Politica ed economia dalla fine del Novecento a un futuro da riprogettare #27novembre #Alessandria #CulturaeSviluppo
Giovedì 27 novembre ore 19
Piazza F. De André, 76
Alessandria
Associazione Cultura e Sviluppo

Una riflessione sulla storia globale degli ultimi decenni, con un’attenzione specifica alla politica e all’economia e alle loro vorticose trasformazioni. Per farlo, abbiamo invitato due dei nostri ospiti più autorevoli, apprezzati e più volte con noi ai Giovedì culturali: Gianfranco Pasquino e Mario Deaglio. L’appuntamento è per giovedì 27 novembre alle 19 (con pausa buffet alle 20,30 e termine alle 22,30).
È raccomandata la prenotazione tramite il form in fondo alla pagina.
Con Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e politologo tra i più noti del nostro Paese, abbiamo ragionato di anno in anno sulle evoluzioni della politica in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Nell’incontro discuteremo anche della sua pubblicazione più recente, In nome del popolo sovrano (Egea, 2025). Con Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, grazie alla presentazione annuale del Rapporto sull’economia globale e l’Italia, abbiamo monitorato i continui cambiamenti e le continue oscillazioni dell’economia, tra l’euforia degli anni Novanta del secolo scorso e la crisi di questi anni difficili, con l’ulteriore complicazione dei dazi trumpiani. Il Rapporto più recente si intitola Un futuro da riprogettare (Guerini, 2025). Ed è proprio con questo spirito, ossia con uno sguardo rivolto al futuro, che abbiamo chiesto ai nostri due ospiti di riflettere sulla lunga transizione in corso, e sulle modalità per uscirne.
Non si vive alla giornata. Le vere sfide da affrontare @DomaniGiornale #democrazie #federalismo

Gli alberi li vediamo quasi tutti. Di tanto in tanto qualche albero cade e nuovi alberelli fanno la loro comparsa. Vediamo anche quelli, ma, spesso, non riusciamo a capirne origine e significato. Quello che, a giudicare dai commenti e dalle prese di posizione, sembra sfuggire è la foresta. Sembra che quasi nessuno sia in grado di cogliere il significato complessivo delle sfide, la loro portata, l’intensità dell’impatto, meno che mai le conseguenze di medio e lungo periodo.
Le sfide contemporanee riguardano il modo di fare politica, non soltanto nei regimi democratici. Però, avviene in special modo, in questi regimi come, ovviamente, anche quello italiano, poiché il loro elemento distintivo è quello di essere società aperte, caratterizzate dalla competizione e esposte alle incursioni, interne e esterne. Pur essendo vero che le democrazie imparano, qualche volta l’apprendimento richiede tempo e sperimentazione. In quella fase un demagogo può avere conquistato il potere e brandirlo contro i diritti e le istituzioni della sua e di altre democrazie. Giunto al vertice dello Stato avrà l’opportunità di ricorrere a tutti gli strumenti del deep state, del profondo e dell’oscuro. Da questo punto di vista, la disponibilità delle tecniche dell’intelligenza artificiale può rivelarsi molto preoccupante, come sostengono gli esperti subito ammettendo di non essere in grado di esplorarne e valutarne tutti le potenzialità e i rischi.
Le incursioni esterne possono farsi forza anche dell’intelligenza artificiale nonché di manipolazioni politico-elettorali-comunicative diversificate e in casi estremi dei droni che distruggono qualsiasi resistenza. Tenendosi a debita distanza dal dibattito politico italiano al fine di vederlo meglio, poco o nulla di tutto questo, intelligenza artificiale e manipolazioni, sembra considerato importante e significativo. Le tematiche preminenti e prorompenti sono altre, non prive di una qualche rilevanza nell’immediato, ma soccombenti di fronte alle sfide di ben più alto livello.
Comprensibilmente nel centro sinistra la ricerca riguarda il/la figura del federatore, con lo sguardo rivolto al passato, fino al non resuscitabile e non imitabile Ulivo di trent’anni fa. Quando si passa alle politiche al primo posto non vengono collocate la libertà, l’autodeterminazione, le opportunità dei cittadini di oggi e di domani, ma lo scambio fra cannoni e burro. Meno soldi per fare e comprare armi con il molto problematico risparmio semplicisticamente destinato a investimenti nella sanità. Che l’Italia e il mondo di oggi e di domani esigano una cittadinanza dotata di alto e modernissimo livello di istruzione non sembra essere prioritario, forse neppure compreso appieno.
Il centrodestra di governo si gode il vantaggio di posizione, una vera propria rendita. Può mettere le difficoltà sulle spalle del passato nel quale stava all’opposizione e può rivendicare alcuni piccoli, ma reali successi: economia galleggiante senza tensioni e stabilità di governo. Non butta il cuore oltre l’ostacolo poiché sembra non vedere l’ostacolo e non vuole rischiare nessuna destabilizzazione. La sua persistente concezione sovranista ha alleati ugualmente poco orientati al futuro. Vogliono piuttosto tornare a fare qualcosa di grande che ritengono di trovare nel loro passato. Invece, le sfide hanno una caratteristica che le accomuna. Sono di tale portata e entità da richiedere risposte elaborate e concordate da più paesi in grado di mettere insieme le loro intelligenze collettive, le loro energie e le loro risorse.
