Home » Posts tagged 'Alcide De Gasperi'

Tag Archives: Alcide De Gasperi

Sulla Presidenza della Repubblica Italiana. Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore #CasadellaCultura @C_dellaCultura

A: Che non si debba parlare dei nomi dei candidati alla Presidenza della Repubblica in anticipo rispetto alla data dell’elezione sta scritto nella Costituzione italiana? O dove?

P: Da nessuna parte, neanche nel dibattito alla Costituente qualcuno si chiese se ci fosse un tempo per tacere e un tempo per parlare di nomi. Nomi se ne sono sempre fatti in anticipo, talvolta per bruciarli talvolta come ballons d’essai, per testarne le probabilità di (in)successo. In qualche caso, per esempio, nel 1992, Andreotti non nascose la sua intenzione, mentre Craxi si interrogava se per la sua strategia non sarebbe stato preferibile eleggere Arnaldo Forlani al Quirinale. Poi andò molto diversamente con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro e il pentapartito venne sepolto sotto il muro di Berlino anche grazie a Mani Pulite e ai referendum del 1993, soprattutto quello elettorale.

A: Nelle altre democrazie parlamentari la discussione sui nomi dei possibili Presidenti è frequente, diffusa, intensa, paragonabile a quella italiana?

P: La risposta è sorprendente. Un buon numero di democrazie parlamentari europee non hanno nessun problema. Infatti, sono –a partire dalla Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda, Belgio, Spagna, Lussemburgo- monarchie. In alcune, Austria, Finlandia, Portogallo, il Presidente della Repubblica viene eletto dagli elettori. Rimangono, la Germania e la Grecia nelle quali è il Parlamento che elegge il Presidente. In Germania senza tensioni, ma con un accordo, sempre rispettato, fra i due grandi partiti. Eletto nel 2017, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier è stato voluto dalla democristiana Angela Merkel. In Grecia è richiesta una maggioranza qualificata a scalare fino alla quinta votazione nella quale è sufficiente la maggioranza relativa. Naturalmente, i nomi circolano un po’ dappertutto, ma senza i recenti eccessi italiani quando ci si è finalmente resi conto che il Presidente della Repubblica gode di notevoli poteri istituzionali e politici. Può essere, nel bene e nel male, un protagonista. Sarebbe, dunque, un contributo utile al dibattito pubblico se i nomi dei candidabili fossero fatti circolare e discussi senza ipocrisie e manipolazioni.

A: Non sono al corrente di autocandidature, ma esistono o sono esistiti criteri utili per scremare il campo dei “pretendenti”?

P: A lungo, grazie al democristiano De Gasperi che nel 1948 fermamente volle il liberale Luigi Einaudi alla Presidenza, il criterio, non formalizzato, ma operativo fu quello dell’alternanza. Ad un Presidente non democristiano seguiva un Presidente democristiano (il candidato che riusciva a sopravvivere alle lotte fra le correnti DC). Il non-democristiano era espresso da uno dei partiti alleati al governo con la DC, prima i liberali: Einaudi (1948-1955); poi i socialdemocratici: Saragat (1964-1971); poi i socialisti: Pertini (1978-1985). Dopo l’89 questo criterio risulta inapplicabile per la scomparsa dei protagonisti. Permane, o almeno così può sembrare, il criterio di un certo distacco del candidato dalla politica attiva di partito. Così è stato per Scalfaro, per Ciampi, per Napolitano e anche per Mattarella. Per tutti ha contato positivamente anche una esperienza istituzionale più o meno lunga e non controversa.

A: Sbaglio se rilevo che nessuno dei menzionati aveva cariche di governo o di partito al momento della sua elezione?

P: Tutt’altro, questa “fuoruscita” dalla politica attiva è stata considerata positivamente, garanzia di non partigianeria, di disponibilità a mettersi super partes ovvero, come disse brutalmente e memorabilmente Napolitano, di essere sì, di parte, ma dalla parte della Costituzione. Contro Aldo Moro nel 1971 fu La Malfa soprattutto a fare valere l’argomento del suo visibile impegno politico ancora evidentemente operante. Se Draghi fosse eletto al Quirinale risulterebbe il primo a passare senza soluzione di continuità da una carica di governo al vertice dello Stato. Certo, questa transizione sarebbe pur sempre mitigata dal suo non avere avuto una carriera politica e non essere il dirigente di un partito.

