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INVITO Diario civile di Cesare Segre #presentazione #13febbraio #Roma Accademia Nazionale dei Lincei

ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
Giovedì 13 febbraio 2025, ore 10
Palazzo Corsini
Via della Lungara, 10
Roberto Antonelli, Anna Dolfi, Giorgio Parisi e Gianfranco Pasquino
presentano a Classi Riunite il libro
DIARIO CIVILE
di Cesare Segre
a cura di Paolo Di Stefano
Milano, Il Saggiatore 2024
Saranno presenti Paolo Di Stefano e Maria Luisa Meneghetti
Si prega di segnalare la presenza compilando il seguente form
https://forms.gle/pcjsqV4U3UGqrFBt9
La presentazione sarà trasmessa sul canale streaming dell’Accademia
https://www.lincei.it/it/live-streaming
IL PRESIDENTE
Roberto Antonelli
Segreteria: marcella.marsili@lincei.it – http://www.lincei.it
VIDEO I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze #Intervento al #Convegno IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI – Accademia Nazionale dei Lincei

Vai al VIDEO dal minuto 1:53:00 al minuto 2:13:35 ciccando QUI

Gianfranco Pasquino
Giacomo Matteotti fu, è sempre doveroso sottolinearlo e ribadirlo, un uomo rigoroso e coraggioso. Già nel mirino dei fascisti, la sua durissima, articolata e dettagliata denuncia dell’irregolarità delle elezioni italiane del 6 aprile 1924 spinse i fascisti a decretarne e compierne l’assassinio.
Quelle elezioni anticiparono quanto avvenne in seguito, quasi subito, a partire dal Portogallo di Salazar, in non poche situazioni di autoritarismo nelle quali si tennero consultazioni elettorali dall’esito essenzialmente scontato. Qui, delineato il contesto, brevemente analizzata la legge elettorale, valutati i risultati, la mia relazione si indirizza all’individuazione in chiave comparata delle motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni.
Ludi cartacei
Non può esistere nessuna democrazia laddove non si vota. Infatti, se non si tengono elezioni, il demos (popolo) è privato dell’essenziale kratos (potere) di esprimere le proprie preferenze in materia di persone e di partiti. Tuttavia, non è affatto detto che possano essere considerati democratici automaticamente tutti i sistemi politici nei quali si tengono consultazioni elettorali. Infatti, a parte i brogli, sempre possibili anche nei regimi democratici, da tempo molti regimi non democratici hanno proceduto ad organizzare procedimenti elettorali variamente manipolandoli e efficacemente controllandone gli esiti. Nei regimi totalitari, Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord, le elezioni servono fondamentalmente come strumento di mobilitazione della cittadinanza e si svolgono entro i confini del partito totalitario senza nessuna possibilità di partecipazione per gli oppositori, mentre diversa è stata e continua ad essere la situazione nei regimi autoritari, anche nella variante regimi militari (ad esempio, in Brasile negli anni settanta del secolo scorso).
Un buon numero di governanti autoritari sono convinti di avere in misura, più o meno grande, abbastanza consenso per vincere comunque quelle elezioni. Quasi nessuno di loro dubita di avere la capacità di impedire, se necessario anche con la violenza, il successo di qualsiasi opposizione. Sono convinti che la situazione complessiva del regime e della distribuzione del potere non sarà in nessun modo o quasi cambiata dal risultato elettorale. Certamente, il regime non verrà rovesciato da(gli) elettori che si rivelassero in maggioranza favorevoli all’opposizione. L’unico rischio percepito, ma non troppo temuto, è che gli oppositori si dimostrino più popolari delle aspettative, dei rapporti delle polizie segrete e di eventuali sondaggi di opinione. Pertanto, tenendo conto di rischi non necessari e di costi, in energie e in denaro, inevitabili, la domanda “perché i governanti autoritari decidono di andare a elezioni?” è del tutto legittima ed esige una risposta convincente.
Quale ne è l’utilità, particolaristica, per singoli capi autoritari, e sistemica, per il regime che vogliono costruire e tenere sotto controllo, delle consultazioni elettorali? Molto probabilmente i capi autoritari perseguono uno o più dei seguenti obiettivi: la ricerca di legittimazione interna, domestica e internazionale; la mobilitazione dei sudditi, singoli, gruppi, associazioni, favorevoli al governo autoritario; l’identificazione degli oppositori. Dal canto suo, quel che rimane dell’opposizione non ha scelta. Se intende dimostrare agli osservatori esterni che il capo autoritario non ha il controllo democratico e completo sul sistema politico, ha il dovere politico di prendere parte alle elezioni. Deve offrire un’alternativa ai suoi elettori, nella consapevolezza dei rischi che tutti i suoi candidati, come Giacomo Matteotti, e coloro che coraggiosamente vorranno comunque essere suoi elettori inevitabilmente corrono. Riflettere sulle motivazioni e sulle azioni dei governi autoritari e delle opposizioni serve a illuminare le modalità di esercizio e di eventuale consolidamento del potere autoritario, ma anche della validità o meno delle reazioni e risposte delle opposizioni. Nonostante un numero crescente di analisi anche approfondite e comparate, abbiamo ancora molto da imparare sia per smascherare sia per meglio contrastare i numerosi autoritarismi tuttora esistenti e prosperanti.
Da almeno mezzo secolo una pluralità di organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite (ONU), compresa l’Unione Europea, procedono al monitoraggio delle elezioni politiche in numerosi stati per lo più di dubbia democraticità. Personalmente, ho svolto il compito di osservatore parlamentare in due occasioni elettorali di enorme importanza, entrambe nel Cile di Pinochet. Nel 1988 quando in un referendum/plebiscito la domanda rivolta all’elettorato cileno riguardava l’estensione per alcuni anni del governo guidato dal Gen. Pinochet: sì/no. Prevalsero i “no” portando alla seconda occasione elettorale l’anno successivo 1989: le elezioni presidenziali alle quali Pinochet non si candidò e che furono vinte dal candidato democristiano Patricio Aylwin sostenuto dalla Concertazione Democratica formata da praticamente tutti i partiti di opposizione con regolarità formale del procedimento elettorale. In quelle due occasioni imparai lezioni che solo chi lavora “sul campo” può ricevere e apprendere.
Troppo spesso, ancora oggi, infatti, gli osservatori elettorali giungono sul luogo delle elezioni all’incirca una settimana prima del voto e, nel migliore dei casi, riescono a valutare lo svolgimento di quel voto, sono ammessi ad assistere allo spoglio delle schede, si trovano in condizione di cogliere e denunciare errori e manipolazioni dell’esito. La mia esperienza, la lettura di alcune esperienze altrui, ma, in special modo, una migliore conoscenza delle dinamiche elettorali, molto più complesse di quel che si pensava, mi ha portato ad alcune riflessioni e conclusioni che trovano riscontro nella documentata denuncia di Giacomo Matteotti relativa alla sostanziale irregolarità delle elezioni politiche italiane del 1924.
Quel che avviene il giorno del voto è il prodotto variamente costruito molti mesi prima. Dunque, possiamo pure apprezzare positivamente quel che vediamo e non vediamo quando gli elettori imbucano la scheda nell’urna e quando gli scrutatori leggono scheda per scheda. Assolutamente indispensabile, però, è sapere attraverso quali passaggi si sia arrivati al giorno della votazione. Alcuni passaggi sono sempre, comunque e ovunque, obbligati. Il primo riguarda il riconoscimento e l’accettazione dei partiti ammessi a concorrere e delle candidature da loro presentate. Nelle recenti elezioni presidenziali russe, è noto che Putin ha provveduto per tempo a scoraggiare e impedire la presenza di partiti di opposizione e, quando da lui ritenuto necessario, ad emarginare fino all’eliminazione fisica, gli oppositori più temerari.
Nel 2024 mezzo mondo è già andato, ad esempio, la Russia, la Polonia, il Portogallo, l’India, oppure andrà, ad elezioni a livello nazionale. In questo mezzo mondo ci sono molti regimi autoritari dalle cui esperienze concrete e dalle modalità con le quali svolgeranno le elezioni sarà possibile trarre una pluralità di insegnamenti, generali: su regole e comportamenti, e specifici: sui contesti e sui protagonisti. Grazie alle conoscenze di cui già disponiamo saremo in grado di meglio illuminare e comprendere quello che succederà e non succederà e per quali motivi. Grazie a quello che impariamo potremo addirittura giungere ad una migliore comprensione delle elezioni passate, del loro significato, del loro impatto.
In questo relativamente sintetico intervento, l’oggetto è costituito dalla dettagliata, precisa e potente denuncia formulata dal deputato socialista Giacomo Matteotti riguardante la irregolarità delle elezioni politiche tenutesi il 6 aprile 1924. Come vedremo, tutti i punti sollevati e sottolineati con vigore da Matteotti contribuiscono a delineare le modalità con le quali, probabilmente non in maniera coordinata e strategica, ma sicuramente deliberata e criminale, le autorità fasciste hanno perseguito i loro obiettivi. Del tutto consapevole che, secondo l’insegnamento di Giovanni Sartori, chi conosce un solo caso non conosce neppure quel caso (vale a dire, non può mai essere in grado di affermare con sicurezza che cosa è normale e che cosa è eccezionale), ogniqualvolta possibile farò ricorso a comparazioni.