La risposta si chiama federalismo. Soltanto alcune voci solitarie a isolate si fanno sentire a favore del federalismo, Anche a livello europeo, le proposte effettivamente federaliste formulate da Enrico Letta e da Mario Draghi sono state accolte da plausi di cortesia e stima, senza finora nessun seguito operativo. Eppure, dicono che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. In Italia e in Europa è già venuta l’ora.
Pubblicato il 19 novembre 2025 su Domani
Revisione punitiva in salsa populista @MicroMega

La riforma sulla separazione delle carriere apre alla concentrazione di potere nelle mani dell’esecutivo
Lo scorso 30 ottobre è stato approvato il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario. Il provvedimento – già pubblicato in Gazzetta ufficiale – entrerà in vigore solo dopo eventuale referendum confermativo, che con ogni probabilità si terrà nella primavera del 2026. MicroMega ha dedicato e continuerà a dedicare al tema – cruciale per la tenuta della nostra architettura democratica – diversi approfondimenti, che troverete mano a mano raccolti qui.
De minimis non curat praetor. Questa frase latina mi pare quanto mai appropriata per dare inizio a una sintetica riflessione sul significato politico e istituzionale della separazione delle carriere (che non è la riforma della giustizia) e su alcune importanti implicazioni. Sia chiaro che fanno opera meritoria tutti quei commentatori che analizzano punto per punto la riforma, criticano il criticabile, propongono soluzioni alternative. Un lavoro del genere in parte era stato proposto nell’iter della legge, ma la maggioranza parlamentare, va sottolineato, ha contrapposto una chiusura netta. La separazione delle carriere di pubblici ministeri e magistrati giudicanti è una legge di revisione costituzionale voluta dal governo Meloni, elaborata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, approvata dalla maggioranza parlamentare Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati. Senza accettare nessun apporto di origine esterna.
La revisione è significativa e avrebbe meritato una preparazione basata su dati e confronti che dovevano servire a rispondere al quesito principe: “in Italia il funzionamento della giustizia non è soddisfacente, rispetto a quali criteri e parametri? Perché i magistrati godono della possibilità di passare da Pubblici Ministeri a giudici e viceversa? Quanti di loro approfittano di questa possibilità?”
Valentina Maglione scrive su il “Sole 24 ore” il 14 ottobre 2025: “In base ai dati del Csm, in dieci anni, tra il 2015 e il 2024, sono stati in totale 362 i passaggi di funzione. Di questi, 147 sono stati mutamenti da funzione giudicante a requirente, mentre sono stati 215 i transiti dalle procure agli uffici giudicanti. In particolare, nel 2024, su 8.817 magistrati in servizio al 31 dicembre, sono stati 42 i passaggi di funzione, vale a dire lo 0,48% dell’organico”. Perché e in che modo questo davvero esiguo numero di passaggi comporta o ha comportato conseguenze negative, in particolare per i cittadini, nell’amministrazione della giustizia? Alcuni casi esemplari riconosciuti come gravissimi errori (drammatica la vicenda di Enzo Tortora) sarebbero stati evitati o resi impossibili con carriere separate?
Non volendo entrare nei dettagli – a mio modo di vedere, non è affatto lì che si trova il diavolo revisionatore – sono due gli ambiti che più o meno direttamente suggeriscono che, lungi dall’essere positiva per i cittadini, la separazione delle carriere produce rischi e crea ansie.
Il primo ambito è costitutivo dei regimi democratici: la separazione dei poteri. In democrazia, esecutivo, legislativo e giudiziario debbono godere di una loro autonomia funzionale e operativa. Però, da qualche decennio a questa parte alcuni autorevoli studiosi hanno rilevato che i confini delle reciproche autonomie sono flessibili e variabili e che l’autonomia si accompagna alla competizione. Governi instabili saranno facili prede dei Parlamenti che li hanno fatti nascere e morire, sostituendoli ad libitum. Parlamenti espressione di leggi elettorali balorde che danno poco potere agli elettori e molto ai dirigenti di partito saranno popolati da eletti non in grado di esercitare l’autonomia di cui pure disporrebbe la loro istituzione. Un potere giudiziario frammentato, di bassa produttività e con scarso prestigio avrà poche chance di fare valere il controllo di legalità sugli atti e sui comportamenti tanto dell’esecutivo quanto del legislativo.
Ristabilire i confini e ripristinare sfere di operatività e discrezionalità sono obiettivi condivisibili. Però, l’affermazione del Ministro Nordio che la separazione delle carriere è un, forse il, modo particolarmente importante “per fare recuperare alla politica il suo primato costituzionale”, è discutibilissima, anche pericolosa. Anzitutto, il primato costituzionale appartiene al popolo “che lo esercita nelle forme nei limiti della Costituzione” (art.1). In secondo luogo, subordinare l’autonomia di una istituzione, il giudiziario, a un’altra istituzione, l’esecutivo, squilibra il sistema in direzione potenzialmente autoritaria.