A: Dovremmo, però, temere che questa (ir)resistibile ascesa di Mario Draghi comporti, come ha segnalato il Ministro Giancarlo Giorgetti, l’irruzione nella Repubblica italiana di un semipresidenzialismo de facto?

P: Anche in questo caso la stupirò, cara Apprendista. Semipresidenzialismo c’è quando il Presidente della Repubblica (eletto direttamente dagli elettori, che non sarebbe comunque il caso italiano) nomina il Capo del governo che deve, comunque, godere di una maggioranza parlamentare che, come minimo, non gli si oppone, non lo contrasta. Una situazione simile esiste già anche nella Repubblica italiana attuale con una differenza rilevante: il Presidente nomina la personalità che gli è stata suggerita dai segretari dei partiti che la sosterranno nell’azione di governo. Nel caso di Draghi è lecito chiedersi se il suo nome sia emerso dai partiti oppure sia stato proposto dal Presidente Mattarella a quei partiti. Non approfondisco tranne una sottolineatura: i Presidenti della Repubblica italiana godono, se li sanno esercitare, di notevoli poteri istituzionali (e politici). Colgo, da parte di alcuni candidati che già corrono, la volontà di procedere alla rassicurante (per i capi dei partiti) disponibilità ad accettare, comunque a tenere in grandissimo conto, le preferenze che quei capi vorranno esprimere. Insomma, non è alle viste uno Scalfaro che seppe dire no no tanto a Berlusconi quanto a Prodi né un Napolitano che non sciolse il Parlamento nel novembre 2011 e nominò Monti Presidente del Consiglio.

A: Eppure, se ricordo correttamente, lo spazio affinché i Presidenti sviluppino un’azione autonoma nei limiti abbastanza ampi e flessibili, del dettato costituzionale, ci sono eccome. Lei, Professore, li ha addirittura variamente teorizzati.

P: Sì. Con riferimento ai poteri del Presidente e alla loro possibile utilizzazione ho formulato e variamente applicato la “teoria della fisarmonica” la cui fonte iniziale è stata l’immaginazione costituzionale di Giuliano Amato, che non ricorda più dove, ma in un conferenza, e quando. In estrema sintesi, tutta mia, ma discussa con Amato, la gamma dei poteri presidenziali contenuti nella Costituzione è molto ampia. La sua utilizzazione concreta dipende dalla personalità del Presidente, dalla sua competenza istituzionale e dalla sua biografia politica (e professionale). Dipende soprattutto dalla forza dei partiti, quelli che lo hanno eletto, e del sistema dei partiti. Quella gamma di poteri è assimilabile a una fisarmonica. Se i partiti sono deboli e il Presidente sa come suonarla, la fisarmonica giunge alla sua massima estensione. Quando i partiti sono forti non consentiranno al Presidente di aprire la fisarmonica e di suonare quello che vuole, anche se lo spartito rimane comunque quello inscritto nella Costituzione. Non so quanto nei suoi dieci mesi di governo Draghi abbia imparato che gli sia di aiuto nello suonare la fisarmonica dell’ampia gamma di poteri presidenziali. Peraltro, lo vedremmo fin dall’impegnativo debutto quando dovrà nominare il Presidente del Consiglio in sua sostituzione.

A: Siamo allo snodo definitivo. Al di là delle ambizioni personali e delle preferenze particolaristiche, quali dovrebbero essere i criteri per scegliere la candidatura migliore, magari con il concorso dell’opinione pubblica?