L’esito
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si tennero in una situazione nella quale il Duce mirava a dimostrare a tutti i protagonisti politici, in particolare, sia alle opposizioni sia a coloro che attendevano opportunisticamente a schierarsi, sia al Re, a se stesso e ai gerarchi intorno a lui sia, da ultimo, ma di non minore importanza, all’opinione pubblica internazionale, che il fascismo già godeva di ampio, diffuso, probabilmente, addirittura maggioritario, consenso elettorale (che terrei molto distinto dal più esigente consenso politico). Peraltro, Mussolini non intendeva correre nessun rischio cosicché affidò a Giacomo Acerbo (1888-1969), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la stesura di una nuova legge elettorale. Sul tronco della esistente legge proporzionale venne innestato un cospicuo premio di maggioranza. Alla lista che avesse ottenuto più voti, ma almeno il 25 per cento, sarebbero stati attribuiti i due terzi dei seggi. Con affluenza alle urne di quasi il 64 per cento degli aventi diritto, la composita Lista nazionale dei fascisti, spudorato carrozzone elettorale, ottenne il 60 per cento dei voti e conquistò 355 seggi. Il Partito Socialista Unitario, per il quale Matteotti fu rieletto deputato, ottenne 422.957 voti e conquistò 24 seggi.
Per completezza di informazione, la tabella riporta i numeri assoluti e le percentuali di voti ottenute da tutte le liste e i partiti presentatisi. Due dati spiccano: da un lato, il 60 per cento di voti ottenuti dalla Lista Nazionale (nota come Listone) ampia aggregazione voluta e guidata dai fascisti; dall’altro, la frammentazione complessiva dello schieramento di liste e partiti contrario al fascismo, fra l’altro, segnale di debolezza e vulnerabilità delle sinistre, anche di non marginale insipienza.
TAB. 1 Risultato delle elezioni politiche nazionali del 6 aprile 1924
| Partito | Risultati | Seggi | ||||
| Voti | % | ± | Num | ± | ||
| 21. Lista Nazionale | 4 305 936 | 60,09 | n.d. | 355 | n.d. | |
| 4. Lista nazionale bis | 347 552 | 4,85 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 5. Partito Popolare Italiano | 645 789 | 9,01 | n.d. | 39 | n.d. | |
| 3. Partito Socialista Unitario | 422 957 | 5,90 | n.d. | 24 | n.d. | |
| 23. Partito Socialista Italiano | 360 694 | 5,03 | n.d. | 22 | n.d. | |
| 19. Partito Comunista d’Italia | 268 191 | 3,74 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 10. Partito Repubblicano Italiano | 133 714 | 1,87 | n.d. | 7 | n.d. | |
| 7. Partito Democratico Sociale Italiano | 111 035 | 1,55 | n.d. | 10 | n.d. | |
| 18. Liberali | 78 099 | 1,09 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 6. Liberali indipendenti | 74 317 | 1,04 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 15. Partito dei Contadini d’Italia | 73 569 | 1,03 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 8. Opposizione costituzionale | 72 941 | 1,02 | n.d. | 8 | n.d. | |
| 12. Slavi e Tedeschi | 62 491 | 0,87 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 13. Opposizione costituzionale | 45 365 | 0,63 | n.d. | 5 | n.d. | |
| 11. Opposizione costituzionale | 33 473 | 0,47 | n.d. | 0 | n.d. | |
| 2. Liberali | 29 936 | 0,42 | n.d. | 3 | n.d. | |
| 22. Camillo Corradini | 29 574 | 0,41 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 17. Partito Sardo d’Azione | 24 059 | 0,34 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 14. Fasci nazionali | 18 062 | 0,25 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 9. Liberali | 12 925 | 0,18 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 1. Opposizione costituzionale | 6 153 | 0,09 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 16. Liberali indipendenti | 5 275 | 0,07 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 20. Liberali indipendenti | 3 395 | 0,05 | n.d. | 0 | n.d. | |
| Iscritti | 11 939 452 | 100,00 | ||||
| ↳ Votanti (% su iscritti) | 7 614 451 | 63,78 | n.d. | |||
| ↳ Voti validi (% su votanti) | 7 165 502 | 94,10 | ||||
| ↳ Voti non validi (% su votanti) | 448 949 | 5,90 | ||||
| ↳ Astenuti (% su iscritti) | 4 325 001 | 36,22 | ||||
Almeno un risultato di quelle elezioni dell’aprile 1924 costituì per Matteotti, pur nella disperazione generale, un motivo di soddisfazione: il suo partito degli espulsi risultò il primo dei partiti della sinistra lacerata, con 422.957 voti e 24 eletti, a fronte dei 360.694 voti con 22 eletti del Partito Socialista Italiano e dei 268.191 voti con 19 eletti del Partito comunista d’Italia. Nonostante tutto, nell’ora del grande pericolo i lavoratori appartenenti alla classe sociale che ciascuno dei tre partiti intendeva rappresentare e guidare, avevano dato il maggiore consenso relativo a Turati e a Matteotti. Ma questo esito non poteva essere sufficiente e soddisfacente per chi, come Matteotti e i socialisti riformisti, credeva nella democrazia basata sulle preferenze dei cittadini e sulle regole attraverso le quali quelle preferenze potevano essere espresse e fatte contare.
La denuncia
Nella seduta della Camera dei deputati del 30 maggio 1924 dedicata alla “Verifica dei poteri e convalida degli eletti”, il neo-rieletto deputato Giacomo Matteotti pronunciò un lungo, circostanziato e documentato discorso inteso a stigmatizzare l’irregolarità complessiva delle elezioni e a chiederne il riesame dell’esito alla Giunta per le elezioni. Denunciò le violenze che in ottomila comuni avevano negato alle minoranze la possibilità di parlare in pubblico, che il sessanta per cento dei candidati socialisti non aveva potuto circolare liberamente nelle circoscrizioni, che molti avevano dovuto cambiar residenza o emigrare, che nei comuni di campagna i fascisti occupavano le sezioni elettorali, che le elezioni non erano valide di fronte alla dichiarazione del governo di rimanere in carica qualunque fosse il loro esito.
Nel 1924 probabilmente per impossibilità tecnica e politica di copertura dell’intero territorio nazionale, ma anche perché gli oppositori ancora godevano di presenza, di visibilità, di sostegno, Mussolini consentì qualche forma di competizione. Tuttavia, come documenta Matteotti, le intimidazioni e le scorrettezze furono numerosissime, diffuse a macchia di leopardo. Seguirò passo passo ciascuno dei punti sollevati e argomentati da Matteotti (sempre facendo riferimento al testo pubblicato nel volume curato da Stefano Caretti e Jaka Makuc) che non si focalizzano sulla sola espressione del voto, ma inquadrano in maniera assolutamente esemplare l’intero procedimento elettorale.
La correttezza di qualsiasi procedimento elettorale inizia dalla presentazione delle liste dei candidati per ciascun partito. In ciascuna circoscrizione la presentazione doveva avvenire mediante un documento notarile al quale era richiesta l’apposizione di un certo numero di firme dalle 300 alle 500. Tuttavia, cito Matteotti: ”in sette circoscrizioni su quindici la raccolta delle firme fu impedita con violenza” (p. 100). “A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati” (p. 101). Inoltre, le “persone che hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso” (p. 102).
Consapevole, come tutti dovremmo essere, che la democraticità delle elezioni si misura anche sulla possibilità di ottenere e accettare la candidatura e, di conseguenza, di liberamente cercare e ottenere voti per il proprio partito, Matteotti insiste su questo punto segnalando che “molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non avere più lavoro l’indomani o dovere abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero” (p. 108). Aggiunge il ben più grave fatto che il socialista “Berta fu assassinato nella sua casa per avere accettato la candidatura” (ibidem).
Coloro prescelti come candidati debbono poi impegnarsi nella campagna elettorale che è una fase di enorme importanza per molteplici ragioni. La campagna elettorale consente ai candidati di farsi (meglio) conoscere dagli elettori al tempo stesso che, a seconda delle loro propensioni e capacità, sono messi in grado di molto apprendere sulle preferenze, sugli interessi, sulle condizioni di vita, sulle aspettative dell’elettorato, non soltanto di coloro che voteranno per loro. D’altro canto, le campagne elettorali possono costituire una grande opportunità di apprendimento politico anche per gli elettori. In una (in)certa misura non sono mai pochi gli elettori che cercano di capire quali candidati e quali partiti rappresenterebbero al meglio quello che desiderano, quello che ritengono utile, al limite la visione di società e, forse, del mondo che hanno. In quegli anni di scontro ideologico e di prospettive opposte, ovviamente la campagna elettorale era destinata a svolgersi in maniera tesa, dura, conflittuale, inevitabilmente e, per i fascisti, programmaticamente, violenta. Chiaramente, l’uso della violenza in qualsiasi campagna elettorale, tollerata, quando non addirittura promossa dai governanti autoritari e dai loro sostenitori, va a scapito della democraticità delle elezioni e del loro esito.
Anche in questo caso, la denuncia di Matteotti fu precisa e documentata. Il deputato socialista segnalò anzitutto che per moltissimi candidati fu sostanzialmente impossibile “esporre in contradittorio con il programma del Governo in pubblici comizi o anche in privati locali le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi, quasi da per tutto questo non fu possibile” (p. 103). A Genova, la campagna elettorale dei socialisti si svolse con una conferenza privata ad inviti alla quale partecipò anche il liberale Giovanni Amendola. Le intimidazioni e le repressioni furono di natura tale che “su 100 dei nostri candidati circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione”. “Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città” (p. 106). In definitiva, la situazione complessiva fu tale che solo in un piccolo numero degli 8mila comuni italiani fu possibile la libera propaganda.