Questo rischio risulta moderatamente più elevato in un sistema politico come quello italiano, secondo ambito di cui tenere conto, che non ha mai brillato per il riconoscimento del primato della rule of law e la sua applicazione. Da Mani Pulite in poi il conflitto “politici contro magistrati” è stato una costante. Ricordiamo, a titolo di esempio, due affermazioni particolarmente gravi e rivelatrici di concezioni politiche profondamente errate. La prima è l’invito sferzante ai giudici che si intromettono nella vita politica a farsi eleggere come se l’elezione in Parlamento debba essere l’unico modo per contare in una società. La seconda è la convinzione manifestata da Berlusconi che conquistare il potere di governo implica la legittima possibilità di dettare i comportamenti a tutte le altre istituzioni. Il popolo avrebbe “unto” un leader che ha, dunque, acquisito il potere/dovere di guidare e decidere senza lacci e lacciuoli. Il cosiddetto premierato nasce anche da questa concezione istituzionale.
Non bisogna cercare coerenza in comportamenti perlopiù dettati da opportunismo, ma la decisione del governo Meloni di sottoporre a referendum costituzionale il disegno di legge approvato dal Parlamento si giustifica proprio per il desiderio di dimostrare la sua rispondenza alle preferenze del popolo.
Giunti al termine dell’elaborazione di un testo complesso, articolato, in più punti originale, i Costituenti non ebbero dubbi. Bisognava consentire la correzione, l’adattamento, l’aggiornamento del testo costituzionale da effettuarsi attraverso leggi approvate dal Parlamento, senza specificare chi ne potessero essere i proponenti. Delinearono una procedura “garantista”, che consiste in una doppia lettura in ciascuna camera a distanza minima di tre mesi per consentire un esame approfondito e non nervoso con approvazione definitiva a maggioranza assoluta. Stabilirono anche che la revisione potesse, non dovesse (il referendum costituzionale è, pertanto, facoltativo) essere sottoposta a referendum su richiesta di “un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. Due punti meritano di essere evidenziati. Fra i soggetti autorizzati a chiedere il referendum non c’è nessuna menzione del governo, sebbene, naturalmente, la richiesta non sia preclusa ai parlamentari della maggioranza governativa. Secondo punto, poiché la revisione entra senz’altro in vigore dopo tre mesi dalla sua approvazione, è logico ritenere che siano gli oppositori a chiedere il referendum con l’obiettivo di bocciarla, farla cadere. Dunque, non è affatto corretto usare l’aggettivo confermativo per il referendum costituzionale. L’esito può sì essere di conferma, ma il referendum chiesto contro la revisione merita semmai l’aggettivo oppositivo.
Nessun referendum è possibile se nella seconda lettura ad approvare la revisione sono stati i due terzi dei componenti di entrambe le Camere. In un sistema politico ad alto tasso di antiparlamentarismo i Costituenti vollero evitare una deleteria contrapposizione tra elettorato e parlamentari, di cui sarebbe apparsa evidente la non rappresentatività. Infine, senza necessità di un quorum di affluenza alle urne, la maggioranza dei votanti determina l’esito. I Costituenti vollero così premiare i cittadini interessati, informati partecipanti. Chi vota conta. Chi non vota ha, in qualche modo non apprezzabile, delegato la decisione a chi ha dedicato parte del suo tempo e delle sue energie a esprimere la sua preferenza.
Pur avendo fortemente sostenuto tutto l’iter parlamentare della separazione delle carriere, giustamente rivendicando l’esito e meno opportunamente proceduto alla richiesta del referendum, il Presidente del Consiglio ha ripetutamente dichiarato che non si dimetterà in caso di sconfitta. In effetti, dal punto di vista costituzionale le sue dimissioni non sono affatto obbligate. Dal punto di vista politico, però, avendo fatto della separazione delle carriere un preminente obiettivo politico, avendo impegnato il suo governo a sostegno della revisione fino a praticamente trasformare il referendum in una sorta di plebiscito sulla sua persona, Giorgia Meloni dovrebbe considerare il rigetto della revisione da lei voluta e imposta come equivalente a un voto di sfiducia. Esiste un precedente molto eloquente: le dimissioni nel dicembre 2016 di Matteo Renzi, duramente sconfitto nel referendum da lui voluto sulle “sue” revisioni costituzionali e da lui personalizzato facendone sostanzialmente un plebiscito sulla sua persona.
Resta da chiedersi quanto questo referendum influenzerà la più ancora ambiziosa proposta di revisione costituzionale della forma di governo. Infatti, l’eventuale elezione diretta del Presidente del Consiglio significa la fuoruscita dal parlamentarismo, modello istituzionale nel quale il governo è espresso, non dal popolo, ma dal Parlamento e a lui responsabile. Sarebbe un passo in più verso la concentrazione di potere nelle mani del capo dell’esecutivo.
Pubblicato il 17 novembre 2025 su Micromega