P: la Presidenza della Repubblica non può essere il premio alla carriera politica di nessuno. Non deve neanche essere il risarcimento per carriere politiche passate. Non è la carica da attribuire per qualche considerazione di gender parity. Non è qualcosa da scambiare: elezione in cambio di scioglimento del Parlamento, uno scambio indecente che immediatamente scalfirebbe autorevolezza e prestigio del Presidente appena eletto. Al Quirinale deve andare chi rappresenta al meglio “l’unità nazionale”, chi offre la garanzia di tenere la Costituzione come stella polare del suo mandato, chi ha dato prova di europeismo de facto, in pratica. Su questi elementi è giusto aprire la conversazione democratica-istituzionale. Farà bene alla politica.

Bologna 5 novembre 2021

Pubblicato il 5 novembre 2021 su casadellacultura.it

L’Assemblea costituente dei migliori

Da qualche tempo, numerose sono le lamentele sulla bassa qualità della classe dirigente italiana, in particolare, della classe politica. Naturalmente, ciascuno dei critici, a sua volta, membro della classe dirigente, esclude se stesso e la maggioranza dei suoi colleghi dalle critiche. Proprio la presenza di Mario Draghi al vertice del governo certifica e accentua l’inesistenza di una classe politica adeguata. Non è sempre stato così. Anzi, una riflessione sui componenti dell’Assemblea costituente offre la possibilità di capire come si possa reclutare una buona classe politica capace di rappresentare al meglio un paese.

   In totale i Costituenti furono 556 dei quali soltanto 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque. Anche se non è giusto sostenere che erano tutti uomini e donne di partito, qualifica che sarebbe subito stata respinta dai 30 rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, i Costituenti erano stati selezionati dai dirigenti dei rispettivi partiti e del Fronte e eletti anche, forse, soprattutto, in quanto rappresentanti di quelle liste. Dunque, vi si trovavano dirigenti di partito: Alcide De Gasperi, Lelio Basso, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, che avrebbero avuto una lunga carriera politica. C’erano molti che avevano combattuto il fascismo, finendo in carcere anche per diversi anni, come Vittorio Foa e Umberto Terracini poi presidente dell’Assemblea Costituente. Altri avevano avuto un ruolo importante nella Resistenza: Ferruccio Parri, Antonio Giolitti, Luigi Longo. Alcuni erano stati esuli come Leo Valiani in Francia e diversi comunisti in Unione Sovietica.

   Le biografiche politiche dei Costituenti segnalano anche che un certo numero di loro, fra i quali Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale, era stato eletto in Parlamento per alcuni anni prima dell’avvento del fascismo. La componente della Democrazia cristiana era molto variegata. Accanto ai professorini, Fanfani, Lazzati, Dossetti, Moro, alcuni dei quali provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolici Italiani, si trovarono esponenti delle professioni, avvocati e banchieri, persino alcuni notabili locali, cioè persone note e apprezzate nelle loro comunità. Poiché bisognava scrivere una Costituzione democratica, tutti i partiti decisero di fare eleggere nelle loro fila autorevoli professori capaci di dare un apporto scientifico altrimenti non disponibile: Piero Calamandrei per il piccolo Partito d’Azione, oltre ai professorini Costantino Mortati indipendente nella Democrazia Cristiana, Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Francesco De Martino per il PSI, Tomaso Perassi per il Partito repubblicano.

   Non socialmente rappresentativi, per estrazione sociale, titolo di studio, esperienze di vita, i Costituenti sono un esempio difficilmente imitabile di come si crea una classe politica. Nient’affatto specchio della società italiana, offrirono la migliore rappresentanza politica possibile: indicarono una strada e delinearono come intraprenderla.