Con queste premesse anche il “semplice atto di votare” era destinato a diventare inevitabilmente una sfida alle squadracce di Mussolini, ai pur innegabilmente molti sostenitori, ai benpensanti timorosi che le onde lunghe della violenza giungessero fino alle loro famiglie. Matteotti sintetizza l’insieme dei comportamenti sottolineando due punti. Primo, la diffusa consapevolezza del “valore relativo del voto” dal momento che il fascismo “in ogni caso avrebbe mantenuto il potere con la forza” (p. 96). Secondo, che, al momento del voto, “nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso” (p. 97). L’esistenza di una “milizia armata a disposizione di un partito” … “impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale” (p. 99).
Il momento del voto
Poi venne il giorno dell’apertura dei seggi. Fra gli elementi che garantiscono lo svolgimento in libertà delle elezioni vi è, nota e sottolinea Matteotti, la possibilità che ai seggi siano presenti i rappresentanti di ciascuna delle liste in competizione (p. 109), mentre “quasi dappertutto si son svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista” (ibidem). Piuttosto, le commissioni presenti ai seggi risultarono composte quasi totalmente di aderenti al partito dominante: “nel 90 per cento e, credo, in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati “ (p. 109). Solo en passant ricordo che in occasione delle elezioni presidenziali tenutesi nel febbraio 2024 in Russia, la televisione ha mostrato le immagini di militari che, fucile spianato, addirittura entravano e uscivano dalle cabine elettorali.
Oggi, lo scrutinio delle schede votate è il momento più tranquillo dei procedimenti elettorali nei regimi non-democratici. Praticamente, risulta essere la ratifica quasi notarile della bontà o meno del lavoro di manipolazione del voto svolto a monte. La prima osservazione di Matteotti riguarda la differenza fra le località nelle quali era esistito qualche spazio di libertà e quelle più strettamente controllate. Nelle prime, “le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi da superare la maggioranza – con questa conseguenza però che la violenza che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni”: distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone (p. 110).
In moltissimi contesti la votazione avveniva in tre maniere. “La regola del tre” dichiarata e apertamente insegnata persino dal prefetto di Bologna. “I fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi variamente alternati, in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto” (p. 112). In altri luoghi “furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione nell’Italia prefascista allargato a larghissime zone del meridione” (p. 113). Matteotti sottolinea che l’ampia disponibilità di certificati elettorali derivava dalla elevata astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero. Quei “certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome fino al punto che certuni votarono dieci volte” (p. 114). Inoltre, “alcuni ebbero dentro le cabine la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano così come altri voti di lista furono cancellati o addirittura letti al contrario” (p. 115). Con un tocco di ironia, Matteotti rileva che i candidati socialisti noti sono stati fortemente contrastati, mentre i nuovi (inevitabilmente molto meno conosciuti) ce l’hanno fatta.
Sintesi, e oltre
Gli storici possono sottoporre a verifica, controllare, arricchire il resoconto di Matteotti. I politici che hanno fatto i loro compiti di candidati e le loro campagne elettorali, in special modo nelle situazioni autoritarie troveranno molte conferme di quanto hanno vissuto di persona. Gli studiosi dei sistemi politici, in particolare, dei regimi autoritari, non possono che ammirare l’acume, di alto livello politologico, con il quale Matteotti descrive il procedimento elettorale che il fascismo volle controllare e indirizzare verso un esito che ne legittimasse il dominio.
Tutto il materiale e la documentazione raccolta e presentata da Matteotti, nel suo giustamente indignato excursus in qualità di osservatore partecipante, ruolo molto invidiato e apprezzato dagli studiosi di scienza politica, di una consultazione elettorale non libera, costituisce quasi un vademecum di come, per l’appunto, e cosa osservare per valutare la qualità delle elezioni. Tutto giustifica in maniera più che convincente la frase che caratterizza in maniera perentoria quel discorso pronunciato il 30 maggio 1924 sulla “verifica dei poteri e convalida degli eletti”: “contestiamo in questo luogo e in tronco la validità di questa elezione” (p. 96). Quell’obiettivo, dichiarò il parlamentare Giacomo Matteotti, implicava “portare nella camera l’eco delle proteste che altrimenti nel paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione” (p. 103). Nella concezione di Matteotti quell’aula, che Mussolini definì “sorda e grigia”, essendo il luogo della sovranità popolare, aveva il nobile compito di riconfigurare quella sovranità calpestata da brogli e manipolazioni, dalla violenza del governo fascista, dei suoi apparati, delle sue squadracce.
Il prezzo che Matteotti fu obbligato pagare, la perdita della vita, testimonia la sua totale, convinta, deliberata, consapevole dedizione alla democrazia e alla giustizia. La sfida che aveva lanciato al regime fu considerata giustamente tanto forte e tanto pericolosa che il Duce stesso si sentì obbligato a contrastarla nel famoso/infame discorso del 3 gennaio 1925.
“dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Queste parole poste, credo appropriatamente, a conclusione del mio breve testo in omaggio a Matteotti, costituiscono il trampolino di lancio del fascismo movimento, con esplicite componenti di criminalità politica e comune, verso il fascismo regime. Dopo, non ci saranno più elezioni, solo oppressione e repressioni mirate. Non credo che in un regime non democratico sia mai giustificato e giustificabile affermare che “quando un popolo vota ha sempre ragione”. Certamente, però, gli autoritari hanno imparato che il voto del popolo presenta sempre dei rischi. Meglio non darlo per scontato, come fecero nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet e i suoi collaboratori. La ricetta giusta è manipolare per tempo l’opinione pubblica e contrastare, controllare e combattere con la violenza gli oppositori, soprattutto i più audaci e intransigenti, come Alexei Navalny. L’esperienza, la vicissitudine e la denuncia di Giacomo Matteotti, esempi preclari di coraggio civile e politico, continuano a essere altamente istruttive, da onorare.
Bibliografia minima
Caretti, S. e Makuc, J. (a cura di), Giacomo Matteotti. Democrazia e fascismo, Pisa, Pisa University Press, 2021
Degl’Innocenti, M., Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano, Franco Angeli, 2022
Fornaro, F., Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Milano, Bollati Boringhieri, 2024
Garnett, H.A. e Zavadskaya, M. (a cura di), Electoral integrity and political regimes: actors, strategies and consequences, Abingdon, Oxon- New York, NY,: Routledge, 2017
Hermet, G., Rouquié, A., Linz, J.J., Des élections pas comme les autres, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1978.
Hermet, G., Rose, R., Rouquié, A. (a cura di), Elections wihout Choice, Londra, Macmillan, 1978
Norris, P., Strengthening Electoral Integrity, Cambridge,Cambridge University Press, 2017.
Schedler, A. (a cura di), Electoral Authoritarianism. The Dynamics of Unfree Competition, Boulder and London, Lynne Rienner Publishers, 2006.
Zunino, P., L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori, Bologna, il Mulino, 1985.
In chiave comparata le motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni: I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze #Intervento al #Convegno IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI – Accademia Nazionale dei Lincei

Giacomo Matteotti fu, è sempre doveroso sottolinearlo e ribadirlo, un uomo rigoroso e coraggioso. Già nel mirino dei fascisti, la sua durissima, articolata e dettagliata denuncia dell’irregolarità delle elezioni italiane del 6 aprile 1924 spinse i fascisti a decretarne e compierne l’assassinio.
Gianfranco Pasquino
Quelle elezioni anticiparono quanto avvenne in seguito, quasi subito, a partire dal Portogallo di Salazar, in non poche situazioni di autoritarismo nelle quali si tennero consultazioni elettorali dall’esito essenzialmente scontato. Qui, delineato il contesto, brevemente analizzata la legge elettorale, valutati i risultati, la mia relazione si indirizza all’individuazione in chiave comparata delle motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni.
Ludi cartacei
Non può esistere nessuna democrazia laddove non si vota. Infatti, se non si tengono elezioni, il demos (popolo) è privato dell’essenziale kratos (potere) di esprimere le proprie preferenze in materia di persone e di partiti. Tuttavia, non è affatto detto che possano essere considerati democratici automaticamente tutti i sistemi politici nei quali si tengono consultazioni elettorali. Infatti, a parte i brogli, sempre possibili anche nei regimi democratici, da tempo molti regimi non democratici hanno proceduto ad organizzare procedimenti elettorali variamente manipolandoli e efficacemente controllandone gli esiti. Nei regimi totalitari, Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord, le elezioni servono fondamentalmente come strumento di mobilitazione della cittadinanza e si svolgono entro i confini del partito totalitario senza nessuna possibilità di partecipazione per gli oppositori, mentre diversa è stata e continua ad essere la situazione nei regimi autoritari, anche nella variante regimi militari (ad esempio, in Brasile negli anni settanta del secolo scorso).
Un buon numero di governanti autoritari sono convinti di avere in misura, più o meno grande, abbastanza consenso per vincere comunque quelle elezioni. Quasi nessuno di loro dubita di avere la capacità di impedire, se necessario anche con la violenza, il successo di qualsiasi opposizione. Sono convinti che la situazione complessiva del regime e della distribuzione del potere non sarà in nessun modo o quasi cambiata dal risultato elettorale. Certamente, il regime non verrà rovesciato da(gli) elettori che si rivelassero in maggioranza favorevoli all’opposizione. L’unico rischio percepito, ma non troppo temuto, è che gli oppositori si dimostrino più popolari delle aspettative, dei rapporti delle polizie segrete e di eventuali sondaggi di opinione. Pertanto, tenendo conto di rischi non necessari e di costi, in energie e in denaro, inevitabili, la domanda “perché i governanti autoritari decidono di andare a elezioni?” è del tutto legittima ed esige una risposta convincente.
