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Stelle cadenti. Pasquino spiega lo stallo del Movimento @formichenews

Come ha fatto un movimento politico al governo per più di due anni a dilapidare almeno metà del suo consenso elettorale? E chi raccoglierà le macerie delle Stelle cadenti? Il commento di Gianfranco Pasquino

Personalmente, di persona non sono interessato alle sorti politiche di Giuseppe Conte e di Beppe Grillo né, per quanto possa sembrare davvero strano, a quelle di Alessandro Di Battista. Credo sia più importante capire come un movimento politico al governo per più di due anni (ma anche tuttora) sia riuscito a dilapidare metà almeno del consenso elettorale ottenuto nel marzo 2018. Forse, il potere logora chi ce l’ha e non sa usarlo perché privo di esperienza, carente di competenza/e, incapace di apprendere (non metto il punto interrogativo). Incapace anche di rivendicare alcuni significativi successi: reddito di cittadinanza, taglio dei vitalizi, riduzione del numero dei parlamentari.

   Da tempo sostengo che i riformisti sono coloro che sanno riformare le riforme. Questa è una lezione che non soltanto i Pentastellati non hanno saputo/voluto imparare. Lo scontro Conte-Grillo ha inevitabili componenti personalistiche. Preferisco, invece, buttarla in politica. Non comincerò chiedendo a Conte e a Grillo né agli altri “notabili” dei Cinque Stelle quali libri abbiano letto sui movimenti, sui partiti, sull’istituzionalizzazione. La domanda sarebbe imbarazzante anche per molti altri dirigenti del centro-destra e della sinistra e persino per i saccenti opinionisti e i giornalisti che rispondono ai lettori. La mia risposta, naturalmente, non è che è sufficiente leggere libri, ma che i Pentastellati non hanno neppure saputo fare tesoro delle loro esperienze. Non vado fino a sostenere che il Movimento 5 Stelle non ha mai ambito ad essere un “intellettuale collettivo”.

   Sostengo, invece, che proprio le sue modalità di funzionamento impediscono che vi sia un luogo dove le esperienze si accumulano, si confrontano, diventano un patrimonio collettivo dal quale attingere. Nessuna Piattaforma, neanche quella di Rousseau, è in grado di svolgere questo compito. Di nuovo, non chiedetemi chi altri in questo sistema politico sia attualmente in grado di farlo. Vi risponderò: “e, infatti, funziona in maniera soddisfacente questo sistema politico?” Per il momento oltre che puntellato è guidato da un professore già banchiere che, per l’appunto, professionalmente ha accumulato esperienze e competenze e ne sta facendo tesoro. Dove vado a parare? In linea con il ragionamento svolto fin qui è che, lasciati da parte i destini delle persone (che sono responsabili del costruirseli e distruggerli), quello che conta sono le macerie che il Movimento 5 Stelle sta lasciando sul campo. Dal punto di vista sistemico, non soltanto non hanno saputo innervare (meno che mai sostituirla) la democrazia rappresentativa con istanze, occasioni, modalità di democrazia, ma, peggio, stanno aprendo un burrone di rappresentanza politica? Dove andranno quella metà almeno di elettori/trici sedotti nel 2018 e lentamente abbandonati?

   Al di là del voto per il (forse anche la) Presidente della Repubblica, dell’alleanza più o meno organica con un PD piantato sullo scarso 20 per cento delle intenzioni di voto, chi rappresenterà i dispersi elettori del 2018? No, la disintegrazione e neppure il raffazzonamento dei Cinque Stelle non debbono essere considerati una buona notizia per la democrazia italiana. Però, citando con approvazione il mai pentastellato Cesare Pavese, “chi non si salva da sé non lo salva nessuno”.

Pubblicato il 11 luglio 2021 su Formiche.net

Il matrimonio tra il Pd e i 5Stelle s’ha da fare (ma conta il come…) @fattoquotidiano