Pubblicato AGL il 3 giugno 2021

Una traccia di storia da bocciatura #maturità2018

Per fortuna, gli esami non finiscono mai. A settembre potrò ripetere la prima prova alla quale sono stato giustamente bocciato. Infatti, ho negato qualsiasi rilevanza al contributo di Aldo Moro alla costruzione dell’Europa. Ho scritto che, primo, citare un suo discorso del 1975, quando il Mercato Comune era già in esistenza da 18 anni, mi pareva anacronistico e, uh uh, ho ceduto all’esagerazione/esasperazione, aggiungendo addirittura: sbagliato. A quale fine poi? Costruire il santino di Aldo Moro? Ho sostenuto, secondo, che non è minimamente possibile mettere sullo stesso piano, per quel che riguarda l’Europa, De Gasperi e Moro. Lo statista trentino ha quasi tutti i meriti iniziali, ma, anche per questo, cruciali, mentre il politico pugliese arriva dopo, tardi e poco. Ad esempio, non è neppure citato nell’imponente indice dell’autorevole Oxford Handbook of the European Union (Oxford University Press 2012) dove De Gasperi ha quattro citazioni e Spinelli (appena menzionato nella Traccia) ne ha sei. Però, confesso subito, ma non faccio nessuna autocritica, anch’io neppure lo cito, Aldo Moro, nel mio volumetto L’Europa in trenta lezioni (UTET 2017). Terzo, in nessuno dei passaggi importanti dell’Europa: CECA, CEE (Messina, 25 marzo 1957) quando il ruolo centrale fu quello del Ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, Euratom, si ricordano contributi specifici di Moro. Capisco i sensi di colpa, anche, evidentemente, degli estensori della Traccia, a meno che abbiano semplicemente, forse opportunisticamente, ceduto alla commozione per il 40esimo anniversario del suo assassinio ad opera delle Brigate Rosse, ma stravolgere la storia non è mai il modo migliore di ricordarla, insegnarla, farla imparare. Non vorrei che, di questo passo, qualcuno prossimamente chieda di scrivere sul contributo, certo anticipatore, di Moro alla caduta del Muro di Berlino.

Quanto alle motivazioni della spinta all’unificazione europea, la Guerra Fredda mi pare essere il classico cavolo a merenda e le due superpotenze non erano state invitate a quella merenda. Si trattava, invece, di evitare per sempre la guerra calda, ovvero la Terza Guerra Mondiale, togliendo come oggetto del conflitto il carbone e l’acciaio contesi da Francia e Germania. Nella prospettiva, non nella speranza, poiché Altiero Spinelli e Jean Monnet erano uomini d’azione, seppur con differenti stili e temperamenti, oltre che nella convinzione politica e etica che gli Stati nazionali avrebbero continuati a farse guerre sempre più sanguinose e devastanti, si trattava di superare quegli stati obsoleti e ostinati con una costruzione democratica di diritti e doveri, opportunità, prosperità e pace per i cittadini. Qui, probabilmente, avrei scritto qualcosa sui sovranisti che sono tecnicamente dei reazionari: vogliono tornare indietro, come se i loro piccoli stati avessero qualche chance di risolvere problemi difficili anche per l’Unione dei Ventisette. Almeno agli inizi, gli USA videro con piacere il tentativo europeo e non solo poiché l’Europa unificata avrebbe costituito un baluardo contro l’eventuale espansionismo sovietico, ma anche perché un’Europa pacificata e consolidata non avrebbe avuto bisogno di nessun intervento militare USA. Quei governanti USA conoscevano molto dell’Europa a differenza dei loro successori a partire da George W. Bush e dal palazzinaro Donald Trump.

Ad ogni buon conto, meglio essere rimandato a settembre, quando arriverò ancora meglio preparato, avendo studiato anche il ponderoso pensiero di Salvini, già Eurodeputato, perché desidero superare l’esame alla grande, non per il rotto della cuffia con qualche frase di circostanza. Chi sa poi potrebbe pure essere che queste mie risposte scarne e irritate abbiano suscitato qualche curiosità in alcuni commissari. Qualcuno di loro potrebbe avere deciso di leggere qualcosa di Spinelli e persino di Moro (ad esempio, quella che è forse, ancorché enormemente simpatetica, la biografia migliore: Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino 2016, dove la presenza dell’Europa è del tutto marginale) nella speranza dei commissari e, naturalmente, mia che la prossima volta quando si chiederà agli studenti di scrivere sull’Europa ne sapranno di più perché i loro docenti ne avranno insegnato di più e meglio. L’Europa politica, sarebbe d’accordo persino Immanuel Kant, non è un sogno e neppure un destino al quale non riusciremo a sottrarci. È un progetto politico al quale molti italiani a partire da De Gasperi e Spinelli hanno dato un importante contributo. Per Moro cercheremo un’altra traccia in un altro di quegli esami che finiscono solo quando finisce la vita e con lei la possibilità di studiare e imparare.