Quale ne è l’utilità, particolaristica, per singoli capi autoritari, e sistemica, per il regime che vogliono costruire e tenere sotto controllo, delle consultazioni elettorali? Molto probabilmente i capi autoritari perseguono uno o più dei seguenti obiettivi: la ricerca di legittimazione interna, domestica e internazionale; la mobilitazione dei sudditi, singoli, gruppi, associazioni, favorevoli al governo autoritario; l’identificazione degli oppositori. Dal canto suo, quel che rimane dell’opposizione non ha scelta. Se intende dimostrare agli osservatori esterni che il capo autoritario non ha il controllo democratico e completo sul sistema politico, ha il dovere politico di prendere parte alle elezioni. Deve offrire un’alternativa ai suoi elettori, nella consapevolezza dei rischi che tutti i suoi candidati, come Giacomo Matteotti, e coloro che coraggiosamente vorranno comunque essere suoi elettori inevitabilmente corrono. Riflettere sulle motivazioni e sulle azioni dei governi autoritari e delle opposizioni serve a illuminare le modalità di esercizio e di eventuale consolidamento del potere autoritario, ma anche della validità o meno delle reazioni e risposte delle opposizioni. Nonostante un numero crescente di analisi anche approfondite e comparate, abbiamo ancora molto da imparare sia per smascherare sia per meglio contrastare i numerosi autoritarismi tuttora esistenti e prosperanti.
Da almeno mezzo secolo una pluralità di organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite (ONU), compresa l’Unione Europea, procedono al monitoraggio delle elezioni politiche in numerosi stati per lo più di dubbia democraticità. Personalmente, ho svolto il compito di osservatore parlamentare in due occasioni elettorali di enorme importanza, entrambe nel Cile di Pinochet. Nel 1988 quando in un referendum/plebiscito la domanda rivolta all’elettorato cileno riguardava l’estensione per alcuni anni del governo guidato dal Gen. Pinochet: sì/no. Prevalsero i “no” portando alla seconda occasione elettorale l’anno successivo 1989: le elezioni presidenziali alle quali Pinochet non si candidò e che furono vinte dal candidato democristiano Patricio Aylwin sostenuto dalla Concertazione Democratica formata da praticamente tutti i partiti di opposizione con regolarità formale del procedimento elettorale. In quelle due occasioni imparai lezioni che solo chi lavora “sul campo” può ricevere e apprendere.
Troppo spesso, ancora oggi, infatti, gli osservatori elettorali giungono sul luogo delle elezioni all’incirca una settimana prima del voto e, nel migliore dei casi, riescono a valutare lo svolgimento di quel voto, sono ammessi ad assistere allo spoglio delle schede, si trovano in condizione di cogliere e denunciare errori e manipolazioni dell’esito. La mia esperienza, la lettura di alcune esperienze altrui, ma, in special modo, una migliore conoscenza delle dinamiche elettorali, molto più complesse di quel che si pensava, mi ha portato ad alcune riflessioni e conclusioni che trovano riscontro nella documentata denuncia di Giacomo Matteotti relativa alla sostanziale irregolarità delle elezioni politiche italiane del 1924.
Quel che avviene il giorno del voto è il prodotto variamente costruito molti mesi prima. Dunque, possiamo pure apprezzare positivamente quel che vediamo e non vediamo quando gli elettori imbucano la scheda nell’urna e quando gli scrutatori leggono scheda per scheda. Assolutamente indispensabile, però, è sapere attraverso quali passaggi si sia arrivati al giorno della votazione. Alcuni passaggi sono sempre, comunque e ovunque, obbligati. Il primo riguarda il riconoscimento e l’accettazione dei partiti ammessi a concorrere e delle candidature da loro presentate. Nelle recenti elezioni presidenziali russe, è noto che Putin ha provveduto per tempo a scoraggiare e impedire la presenza di partiti di opposizione e, quando da lui ritenuto necessario, ad emarginare fino all’eliminazione fisica, gli oppositori più temerari.
Nel 2024 mezzo mondo è già andato, ad esempio, la Russia, la Polonia, il Portogallo, l’India, oppure andrà, ad elezioni a livello nazionale. In questo mezzo mondo ci sono molti regimi autoritari dalle cui esperienze concrete e dalle modalità con le quali svolgeranno le elezioni sarà possibile trarre una pluralità di insegnamenti, generali: su regole e comportamenti, e specifici: sui contesti e sui protagonisti. Grazie alle conoscenze di cui già disponiamo saremo in grado di meglio illuminare e comprendere quello che succederà e non succederà e per quali motivi. Grazie a quello che impariamo potremo addirittura giungere ad una migliore comprensione delle elezioni passate, del loro significato, del loro impatto.
In questo relativamente sintetico intervento, l’oggetto è costituito dalla dettagliata, precisa e potente denuncia formulata dal deputato socialista Giacomo Matteotti riguardante la irregolarità delle elezioni politiche tenutesi il 6 aprile 1924. Come vedremo, tutti i punti sollevati e sottolineati con vigore da Matteotti contribuiscono a delineare le modalità con le quali, probabilmente non in maniera coordinata e strategica, ma sicuramente deliberata e criminale, le autorità fasciste hanno perseguito i loro obiettivi. Del tutto consapevole che, secondo l’insegnamento di Giovanni Sartori, chi conosce un solo caso non conosce neppure quel caso (vale a dire, non può mai essere in grado di affermare con sicurezza che cosa è normale e che cosa è eccezionale), ogniqualvolta possibile farò ricorso a comparazioni.
L’esito
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si tennero in una situazione nella quale il Duce mirava a dimostrare a tutti i protagonisti politici, in particolare, sia alle opposizioni sia a coloro che attendevano opportunisticamente a schierarsi, sia al Re, a se stesso e ai gerarchi intorno a lui sia, da ultimo, ma di non minore importanza, all’opinione pubblica internazionale, che il fascismo già godeva di ampio, diffuso, probabilmente, addirittura maggioritario, consenso elettorale (che terrei molto distinto dal più esigente consenso politico). Peraltro, Mussolini non intendeva correre nessun rischio cosicché affidò a Giacomo Acerbo (1888-1969), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la stesura di una nuova legge elettorale. Sul tronco della esistente legge proporzionale venne innestato un cospicuo premio di maggioranza. Alla lista che avesse ottenuto più voti, ma almeno il 25 per cento, sarebbero stati attribuiti i due terzi dei seggi. Con affluenza alle urne di quasi il 64 per cento degli aventi diritto, la composita Lista nazionale dei fascisti, spudorato carrozzone elettorale, ottenne il 60 per cento dei voti e conquistò 355 seggi. Il Partito Socialista Unitario, per il quale Matteotti fu rieletto deputato, ottenne 422.957 voti e conquistò 24 seggi.
Per completezza di informazione, la tabella riporta i numeri assoluti e le percentuali di voti ottenute da tutte le liste e i partiti presentatisi. Due dati spiccano: da un lato, il 60 per cento di voti ottenuti dalla Lista Nazionale (nota come Listone) ampia aggregazione voluta e guidata dai fascisti; dall’altro, la frammentazione complessiva dello schieramento di liste e partiti contrario al fascismo, fra l’altro, segnale di debolezza e vulnerabilità delle sinistre, anche di non marginale insipienza.
TAB. 1 Risultato delle elezioni politiche nazionali del 6 aprile 1924
| Partito | Risultati | Seggi | ||||
| Voti | % | ± | Num | ± | ||
| 21. Lista Nazionale | 4 305 936 | 60,09 | n.d. | 355 | n.d. | |
| 4. Lista nazionale bis | 347 552 | 4,85 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 5. Partito Popolare Italiano | 645 789 | 9,01 | n.d. | 39 | n.d. | |
| 3. Partito Socialista Unitario | 422 957 | 5,90 | n.d. | 24 | n.d. | |
| 23. Partito Socialista Italiano | 360 694 | 5,03 | n.d. | 22 | n.d. | |
| 19. Partito Comunista d’Italia | 268 191 | 3,74 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 10. Partito Repubblicano Italiano | 133 714 | 1,87 | n.d. | 7 | n.d. | |
| 7. Partito Democratico Sociale Italiano | 111 035 | 1,55 | n.d. | 10 | n.d. | |
| 18. Liberali | 78 099 | 1,09 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 6. Liberali indipendenti | 74 317 | 1,04 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 15. Partito dei Contadini d’Italia | 73 569 | 1,03 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 8. Opposizione costituzionale | 72 941 | 1,02 | n.d. | 8 | n.d. | |
| 12. Slavi e Tedeschi | 62 491 | 0,87 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 13. Opposizione costituzionale | 45 365 | 0,63 | n.d. | 5 | n.d. | |
| 11. Opposizione costituzionale | 33 473 | 0,47 | n.d. | 0 | n.d. | |
| 2. Liberali | 29 936 | 0,42 | n.d. | 3 | n.d. | |
| 22. Camillo Corradini | 29 574 | 0,41 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 17. Partito Sardo d’Azione | 24 059 | 0,34 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 14. Fasci nazionali | 18 062 | 0,25 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 9. Liberali | 12 925 | 0,18 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 1. Opposizione costituzionale | 6 153 | 0,09 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 16. Liberali indipendenti | 5 275 | 0,07 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 20. Liberali indipendenti | 3 395 | 0,05 | n.d. | 0 | n.d. | |
| Iscritti | 11 939 452 | 100,00 | ||||
| ↳ Votanti (% su iscritti) | 7 614 451 | 63,78 | n.d. | |||
| ↳ Voti validi (% su votanti) | 7 165 502 | 94,10 | ||||
| ↳ Voti non validi (% su votanti) | 448 949 | 5,90 | ||||
| ↳ Astenuti (% su iscritti) | 4 325 001 | 36,22 | ||||
Almeno un risultato di quelle elezioni dell’aprile 1924 costituì per Matteotti, pur nella disperazione generale, un motivo di soddisfazione: il suo partito degli espulsi risultò il primo dei partiti della sinistra lacerata, con 422.957 voti e 24 eletti, a fronte dei 360.694 voti con 22 eletti del Partito Socialista Italiano e dei 268.191 voti con 19 eletti del Partito comunista d’Italia. Nonostante tutto, nell’ora del grande pericolo i lavoratori appartenenti alla classe sociale che ciascuno dei tre partiti intendeva rappresentare e guidare, avevano dato il maggiore consenso relativo a Turati e a Matteotti. Ma questo esito non poteva essere sufficiente e soddisfacente per chi, come Matteotti e i socialisti riformisti, credeva nella democrazia basata sulle preferenze dei cittadini e sulle regole attraverso le quali quelle preferenze potevano essere espresse e fatte contare.