Da molti mesi, inesorabili e concordi, tutti i sondaggi danno il centro-destra, per la precisione Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, in chiaro e sicuro vantaggio nelle intenzioni di voto degli italiani. Altrettanto sicuramente danno per dimezzato il Movimento 5 Stelle rispetto all’esito del 2018 mentre il Partito Democratico rimane mestamente attestato appena sopra-appena sotto il 20 per cento. L’effetto Enrico Letta non c’è stato, ma in verità nel partito praticamente nessuno se l’aspettava. Una volta tornati ad essere ministri i capi correnti del PD sono lieti che la patata lessa (non bollente) del partito sia nelle mani caute di Letta, e ça suffit. Molti italiani, cerco di interpretare il pensiero di almeno quelli del centro-sinistra, si aspetterebbero che, invece di combattere fra loro, i pentastellati guardassero avanti. Vero è che, se si andrà votare con una legge proporzionale, meglio il tipo che abbia una sana soglia del 5 per cento per l’accesso al Parlamento, vi entrerebbero tanto la variante Conte-Di Maio quanto la variante Casaleggio-Di Battista: un grande fatto per loro, una certificata vittoria per il centro-destra. Giusto, quindi, che si moltiplichino gli sforzi per rimettere insieme le troppo sparse membra di quello che fu, remember?, un arrembante schieramento del 33 per cento. Il Movimento avrebbe moltissimo da recuperare fra espulsioni affrettate e emorragie poco motivate se non dalla mancanza di una cultura politica condivisa. In qualche modo, anche il Partito Democratico potrebbe porsi l’obiettivo di ricomporsi con coloro che se ne sono andati: LeU e, persino, ItaliaViva. Con i primi gli spazi di condivisione sono molto ampli; con i secondi è in corso una assurda lotta nelle primarie prossime venture che dovrebbero essere meglio utilizzate non per una sterile resa dei conti, ma per scegliere quella candidatura a sindaco di Bologna che allarghi il consenso per il centro-sinistra. Certo, per Letta discutere in maniera serena con Renzi non potrà essere né una passeggiata né un pic-nic. Quei voti, però, anche se non sono molti, servirebbero/serviranno. Comunque, non basterà ricomporre il Movimento 5 Stelle e mettere in sesto il PD. Sono essenziali grandi cambiamenti che conducano ad un accordo di fondo fra loro e che si traducano in capacità attrattiva.

Ho sempre avuto riserve sulle alleanze organiche e strutturali. La politica delle coalizioni europee ha sostanzialmente mandato un insegnamento chiaro: le alleanze elettorali, politiche, governative si costruiscono e si ripropongono di volta in volta a seconda della posta in gioco e delle preferenze dei leader, degli iscritti e degli elettori. La ri-costruzione di ciascuna alleanza è resa più o meno difficile dalle precedenti esperienze. Gli inglesi sostengono, giustamente, che success breeds success. Per dare vita a una coalizione elettorale di successo, dunque, mi parrebbe opportuno cominciare subito da qualche esperimento locale reso più agevole dalle preferenze dei dirigenti e degli attivisti, mirando ad alcuni punti programmatici particolarmente significativi. Le elezioni nei comuni al disopra dei 15 mila abitanti offrono la grande opportunità del ballottaggio per l’elezione del sindaco. Consentono, quindi, di valutare come e quanto i due elettorati, pentastellato e democratico, reagiscono rispetto alla necessità/imperativo della confluenza sulla candidatura arrivata al ballottaggio. Ma c’è di più. Consentono di vedere e di misurare sia la capacità di attrarre nuovi elettori sia di motivare parte degli astensionisti, quelli che definisco “di opinione”, cioè che per andare alle urne valutano effettivamente le proposte di nomi e di idee che vengono (loro) fatte.

Questo non è in nessun modo un ragionamento ingegneristico. Tutte le ricerche elettorali dell’ultimo decennio hanno concordemente rilevato che: 1. All’incirca un terzo o poco più degli elettori italiani, molti di quelli che vengono indicati come “indecisi” nei sondaggi, sono disponibili a cambiare opzione di voto da un’elezione all’altra, e lo hanno davvero fatto; 2. All’incirca o poco più di quel 30 per cento sono abbastanza o molto insoddisfatti di come funziona il governo/la democrazia italiana. Certo, spesso i cambiamenti di voto avvengono non da un’area all’altra, ma all’interno di ciascuna area, come potrebbe essere fra Lega e Fratelli d’Italia. Rimane, però, un 10-15 per cento di elettorato che è, userò una parola evocata dai Democratici, contendibile. Per raggiungerlo, però, sarebbe necessaria una coalizione che, partendo da PD più Cinque Stelle, vada alla ricerca dei “contendibili” con l’offerta di qualcosa di più mobilitante che l’esclusione di Salvini dal governo. Ripiegati sui loro più o meno gravi problemi, pentastellati e democratici sembrano affidare il loro destino al successo di Draghi. Non basterà.