Pubblicato il 28 giugno 2018 su PARADOXAforum

Governo di non-coalizione: figlio della nuova Europa?

Se l’assenza di un’intesa sufficiente a formare il Governo pare oggi cronicizzarsi, rinviando alla questione – sostanziale – delle premesse esistenti per avviare un dialogo politico, il carattere’istituzionale’ dell’esecutivo assume – o, meglio, rivela – la propria centralità. Nell’ipotesi di un’apertura erga omnes formulata dal Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che preveda la partecipazione di tutti i partiti, il nuovo Governo trarrebbe il proprio impulso da una strategia applicata (evitando, cioè, speculazioni astratte) su “obiettivi condivisi” a partire dagli “obblighi internazionali” che spettano al Paese. Né la Lega, forte della vittoria del Centrodestra in Molise e Friuli, né il M5S sembrano favorevoli alla proposta.
Resta, poi da capire quali potrebbero essere gli obiettivi effettivamente “condivisi” tra le forze politiche. Di certo, gli impegni italiani nell’agenda europea e internazionale (ridefinizione dell’Eurozona, politica migratoria e riforma del ‘Sistema Dublino’, funzione di facilitatorediplomatico nell’ambito dell’Alleanza atlantica, ruolo attivo nel Mediterraneo, nei Paesi africani e nelle organizzazioni internazionali – quest’anno l’Italia ha assunto la Presidenza dell’OSCE) crescono e non potranno essere disattesi dal protrarsi dello stallo interno. Il fatto che l’ordinaria amministrazione prosegua, anche rispetto a questi temi cruciali, riporta alla questione iniziale: la natura di istituzione di un Governo, quale che sia la maggioranza che esprime, non è derogabile.
Anche senza considerare i ‘bioritmi’ dei singoli Ministeri (mentre è stato faticosamente varato il Documento di Economia e Finanza, al G7 di Toronto il Ministro dell’Interno Marco Minniti si è posto attivamente – in coerenza con la linea assunta durante l’intero mandato – come alfiere della lotta all’estremismo terrorista), si potrebbe, in prima battuta, considerare la transitorietà governativa italiana alla luce delle recenti esperienze di altri Paesi europei.
Come è successo in Spagna nel 2016, dove 10 mesi di negoziazioni quadripartite e due legislative hanno preceduto, complice l’astensione ‘imperativa’ di numerosi Socialisti, l’investitura di Mariano Rajoy, l’anno successivo l’Olanda ha visto il liberale Mark Rutte privo, per oltre 200 giorni (dal 5 marzo al 9 ottobre 2017, esattamente come accadde nel 1977), di una maggioranza in Parlamento sufficiente a sostenerlo. Anche la Germania, del resto, ha dovuto attendere fino a marzo di quest’anno per un accordo che, dopo il voto di settembre, portasse alla ‘Grosse Koalition’… Ma Il più eclatante, arretrando nel tempo, resta il caso belga: 544 giorni dalle elezioni del 13 giugno 2010, con la vittoria dei Neo-fiamminghi di Bart De Wever, al 6 dicembre 2011.
Oltre ai tempi lunghi, comune a queste esperienze è la crescita economica: un aumento del 2,7% del Pil nel 2010 (e dell’1,8% nel 2011) per il Belgio e del 3,2% per la Spagna alla fine del 2016 (nel quarto trimestre, si è registrato nel Paese anche un calo della disoccupazione, scesa al 18,6%); nel 2017 l’Olanda è cresciuta del 1,5% rispetto al primo trimestre, con un’impennata rispetto all’anno precedente (3,8%); la Germania, infine, ha registrato un aumento dello 0,6 % nell’ultimo trimestre del 2017, cioè a valle delle elezioni federali.
La logica della ‘felicità senza governo’, evidenziata dal dibattito pubblico nell’accostamento di queste esperienze alle possibili evoluzioni della situazione italiana, solleva diverse questioni. Innanzitutto, limitandoci agli ordinamenti fondati sull’alternanza politica, siamo sicuri di interpretare realisticamente l’ ‘assenza di governo’ e – di conseguenza – cosa lega l’espressione di una maggioranza all’esercizio del potere, anzi: dei diversi poteri che sono espressione di uno Stato?
Ogni Paese, poi, è influenzato dalla costituzione giuridica interna dei suoi territori, in grado di incidere sull’alternanza o la convivenza di forze politiche contrapposte. Citiamo, in questo senso, ancora il Belgio, dove “comunque”, avverte Roberto Toniatti, Ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Trento, “il Governo è un oggetto in mano a due forze. Se lo sono potuti permettere: due Governi regionali, che rappresentano i due gruppi linguistici ai quali l’esecutivo risponde. Ciò non può succedere in Italia, dove non troviamo un dualismo simile e le Regioni non hanno la capacità di governare lo Stato”.