La denuncia
Nella seduta della Camera dei deputati del 30 maggio 1924 dedicata alla “Verifica dei poteri e convalida degli eletti”, il neo-rieletto deputato Giacomo Matteotti pronunciò un lungo, circostanziato e documentato discorso inteso a stigmatizzare l’irregolarità complessiva delle elezioni e a chiederne il riesame dell’esito alla Giunta per le elezioni. Denunciò le violenze che in ottomila comuni avevano negato alle minoranze la possibilità di parlare in pubblico, che il sessanta per cento dei candidati socialisti non aveva potuto circolare liberamente nelle circoscrizioni, che molti avevano dovuto cambiar residenza o emigrare, che nei comuni di campagna i fascisti occupavano le sezioni elettorali, che le elezioni non erano valide di fronte alla dichiarazione del governo di rimanere in carica qualunque fosse il loro esito.
Nel 1924 probabilmente per impossibilità tecnica e politica di copertura dell’intero territorio nazionale, ma anche perché gli oppositori ancora godevano di presenza, di visibilità, di sostegno, Mussolini consentì qualche forma di competizione. Tuttavia, come documenta Matteotti, le intimidazioni e le scorrettezze furono numerosissime, diffuse a macchia di leopardo. Seguirò passo passo ciascuno dei punti sollevati e argomentati da Matteotti (sempre facendo riferimento al testo pubblicato nel volume curato da Stefano Caretti e Jaka Makuc) che non si focalizzano sulla sola espressione del voto, ma inquadrano in maniera assolutamente esemplare l’intero procedimento elettorale.
La correttezza di qualsiasi procedimento elettorale inizia dalla presentazione delle liste dei candidati per ciascun partito. In ciascuna circoscrizione la presentazione doveva avvenire mediante un documento notarile al quale era richiesta l’apposizione di un certo numero di firme dalle 300 alle 500. Tuttavia, cito Matteotti: ”in sette circoscrizioni su quindici la raccolta delle firme fu impedita con violenza” (p. 100). “A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati” (p. 101). Inoltre, le “persone che hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso” (p. 102).
Consapevole, come tutti dovremmo essere, che la democraticità delle elezioni si misura anche sulla possibilità di ottenere e accettare la candidatura e, di conseguenza, di liberamente cercare e ottenere voti per il proprio partito, Matteotti insiste su questo punto segnalando che “molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non avere più lavoro l’indomani o dovere abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero” (p. 108). Aggiunge il ben più grave fatto che il socialista “Berta fu assassinato nella sua casa per avere accettato la candidatura” (ibidem).
Coloro prescelti come candidati debbono poi impegnarsi nella campagna elettorale che è una fase di enorme importanza per molteplici ragioni. La campagna elettorale consente ai candidati di farsi (meglio) conoscere dagli elettori al tempo stesso che, a seconda delle loro propensioni e capacità, sono messi in grado di molto apprendere sulle preferenze, sugli interessi, sulle condizioni di vita, sulle aspettative dell’elettorato, non soltanto di coloro che voteranno per loro. D’altro canto, le campagne elettorali possono costituire una grande opportunità di apprendimento politico anche per gli elettori. In una (in)certa misura non sono mai pochi gli elettori che cercano di capire quali candidati e quali partiti rappresenterebbero al meglio quello che desiderano, quello che ritengono utile, al limite la visione di società e, forse, del mondo che hanno. In quegli anni di scontro ideologico e di prospettive opposte, ovviamente la campagna elettorale era destinata a svolgersi in maniera tesa, dura, conflittuale, inevitabilmente e, per i fascisti, programmaticamente, violenta. Chiaramente, l’uso della violenza in qualsiasi campagna elettorale, tollerata, quando non addirittura promossa dai governanti autoritari e dai loro sostenitori, va a scapito della democraticità delle elezioni e del loro esito.
Anche in questo caso, la denuncia di Matteotti fu precisa e documentata. Il deputato socialista segnalò anzitutto che per moltissimi candidati fu sostanzialmente impossibile “esporre in contradittorio con il programma del Governo in pubblici comizi o anche in privati locali le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi, quasi da per tutto questo non fu possibile” (p. 103). A Genova, la campagna elettorale dei socialisti si svolse con una conferenza privata ad inviti alla quale partecipò anche il liberale Giovanni Amendola. Le intimidazioni e le repressioni furono di natura tale che “su 100 dei nostri candidati circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione”. “Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città” (p. 106). In definitiva, la situazione complessiva fu tale che solo in un piccolo numero degli 8mila comuni italiani fu possibile la libera propaganda.
Con queste premesse anche il “semplice atto di votare” era destinato a diventare inevitabilmente una sfida alle squadracce di Mussolini, ai pur innegabilmente molti sostenitori, ai benpensanti timorosi che le onde lunghe della violenza giungessero fino alle loro famiglie. Matteotti sintetizza l’insieme dei comportamenti sottolineando due punti. Primo, la diffusa consapevolezza del “valore relativo del voto” dal momento che il fascismo “in ogni caso avrebbe mantenuto il potere con la forza” (p. 96). Secondo, che, al momento del voto, “nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso” (p. 97). L’esistenza di una “milizia armata a disposizione di un partito” … “impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale” (p. 99).
Il momento del voto
Poi venne il giorno dell’apertura dei seggi. Fra gli elementi che garantiscono lo svolgimento in libertà delle elezioni vi è, nota e sottolinea Matteotti, la possibilità che ai seggi siano presenti i rappresentanti di ciascuna delle liste in competizione (p. 109), mentre “quasi dappertutto si son svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista” (ibidem). Piuttosto, le commissioni presenti ai seggi risultarono composte quasi totalmente di aderenti al partito dominante: “nel 90 per cento e, credo, in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati “ (p. 109). Solo en passant ricordo che in occasione delle elezioni presidenziali tenutesi nel febbraio 2024 in Russia, la televisione ha mostrato le immagini di militari che, fucile spianato, addirittura entravano e uscivano dalle cabine elettorali.
Oggi, lo scrutinio delle schede votate è il momento più tranquillo dei procedimenti elettorali nei regimi non-democratici. Praticamente, risulta essere la ratifica quasi notarile della bontà o meno del lavoro di manipolazione del voto svolto a monte. La prima osservazione di Matteotti riguarda la differenza fra le località nelle quali era esistito qualche spazio di libertà e quelle più strettamente controllate. Nelle prime, “le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi da superare la maggioranza – con questa conseguenza però che la violenza che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni”: distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone (p. 110).
In moltissimi contesti la votazione avveniva in tre maniere. “La regola del tre” dichiarata e apertamente insegnata persino dal prefetto di Bologna. “I fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi variamente alternati, in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto” (p. 112). In altri luoghi “furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione nell’Italia prefascista allargato a larghissime zone del meridione” (p. 113). Matteotti sottolinea che l’ampia disponibilità di certificati elettorali derivava dalla elevata astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero. Quei “certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome fino al punto che certuni votarono dieci volte” (p. 114). Inoltre, “alcuni ebbero dentro le cabine la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano così come altri voti di lista furono cancellati o addirittura letti al contrario” (p. 115). Con un tocco di ironia, Matteotti rileva che i candidati socialisti noti sono stati fortemente contrastati, mentre i nuovi (inevitabilmente molto meno conosciuti) ce l’hanno fatta.
Sintesi, e oltre
Gli storici possono sottoporre a verifica, controllare, arricchire il resoconto di Matteotti. I politici che hanno fatto i loro compiti di candidati e le loro campagne elettorali, in special modo nelle situazioni autoritarie troveranno molte conferme di quanto hanno vissuto di persona. Gli studiosi dei sistemi politici, in particolare, dei regimi autoritari, non possono che ammirare l’acume, di alto livello politologico, con il quale Matteotti descrive il procedimento elettorale che il fascismo volle controllare e indirizzare verso un esito che ne legittimasse il dominio.
Tutto il materiale e la documentazione raccolta e presentata da Matteotti, nel suo giustamente indignato excursus in qualità di osservatore partecipante, ruolo molto invidiato e apprezzato dagli studiosi di scienza politica, di una consultazione elettorale non libera, costituisce quasi un vademecum di come, per l’appunto, e cosa osservare per valutare la qualità delle elezioni. Tutto giustifica in maniera più che convincente la frase che caratterizza in maniera perentoria quel discorso pronunciato il 30 maggio 1924 sulla “verifica dei poteri e convalida degli eletti”: “contestiamo in questo luogo e in tronco la validità di questa elezione” (p. 96). Quell’obiettivo, dichiarò il parlamentare Giacomo Matteotti, implicava “portare nella camera l’eco delle proteste che altrimenti nel paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione” (p. 103). Nella concezione di Matteotti quell’aula, che Mussolini definì “sorda e grigia”, essendo il luogo della sovranità popolare, aveva il nobile compito di riconfigurare quella sovranità calpestata da brogli e manipolazioni, dalla violenza del governo fascista, dei suoi apparati, delle sue squadracce.