Pubblicato il 18 maggio 2021 su il Fatto Quotidiano

“La crisi? Renzi bocciato, Conte poco accorto. E sul premier i giochi sono già fatti” #intervista @La_Sestina

Il Professore Emerito dell’Università di Bologna Gianfranco Pasquino ci dà il suo parere sulle consultazioni in corso. Promossi solo Zingaretti e Fico

di Michela Morsa

Renzi bocciato, Conte poco prudente. Zingaretti promosso senza remore. Abbiamo fatto quattro chiacchiere sulla crisi di Governo con Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Il politologo, con l’ironia che lo contraddistingue, ci ha detto la sua sui protagonisti, le procedure e le prospettive della vicenda che da settimane sta bloccando il Paese.

Buongiorno Professore, prima di tutto le pagelle dei principali attori della crisi. Che voto dà a Matteo Renzi?

«2». E non aggiunge altro n.d.r.

E al leader del Pd, Nicola Zingaretti? Secondo lei come si è mosso?

«A lui darei un 7 meno, perché è stato sempre coerente con il sostegno al Governo Conte e lo ha espresso in maniera esplicita, sobria. Soprattutto si è dimostrato un capo di partito serio: ha saputo tenere insieme il Pd, che pure ha delle tensioni al suo interno, consapevole di fungere da perno dell’esecutivo. E io apprezzo molto la serietà, soprattutto in una politica che ha troppi elementi di faciloneria, di superficialità, di ricerca della popolarità.»

Cosa mi dice invece del premier uscente Giuseppe Conte?

«A lui do un 6+: la sufficienza se la merita. Evidentemente, però, ha esagerato e ha fatto l’errore di pensare di poter trattare Renzi come aveva fatto con Salvini, e con un po’ di supponenza. Non ha capito qual era la natura della sfida. Probabilmente sarebbe dovuto essere più conciliante».

E i 5 Stelle? Il movimento sembra essere sull’orlo di una spaccatura…

«Questo è quello che dite voi giornalisti in continuazione, ma non è così. Non avete capito che quello è un movimento molto complicato al suo interno, che non è mai stato un partito e quindi non ha mai avuto un luogo vero di discussione. Ci sono posizioni politiche di vario genere, data la sua natura aperta: è entrato di tutto e, di conseguenza, esce di tutto. Come gruppo nel suo insieme meritano la sufficienza, alcuni dirigenti meritano qualcosa di più e altri qualcosa di meno. A Alessandro Di Battista do 4 e sono contento di darglielo».

Ma questa crisi era evitabile?

«No, semplicemente perché Renzi questa crisi l’ha voluta, l’ha perseguita deliberatamente grazie a quel mucchietto di voti che aveva, quindi non si poteva fare granché».

In ogni caso siamo arrivati alla resa dei conti. Oggi si riunisce il tavolo, ma cosa succede una volta concordato il programma? Si dovrà ripartire con l’ennesima consultazione per accordarsi sul nome?

«Non penso, perché credo che il nome lo abbiano già fatto, e il nome è Conte. Si ripartirebbe daccapo solo nel caso in cui Renzi, a questo punto pubblicamente, ponesse un veto sull’Avvocato. O se il programma di Governo cambiasse così tanto da rendere necessario trovare un altro nome, ma mi parrebbe francamente strano e improprio. Oltretutto, essendo formato dagli stessi partiti che hanno sostenuto Conte, sarebbe un governo indebolito in partenza».

Ma questa procedura scelta da Roberto Fico (quella appunto del tavolo di confronto su un programma tra i vari gruppi parlamentari) fa parte del consueto iter politico?

«No, assolutamente. È una sua innovazione che mi pare molto interessante e giusta. Apprezzo molto la strada da lui scelta: è un uomo intelligente e ha capito che dopo “i confessionali” era arrivato il momento di dire le cose esplicitamente, anche in modo da accelerare la procedura. Anche perché era inutile continuare a rimbalzare da un gruppo all’altro: metterli gli uni di fronte agli altri a discutere su dei punti programmatici li costringe a scoprire le carte, smetterla di parlare solo con i giornalisti e parlarsi finalmente tra di loro».

Detto ciò, quali prospettive di futuro si aspetta?