 

Mentre nell’Eurozona si danno segni di ricrescita, cosa implica per l’Italia, nella sua proiezione internazionale, lo scarto tra attività istituzionale e stallo politico? Risponde Gianfranco Pasquino, Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna
Intervista raccolta da Virgilio Carrara Sutour

Senza un nuovo esecutivo, quali prospettive avrebbe l’Italia restando priva di una coalizione? Questa disfunzione ‘europea’ può essere l’indicatore di un’evoluzione delle future democrazie?

Professor Pasquino, parlando di ‘Governi transitori’ nelle diverse esperienze europee, è possibile capire se si tratta di una transitorietà di carattere ‘strutturale’ della politica contemporanea? Una disfunzione può diventare, a sua volta, ‘funzione’? sull’agenda politica italiana, in particolare estera ed europea?

Nelle democrazie parlamentari, i Governi sono sempre legati a situazioni che possono cambiare da un momento all’altro: sono governi ‘di coalizione’ (pertanto, se un partito decide che non vuole più starci, squilibrerà l’assetto dell’esecutivo). Gli esempi sopra riportati, però, mostrano una difficoltà nel formare un Governo dopo un procedimento elettorale. Questo dipende dal fatto che, nella situazione di cambiamento che l’Europa attraversa oggi, nascono partiti nuovi e i partiti vecchi diminuiscono dal punto di vista del numero dei seggi. Diventa, così, più difficile creare coalizioni di governo sufficientemente stabili.

Fino ad oggi, tuttavia, ciò si è verificato in un numero limitato di democrazie parlamentari – infatti sono stati menzionati 4 casi. Non sono neanche sicuro che l’Italia faccia parte dello stesso gruppo: al momento non lo possiamo ancora dire, il che significa che abbiamo almeno una decina di casi in cui i Governi sono sufficientemente stabili.

In che misura lo stallo governativo può incidere sull’indirizzo e le iniziative di politica estera nazionale?

La politica estera, non dovrebbe essere una ‘cosa di governo’, bensì ‘di sistema’: pertinente al sistema politico. Detto altrimenti, dovrebbe esserci una sostanziale continuità della politica estera, che interpreto in due modi: la politica dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea e quella nei confronti della NATO o, se vogliamo, dell’atlantismo. Tutto questo appare stabile: fatta eccezione per le poche pulsioni a uscire dall’Europa, che sono ridicole, o a fare a meno della NATO – che lo sono ancora di più -, la politica estera italiana è esattamente quella delineata, a partire dal 1949, da Alcide De Gasperi e dai suoi collaboratori e, in seguito, da Altiero Spinelli: stiamo nella NATO e agiamo nell’Europa.

Se mai, il problema è quello della capacità italiana di agire in Europa, perché non tutti sono convinti europeisti o sono europeisti ‘colti’ (cioè: sanno cosa voglia dire farne parte), né sono disposti a svolgere il ruolo di predicatori di un’Europa federale. Questo rende l’Italia sostanzialmente un partner passivo, sul quale si può fare affidamento, ma che non sviluppa nessuna iniziativa.