Il prezzo che Matteotti fu obbligato pagare, la perdita della vita, testimonia la sua totale, convinta, deliberata, consapevole dedizione alla democrazia e alla giustizia. La sfida che aveva lanciato al regime fu considerata giustamente tanto forte e tanto pericolosa che il Duce stesso si sentì obbligato a contrastarla nel famoso/infame discorso del 3 gennaio 1925.
“dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Queste parole poste, credo appropriatamente, a conclusione del mio breve testo in omaggio a Matteotti, costituiscono il trampolino di lancio del fascismo movimento, con esplicite componenti di criminalità politica e comune, verso il fascismo regime. Dopo, non ci saranno più elezioni, solo oppressione e repressioni mirate. Non credo che in un regime non democratico sia mai giustificato e giustificabile affermare che “quando un popolo vota ha sempre ragione”. Certamente, però, gli autoritari hanno imparato che il voto del popolo presenta sempre dei rischi. Meglio non darlo per scontato, come fecero nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet e i suoi collaboratori. La ricetta giusta è manipolare per tempo l’opinione pubblica e contrastare, controllare e combattere con la violenza gli oppositori, soprattutto i più audaci e intransigenti, come Alexei Navalny. L’esperienza, la vicissitudine e la denuncia di Giacomo Matteotti, esempi preclari di coraggio civile e politico, continuano a essere altamente istruttive, da onorare.
Bibliografia minima
Caretti, S. e Makuc, J. (a cura di), Giacomo Matteotti. Democrazia e fascismo, Pisa, Pisa University Press, 2021
Degl’Innocenti, M., Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano, Franco Angeli, 2022
Fornaro, F., Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Milano, Bollati Boringhieri, 2024
Garnett, H.A. e Zavadskaya, M. (a cura di), Electoral integrity and political regimes: actors, strategies and consequences, Abingdon, Oxon- New York, NY,: Routledge, 2017
Hermet, G., Rouquié, A., Linz, J.J., Des élections pas comme les autres, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1978.
Hermet, G., Rose, R., Rouquié, A. (a cura di), Elections wihout Choice, Londra, Macmillan, 1978
Norris, P., Strengthening Electoral Integrity, Cambridge,Cambridge University Press, 2017.
Schedler, A. (a cura di), Electoral Authoritarianism. The Dynamics of Unfree Competition, Boulder and London, Lynne Rienner Publishers, 2006.
Zunino, P., L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori, Bologna, il Mulino, 1985.
I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze #Convegno IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI – Accademia Nazionale dei Lincei

ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
CONVEGNO
IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI
22-23 MAGGIO 2024
Giacomo Matteotti è stato una figura di grande importanza nella storia italiana, nel dibattito tra riformisti e massimalisti oltre che nella netta opposizione al fascismo, pagata con la vita. La sua attività di dirigente politico, celebre per i discorsi parlamentari in cui sottolineava le violenze fasciste, è ricca di riflessioni e proposte di riforma tributaria, agraria, sulla ripartizione di poteri e risorse tra stato e comuni, sul funzionamento del parlamento. Il convegno intende ricostruire questi diversi aspetti, tuttora ricchi di spunti attuali.
Mercoledì 22 maggio ore 15.00
Gianfranco PASQUINO
I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze
Ballottaggi, rappresentanza e potere #nota Accademia Nazionale dei Lincei

Nota presentata alla Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche nel corso dell’Adunanza di venerdì 10 novembre 2023
Abstract – Il ballottaggio serve a designare un vincitore che abbia la maggioranza assoluta. A garantire rappresentanza allargata. A offrire maggiori informazioni politicamente e socialmente rilevanti a mass media, elettori, candidati stessi. Rischia di essere vulnerabile e vulnerato da scambi impropri? Possibili, ma, quando avvero “impropri” e illegali, sono punibili. Nel complesso, il ballottaggio è preferibile a qualsiasi tecnica elettorale alternativa.
LA DEMOCRAZIA DEL XXI SECOLO Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin #presentazione #9febbraio ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
Intersezioni
Giovedì 9 febbraio 2022, ore 10
La presentazione sarà trasmessa sul canale streaming dell’Accademia
https://www.lincei.it/it/live-streaming
Bruno Carli, Gianfranco Pasquino e Alessandro Roncaglia
presentano il libro
LA DEMOCRAZIA DEL XXI SECOLO
Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin
Al termine interverrà Giuliano Amato, curatore del volume
La presentazione sarà trasmessa sul canale streaming dell’Accademia
https://www.lincei.it/it/live-streaming
“Una democrazia parlamentare, se saprete conservarla” Dagli Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei Anno CDXVIII 2021

Si racconta che un giorno del settembre 1787 quando i Padri Fondatori uscivano dalla Convenzione di Filadelfia che aveva appena approvato la Costituzione USA, una signora si rivolse in maniera aggressiva a Benjamin Franklin, il più anziano componente della Convenzione, chiedendogli: “Che cosa ci avete dato?” La risposta immediata e pacata di Franklin fu: “una Repubblica, signora, se saprete conservarla”. Allora, Repubblica, che ovviamente stava in netto contrasto con la monarchia inglese, era sinonimo di democrazia. Molti Padri Fondatori nutrivano preoccupazioni, espresse nella laconica risposta di Franklin, sul futuro di quella inusitata Repubblica presidenziale. Potremmo cercare molti test di sopravvivenza superati dalla Repubblica, ma, forse, il più complesso e pericoloso è dato dalla Presidenza Trump e da come finirà.
Nella Commissione dei 75 che si occupava della forma di governo italiano, nell’ampio dibattito che si tenne, fece la sua comparsa, ancorché minoritaria, la Repubblica presidenziale sostenuta dal molto autorevole giurista del Partito d’Azione, Piero Calamandrei. Fu respinta e una ampia e composita maggioranza della Commissione si espresse a favore del governo parlamentare, già operante in Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie parlamentari e in tutte le altre, poche, democrazie dell’Europa Occidentale, tutte monarchie ad eccezione della Francia della Quarta Repubblica (1946-1958). Al momento del voto Tomaso Perassi, professore di Diritto Internazionale nell’Università di Roma, costituente eletto per il Partito Repubblicano, propose un ordine del giorno discusso nelle sedute del 4 e 5 settembre del 1946 e approvato.
«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Immagino che se una signora italiana, che aveva esercitato per la prima volta il suo diritto di voto nel referendum Monarchia/Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente, avesse chiesto all’on. Perassi “Che cosa ci avete dato?”, Perassi avrebbe sicuramente risposto “una democrazia parlamentare, se saprete conservarla”. Siamo riusciti a conservarla, fra forzature, strattonamenti, parole d’ordine pericolose, riforme elettorali balorde, proposte di modelli istituzionali controproducenti ma, purtroppo, senza avere davvero cercato e meno che mai trovato, come saggiamente suggerito da Perassi, dei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Da tempo, però, avremmo dovuto imparare che un dispositivo costituzionale rispondente alle preoccupazioni di Perassi esiste e potrebbe essere molto facilmente “importato” nella Costituzione italiana con un minimo di adattamenti. Quel dispositivo, non magico, ma molto intelligente, è il voto di sfiducia costruttivo inserito nella Grundgesetz del 1949 della Repubblica Federale Tedesca e rimasto intatto nella Costituzione della Germania riunificata.
Con il voto di sfiducia costruttivo, nessuna crisi al buio, cioè senza esito precostituito, fa la sua comparsa e non si è avuta nessuna instabilità governativa. Eletto/a da una maggioranza assoluta del Bundestag (quindi, davvero primus/a super pares a soddisfare le accorate richieste di molti commentatori italiani) il cancelliere può essere sconfitto/ da un voto a maggioranza assoluta e sostituito/a purché una maggioranza assoluta si esprima a favore di un altro/a candidato/a entro 48 ore (tempo tecnico affinché tutti i parlamentari riescano a farsi trovare al Bundestag e, al tempo stesso, tempo troppo breve per trame e complotti improvvisati). Quando gli spagnoli scrissero la Costituzione della loro democrazia, 1977-78, memori della loro passata propensione all’instabilità governativa, consapevoli che il problema non era stato risolto né dai francesi della Quarta Repubblica né dalla democrazia parlamentare italiana, congegnarono una variante del voto di sfiducia costruttivo tedesco. Il loro Presidente del governo, titolo ufficiale, può essere sconfitto e sostituito da un voto a maggioranza assoluta della Camera dei deputati espresso su una mozione di sfiducia il cui primo firmatario diventa automaticamente capo del governo. È la procedura che ha consentito al socialista Pedro Sanchez di andare al Palazzo della Moncloa il 2 giugno 2018 al posto del popolare Mariano Rajoy.
Non ho dubbi che Tomaso Perassi considererebbe entrambi i “dispositivi”, tedesco e spagnolo, rispondenti alle sue preoccupazioni e provatamente in grado di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I numeri lo conforterebbero ulteriormente. Nel periodo 1949-2020 ci sono stati molti meno capi di governo in Germania che in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata il regno della stabilità dei Primi ministri. Nel periodo 1978-2020 ci sono stati meno capi di governo in Spagna che in Gran Bretagna nonostante la longue durée di Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007. I due capi di governo delle democrazie parlamentari europee che sono durati più a lungo in carica sono rispettivamente, l’attualmente detentore del record Helmut Kohl (1982-1998), che, però, sente il fiato sul collo di colei che fu un tempo la sua pupilla, Angela Merkel (2005- potenzialmente settembre 2021), e Felipe Gonzales (1982-1996).
Curiosamente, tanto in Germania quanto in Spagna, il dispositivo “sfiducia/nomina” è stato innescato soltanto due volte. La prima, Germania 1972, Spagna 1987, non ebbe successo. La seconda, Germania 1982, aprì l’era Kohl, Spagna 2018, ha riportato i socialisti al governo. Proprio il fatto che il dispositivo per la stabilità sia stato usato con enorme parsimonia è un elemento di pregio. Significa che ha operato da deterrente scoraggiando crisi di governo la cui conclusione non appariva né rapida né sicura.
La strada italiana per stabilizzare gli esecutivi e evitare le degenerazioni del parlamentarismo è stata pervicacemente un’altra, molto diversa e neppure adombrata nell’odg Perassi. È consistita nella manipolazione della legge elettorale al fine di confezionare artificialmente, di fabbricare una maggioranza parlamentare a sostegno di un potenziale capo del governo ma, inevitabilmente a scapito della rappresentanza in un presunto, mai provato trade-off con la presunta e indefinita governabilità. Questo fu il tentativo sconfitto della legge truffa nel 1953, legge che merita l’appellativo per le sue molte e gravi implicazioni anche sulla eventuale riforma della Costituzione. Nell’ambito di un’ampia riforma che toccava 56 articoli della Costituzione su 138, Berlusconi e i suoi alleati introdussero un premio in seggi, di entità variabile, potenzialmente cospicuo, nella legge elettorale di cui fu primo firmatario il sen. Roberto Calderoli. Con una formula diversa, ma non per questo migliore, un notevole premio in seggi fu previsto per il disegno di legge noto come Italicum, sponsorizzato dal governo Renzi e smantellato dalla Corte Costituzionale. Degno di nota è che nella ampia riscrittura della Costituzione, poi bocciata in un referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016, il rafforzamento della figura e dei poteri del capo di governo non era limpidamente affidato a specifici dispositivi costituzionali (di voto di sfiducia costruttivo proprio non si discusse mai), ma esclusivamente agli effetti indiretti della legge elettorale e del depotenziamento del ruolo del Senato e della trasformazione dei suoi compiti. Ho trattato tutto questo in maniera molto più articolata e esauriente nel mio libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, UniBocconi Editore, 2015).
Da nessuna parte nel mondo delle democrazie parlamentari esiste l’elezione popolare diretta del capo del governo (per una approfondita panoramica mi permetto di rimandare al volume da me curato Capi di governo (Bologna, il Mulino, 2005). È stata effettuata tre volte di seguito in Israele, 1996, 1999 e 2001, ma poi, proprio nel 2001 abbandonata poiché non portava nessun beneficio in termini di stabilità delle coalizioni al governo e di efficacia del capo del governo. Qualche cattivo maestro di diritto costituzionale ha sostenuto che in Gran Bretagna esiste l’elezione “quasi diretta” del Primo ministro. Non è vero. Nessun elettore/trice inglese ha la possibilità di votare per colui/colei che diventerà Primo Ministro tranne coloro che lo eleggono parlamentare nel suo collegio uninominale. Poiché il principio cardine di una democrazia parlamentare è che il Primo ministro deve godere della fiducia esplicita o implicita del Parlamento, ciascuno e tutti i Primi ministri possono essere sconfitti in e dal Parlamento e in e dal Parlamento, come è avvenuto frequentemente, quattro volte dal 1990 al 2019, a Westminster, un nuovo Primo ministro può essere individuato e “incoronato”.
Inserire il nome del candidato alla carica di capo del governo nel simbolo del partito utilizzato per la compagna elettorale è un deplorevole escamotage che può ingannare gli elettori, ma che, come argomentò severamente fin da subito Giovanni Sartori, non dovrebbe essere permesso, e del quale, ovviamente, mai nessun Presidente della Repubblica ha tenuto conto. Incidentalmente, non costituisce una prassi in nessun’altra democrazia parlamentare.
Periodicamente, da una ventina d’anni si affaccia la proposta, non argomentata con sufficiente precisione, di procedere ad una riforma delle modalità di formazione del governo italiano applicando la legge utilizzata per l’elezione del sindaco: il “sindaco d’Italia”. Lasciando da parte che un conto è il governo delle città un conto molto diverso è il governo di uno Stato sovrano, l’elezione popolare diretta del capo del governo, che è quanto succede nelle città, significa un vero e proprio cambiamento della forma di governo: da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale sui generis. Obbligherebbe alla revisione di un notevole numero di articoli della Costituzione e alla predisposizione di accurati freni e contrappesi della cui assenza a livello locale molti consigli/eri comunali si lamentano da tempo. Soprattutto, significherebbe privare la democrazia parlamentare del suo pregio maggiore: la flessibilità che consente di cambiare il capo del governo, divenuto, per qualsiasi ragione, imbarazzante, e le coalizioni di governo in Parlamento senza ricorrere a nuove, frequenti elezioni (soluzione indispensabile nelle crisi comunali che coinvolgano il sindaco) che logorerebbero elettori e istituzioni.
L’eventuale introduzione del modello del “sindaco d’Italia” non corrisponderebbe affatto alle esigenze poste da Perassi di “disciplinare” il sistema parlamentare. Al contrario, ne comporterebbe una trasformazione/deformazione radicale, addirittura il suo abbandono, per andare in una direzione non sufficientemente nota. Sono convinto che, ammonendoci che ci aveva messi in guardia, l’on. Perassi, si sentirebbe pienamente giustificato nell’affermare che, con furbizie, errori, inganni, molti italiani continuano a dimostrare di non essere in grado di fare funzionare la democrazia parlamentare che i Costituenti diedero loro e rischiano di non riuscire a conservarla.
Nota presentata il 25 giugno 2020
“La strategia delle riforme e l’approvazione dello Statuto” #video #convegno Lo Statuto dei lavoratori compie cinquant’anni – Accademia Nazionale Dei Lincei
ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
Convegno
LO STATUTO DEI LAVORATORI COMPIE CINQUANT’ANNI
Sessione 1 – La struttura giuridica dello Statuto
Gianfranco PASQUINO
La strategia delle riforme e l’approvazione dello Statuto
ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
LO STATUTO DEI LAVORATORI COMPIE CINQUANT’ANNI
Comitato ordinatore: Antonio GAMBARO, Gianfranco PASQUINO, Alessandro RONCAGLIA (Coordinatore)
Lo Statuto dei lavoratori (L. 20.5.1970 n. 300) è attivo da mezzo secolo: un lasso di tempo adeguato per fare un bilancio della più importante fra le leggi in tema di diritto del lavoro, considerando la sua struttura giuridica, le sue implicazioni economiche, politiche e sociali, le vicende che hanno accompagnato la sua evoluzione nel tempo.
PROGRAMMA
10.00 Saluto della Presidenza dell’Accademia Nazionale dei Lincei
Sessione 1 – La struttura giuridica dello Statuto
10.10 Alessandro RONCAGLIA (Linceo, Sapienza Università di Roma): Lavoro costrittivo e dignità del lavoro
10.40 Silvana SCIARRA (Corte Costituzionale, Roma): La struttura giuridica dello Statuto dei lavoratori
11.10 Intervallo
11.30 Gianfranco PASQUINO (Linceo, Università di Bologna): La strategia delle riforme e l’approvazione dello Statuto
12.00 Giuseppe SANTORO PASSARELLI (Linceo, Sapienza Università di Roma): Il nuovo volto del diritto del lavoro a cinquanta anni dallo Statuto dei Lavoratori
12.30 Discussione
Sessione 2 – Le implicazioni economiche e politiche dello Statuto
14.00 Annamaria SIMONAZZI (Sapienza Università di Roma): Vincoli e occupazione
14.30 Ida REGALIA (Università di Milano): L’evoluzione della società e della politica in Italia e Statuto dei lavoratori
15.00 Discussione
15.20 Intervallo
15.40 Tavola Rotonda: Ricordi e prospettive
Coordina Antonio GAMBARO (Linceo, Università di Milano) – Partecipano Giuliano AMATO (Corte
Costituzionale, Roma) – Tiziano TREU (CNEL, Roma) – Giorgio BENVENUTO (Fondazione Brodolini,
Roma)
17.00 Conclusione dei lavori
Il convegno è organizzato in collaborazione con Economia civile e Fondazione Brodolini
ROMA – PALAZZO CORSINI – VIA DELLA LUNGARA, 10
Segreteria del convegno: piemontese@lincei.it – http://www.lincei.it
Una democrazia parlamentare, se saprete conservarla
Una volta per tutte: questa è una democrazia parlamentare. Leggano quelli che … “il governo eletto direttamente dal popolo” e altre affermazioni approssimative e sbagliate. La mia predicazione continua.
Si racconta che un giorno del settembre 1787 quando i Padri Fondatori uscivano dalla Convenzione di Filadelfia che aveva appena approvato la Costituzione USA, una signora si rivolse in maniera aggressiva a Benjamin Franklin, il più anziano componente della Convenzione, chiedendogli: “Che cosa ci avete dato?” La risposta immediata e pacata di Franklin fu: “una Repubblica, signora, se saprete conservarla”. Allora, Repubblica, che ovviamente stava in netto contrasto con la monarchia inglese, era sinonimo di democrazia. Molti Padri Fondatori nutrivano preoccupazioni, espresse nella laconica risposta di Franklin, sul futuro di quella inusitata Repubblica presidenziale. Potremmo cercare molti test di sopravvivenza superati dalla Repubblica, ma, forse, il più complesso e pericoloso è dato dalla Presidenza Trump e da come finirà.