Pubblicato si L’Indro il 2 maggio 2018

Italians are not flirting with fascism @khaleejtimes United Arab Emirates

Italians, on the contrary, endorsed sovereignty from the North and attempted to meet the needs of the impoverished in the South.

Despite a range of stories in the overseas Press, Italy did not take a hard right turn in its March 4 national election. Sure, it voted for change but the result was far from flirting with fascism. In the country that gave the world this term, fascism remains an anathema.

Italians, on the contrary, endorsed sovereignty from the North and attempted to meet the needs of the impoverished in the South.

What exactly do we mean by the right, the far-right and populist? Certainly Silvio Berlusconi, whose Forza Italia party received 14 per cent of the vote, is not on the far-right. It would be seen as centrist in most countries.

In fact the Forza Italia now belongs to the European People’s Party, a political family on the centre-right whose roots run deep, traced all the way back to Europe’s founding fathers Robert Schuman, Alcide De Gasperi and Konrad Adenauer.

Even Matteo Salvini’s party, The League, which claimed 17 per cent of the vote, falls short of the far-right designation. Started as a separatist party to protect the interests of northern Italy, it attempted to go national but its support remains limited to the wealthier North. Salvini has an anti-immigration, Euroskeptic stance but does that really equate it with “extreme rightwing”?

Some foreign political commentators do not have a clear understanding of our country, history and reality,” says Gianfranco Pasquino, Professor Emeritus of Political Science at the University of Bologna.

Truly far-right parties, Casa Pound and Forza Nuova, each received less than one per cent of the vote, far short of the three per cent threshold needed for entry into the Italian parliament. “Casa Pound and Forza Nuova consider themselves heirs to Mussolini but they clearly flopped,” notes Pasquino.

The Five Star Movement (M5S), characterised as populist, has emerged as the single largest party in the elections. But that label might be misleading. Pasquino says, “There is only a streak of populism in them.

Overall, the M5S is an anti-establishment party. It is very critical of Italian politics and politicians, both of which are very condemnable. So there is no slide to populism in Italy,” says Pasquino. “The Italian electorate didn’t choose a populist way. Populist parties don’t form political alliances and coalition governments. They don’t make agreements in parliament. Both Salvini and Luigi Di Maio (M5S leader) will play the ordinary parliamentary game.”

The term populist in Latin means supporting the commoners – the “populus” or people, a very Rousseauian view of democracy.

Italy does not ride the far-right wave that exists in Hungary, Austria, Poland and even the Netherlands,” says Pasquino. “Italy is not Hungary where the Press faces censorship or the judicial system manipulation.

By comparison Italy’s far-right parties continue to be opposed, sometimes violently. The big question now facing the country and President Sergio Mattarella, who must mediate efforts to form a coalition, is whether the three main blocs can somehow find common ground to reach the 40 per cent majority needed to govern.

Pasquino thinks the next prime minister will not be a firebrand. “Salvini has no chance of becoming Italy’s next prime minister,” he says. The conservative bloc did not win enough votes to form a government.

The League leader “robustly and vigorously represents a specific part of the country, the interests of the people of the North“, he says, but for the first time The League left a mark in Central Italy, especially in Macerata. The brutal murder of Pamela Mastropietro in Macerata, allegedly by illegal immigrants, affected Salvini’s results in the region.

Whether the strange bedfellows of Italian politics can find common ground remains to be seen, but anything seems possible in a country whose capital is known as the Eternal City. Fractious, with regional animosities that date back centuries, the country’s politics are as labyrinthine as its winding medieval lanes. The country has had 64 governments in 72 years following WWII, and another is coming soon. But in their usual way, Italians will find a way out.

Compared to the 2,000 years ago, it is just another curve in the road.

What is certain is that Italy will never be on its way to legitimising fascism. Italian Constitution bans it.

Mariella Radaelli and Jon Van Housen

March 11, 2018  Khaleej Times