Nella Commissione dei 75 che si occupava della forma di governo italiano, nell’ampio dibattito che si tenne, fece la sua comparsa, ancorché minoritaria, la Repubblica presidenziale sostenuta dal molto autorevole giurista del Partito d’Azione, Piero Calamandrei. Fu respinta e una ampia e composita maggioranza della Commissione si espresse a favore del governo parlamentare, già operante in Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie parlamentari e in tutte le altre, poche, democrazie dell’Europa Occidentale, tutte monarchie ad eccezione della Francia della Quarta Repubblica (1946-1958). Al momento del voto Tomaso Perassi, professore di Diritto Internazionale nell’Università di Roma, costituente eletto per il Partito Repubblicano, propose un ordine del giorno discusso nelle sedute del 4 e 5 settembre del 1946 e approvato.
«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Immagino che se una signora italiana, che aveva esercitato per la prima volta il suo diritto di voto nel referendum Monarchia/Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente, avesse chiesto all’on. Perassi “Che cosa ci avete dato?”, Perassi avrebbe sicuramente risposto “una democrazia parlamentare, se saprete conservarla”. Siamo riusciti a conservarla, fra forzature, strattonamenti, parole d’ordine pericolose, riforme elettorali balorde, proposte di modelli istituzionali controproducenti ma, purtroppo, senza avere davvero cercato e meno che mai trovato, come saggiamente suggerito da Perassi, dei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Da tempo, però, avremmo dovuto imparare che un dispositivo costituzionale rispondente alle preoccupazioni di Perassi esiste e potrebbe essere molto facilmente “importato” nella Costituzione italiana con un minimo di adattamenti. Quel dispositivo, non magico, ma molto intelligente, è il voto di sfiducia costruttivo inserito nella Grundgesetz del 1949 della Repubblica Federale Tedesca e rimasto intatto nella Costituzione della Germania riunificata.
Con il voto di sfiducia costruttivo, nessuna crisi al buio, cioè senza esito precostituito, fa la sua comparsa e non si è avuta nessuna instabilità governativa. Eletto/a da una maggioranza assoluta del Bundestag (quindi, davvero primus/a super pares a soddisfare le accorate richieste di molti commentatori italiani) il cancelliere può essere sconfitto/a da un voto a maggioranza assoluta e sostituito/a purché una maggioranza assoluta si esprima a favore di un altro/a candidato/a entro 48 ore (tempo tecnico affinché tutti i parlamentari riescano a farsi trovare al Bundestag e, al tempo stesso, tempo troppo breve per trame e complotti improvvisati). Quando gli spagnoli scrissero la Costituzione della loro democrazia, 1977-78, memori della loro passata propensione all’instabilità governativa, consapevoli che il problema non era stato risolto né dai francesi della Quarta Repubblica né dalla democrazia parlamentare italiana, congegnarono una variante del voto di sfiducia costruttivo tedesco. Il loro Presidente del governo, titolo ufficiale, può essere sconfitto e sostituito da un voto a maggioranza assoluta della Camera dei deputati espresso su una mozione di sfiducia il cui primo firmatario diventa automaticamente capo del governo. È la procedura che ha consentito al socialista Pedro Sanchez di andare al Palazzo della Moncloa il 2 giugno 2018 al posto del popolare Mariano Rajoy.
Non ho dubbi che Tomaso Perassi considererebbe entrambi i “dispositivi”, tedesco e spagnolo, rispondenti alle sue preoccupazioni e provatamente in grado di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I numeri lo conforterebbero ulteriormente. Nel periodo 1949-2020 ci sono stati molti meno capi di governo in Germania che in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata il regno della stabilità dei Primi ministri. Nel periodo 1978-2020 ci sono stati meno capi di governo in Spagna che in Gran Bretagna nonostante la longue durée di Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007). I due capi di governo delle democrazie parlamentari europee che sono durati più a lungo in carica sono rispettivamente, l’attualmente detentore del record Helmut Kohl (1982-1998), che, però, sente il fiato sul collo di colei che fu un tempo la sua pupilla, Angela Merkel (2005- potenzialmente settembre 2021), e Felipe Gonzales (1982-1996).
Curiosamente, tanto in Germania quanto in Spagna, il dispositivo “sfiducia/nomina” è stato innescato soltanto due volte. La prima, Germania 1972, Spagna 1987, non ebbe successo. La seconda, Germania 1982, aprì l’era Kohl, Spagna 2018, ha riportato i socialisti al governo. Proprio il fatto che il dispositivo per la stabilità sia stato usato con enorme parsimonia è un elemento di pregio. Significa che ha operato da deterrente scoraggiando crisi di governo la cui conclusione non appariva né rapida né sicura.
La strada italiana per stabilizzare gli esecutivi e evitare le degenerazioni del parlamentarismo è stata pervicacemente un’altra, molto diversa e neppure adombrata nell’odg Perassi. È consistita nella manipolazione della legge elettorale al fine di confezionare artificialmente, di fabbricare una maggioranza parlamentare a sostegno di un potenziale capo del governo ma, inevitabilmente a scapito della rappresentanza in un presunto, mai provato trade-off con la presunta e indefinita governabilità. Questo fu il tentativo sconfitto della legge truffa nel 1953, legge che merita l’appellativo per le sue molte e gravi implicazioni anche sulla eventuale riforma della Costituzione. Nell’ambito di un’ampia riforma che toccava 56 articoli della Costituzione su 138, Berlusconi e i suoi alleati introdussero un premio in seggi, di entità variabile, potenzialmente cospicuo, nella legge elettorale di cui fu primo firmatario il sen. Roberto Calderoli. Con una formula diversa, ma non per questo migliore, un notevole premio in seggi fu previsto per il disegno di legge noto come Italicum, sponsorizzato dal governo Renzi e smantellato dalla Corte Costituzionale. Degno di nota è che nella ampia riscrittura della Costituzione, poi bocciata in un referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016, il rafforzamento della figura e dei poteri del capo di governo non era limpidamente affidato a specifici dispositivi costituzionali (di voto di sfiducia costruttivo proprio non si discusse mai), ma esclusivamente agli effetti indiretti della legge elettorale e del depotenziamento del ruolo del Senato e della trasformazione dei suoi compiti. Ho trattato tutto questo in maniera molto più articolata e esauriente nel mio libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, UniBocconi Editore, 2015).
Da nessuna parte nel mondo delle democrazie parlamentari esiste l’elezione popolare diretta del capo del governo (per una approfondita panoramica mi permetto di rimandare al volume da me curato Capi di governo (Bologna, il Mulino, 2005). È stata effettuata tre volte di seguito in Israele, 1996, 1999 e 2001, ma poi, proprio nel 2001 abbandonata poiché non portava nessun beneficio in termini di stabilità delle coalizioni al governo e di efficacia del capo del governo. Qualche cattivo maestro di diritto costituzionale ha sostenuto che in Gran Bretagna esiste l’elezione “quasi diretta” del Primo ministro. Non è vero. Nessun elettore/trice inglese ha la possibilità di votare per colui/colei che diventerà Primo Ministro tranne coloro che lo eleggono parlamentare nel suo collegio uninominale. Poiché il principio cardine di una democrazia parlamentare è che il Primo ministro deve godere della fiducia esplicita o implicita del Parlamento, ciascuno e tutti i Primi ministri possono essere sconfitti in e dal Parlamento e in e dal Parlamento, come è avvenuto frequentemente, quattro volte dal 1990 al 2019, a Westminster, un nuovo Primo ministro può essere individuato e “incoronato”.
Inserire il nome del candidato alla carica di capo del governo nel simbolo del partito utilizzato per la compagna elettorale è un deplorevole escamotage che può ingannare gli elettori, ma che, come argomentò severamente fin da subito Giovanni Sartori, non dovrebbe essere permesso, e del quale, ovviamente, mai nessun Presidente della Repubblica ha tenuto conto. Incidentalmente, non costituisce una prassi in nessun’altra democrazia parlamentare.
Periodicamente, da una ventina d’anni si affaccia la proposta, non argomentata con sufficiente precisione, di procedere ad una riforma delle modalità di formazione del governo italiano applicando la legge utilizzata per l’elezione del sindaco: il “sindaco d’Italia”. Lasciando da parte che un conto è il governo delle città un conto molto diverso è il governo di uno Stato sovrano, l’elezione popolare diretta del capo del governo, che è quanto succede nelle città, significa un vero e proprio cambiamento della forma di governo: da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale sui generis. Obbligherebbe alla revisione di un notevole numero di articoli della Costituzione e alla predisposizione di accurati freni e contrappesi della cui assenza a livello locale molti consigli/eri comunali si lamentano da tempo. Soprattutto, significherebbe privare la democrazia parlamentare del suo pregio maggiore: la flessibilità che consente di cambiare il capo del governo, divenuto, per qualsiasi ragione, imbarazzante, e le coalizioni di governo in Parlamento senza ricorrere a nuove, frequenti elezioni (soluzione indispensabile nelle crisi comunali che coinvolgano il sindaco) che logorerebbero elettori e istituzioni.
L’eventuale introduzione del modello del “sindaco d’Italia” non corrisponderebbe affatto alle esigenze poste da Perassi di “disciplinare” il sistema parlamentare. Al contrario, ne comporterebbe una trasformazione/deformazione radicale, addirittura il suo abbandono, per andare in una direzione non sufficientemente nota. Sono convinto che, ammonendoci che ci aveva messi in guardia, l’on. Perassi, si sentirebbe pienamente giustificato nell’affermare che, con furbizie, errori, inganni, molti italiani continuano a dimostrare di non essere in grado di fare funzionare la democrazia parlamentare che i Costituenti diedero loro e rischiano di non riuscire a conservarla.
Accademia Nazionale dei Lincei, Nota presentata il 25 giugno 2020