«Questo è un Paese che può risorgere in maniera difficile ma tutto sommato positiva, se sa usare bene questa valanga di soldi che devono arrivare (i 209 miliardi del Recoveryn.d.r). Ma può anche crollare definitivamente, perché nel momento in cui non riesci a usare quei soldi il Paese è in enorme difficoltà. Poi ci sono due elementi da non dimenticare: il primo è che anche se gli europei del nord ci guardano, giustamente e qualche volta in maniera eccessiva, con supponenza, l’Italia è importante: è uno degli stati fondatori dell’Unione Europea ed è comunque pesante dal punto di vista del contributo economico e culturale. L’altro elemento, che dimentichiamo sempre, è che il prodotto interno lordo italiano è sempre sottovalutato, perché questo è un Paese di balordi che non pagano le tasse: continua a esserci un quarto degli italiani che evade. In più, se guardiamo ai numeri, siamo un popolo di risparmiatori, quindi c’è del “grasso” che potrebbe attutire le difficoltà. Ma è necessario uno sforzo di disciplina collettiva».

Pubblicato il 1° febbraio 2021 su La Sestina

Così Di Maio s’inventa statista di protesta (e di proposta)

“Statisti” non si nasce, si diventa. È un processo lungo, spesso tormentato, qualche volta l’esito è un riconoscimento postumo (sì, siete autorizzati a fare gli scongiuri di rito). Nel 2005, quando divenne Cancelliera per la prima volta, pochissimi pensarono che Angela Merkel si sarebbe trasformata in una statista. Ammetto che il paragone con Luigi Di Maio che, sicuramente, statista non nacque, è comunque alquanto azzardato, ma se pensiamo ai loro rispettivi punti di partenza, il tragitto compiuto dal già due volte ministro del Movimento 5 Stelle è lungo assai. Poco più di un anno fa celebrava con un ballo da balcone l’abolizione della povertà. Da qualche mese, pure in una fase molto difficoltosa del Movimento in declino accertato, Di Maio assume atteggiamenti responsabili. Sembra (però, non voglio dubitare più di tanto) avere capito, contrariamente a molti fra i Cinque Stelle, ma anche negli altri partitini italiani, che la situazione politica e sociale in Italia è molto brutta e che le soluzioni debbono essere non proclamate, ma impostate con cura e fatte maturare. Finalmente s’è reso conto, non è l’unico nel Movimento, ma temo per lui che non sia neanche in maggioranza, che bisogna passare dalla protesta a qualcosa di più della proposta, alla traduzione concreta in comportamenti e, se del caso, leggi. Peraltro, la protesta non può essere del tutto abbandonata, meno che mai lasciata a disposizione di Alessandro Di Battista e dei suoi pasdaran. Deve, invece, essere governata. Continuerà ad esistere poiché per un periodo indefinito di tempo molte cose in Italia (e persino in Europa) non andranno come vorremmo. Protestare è, spesso, giusto, sono i modi della protesta a diventare talvolta deplorevoli e, sobriamente, Di Maio ha lasciato intendere che in effetti lui li “riprova”.

   Paradossalmente il passo indietro che ha fatto da leader del Movimento a esponente autorevole nonché ministro che impara il suo mestiere ne hanno fatto una voce ascoltata poiché non esprime soltanto ambizioni personali. Ha già avuto molto, dunque, non ha bisogno di sgomitare. Per di più grazie alla deroga alla regola dei due mandati potrà svolgerne anche un terzo, quindi, può proiettare il suo pensiero, la sua azione e la sua non automaticamente censurabile ambizione (e ne ha, eccome, ed è legittima) anche oltre l’orizzonte del secondo governo Conte. Quel governo e quel capo di governo li deve difendere non soltanto perché sono anche il prodotto, il secondo più del primo, di sue preferenze e di sue scelte, ma perché ha capito che la stabilità politica è indispensabile per chiunque intenda conseguire efficacia per le politiche che attua.

   Il futuro del governo è strettamente collegato con il futuro del Movimento. Di Maio non è l’unico ad avere capito che soltanto se il governo Conte dura, e giungendo a fine legislatura potrà vantare buoni risultati, compreso il superamento della pandemia, il Movimento potrà riacquisire almeno alcuni dei troppi voti che i sondaggi tetragoni danno per perduti dal marzo 2018 ad oggi. Di Maio ha capito che quei voti non risorgeranno da un bagno di opposizione nel quale il Movimento rischierebbe di annegare. Infine, il suo personale processo di apprendimento, finora più politico che istituzionale, ha portato di Di Maio a rendersi pienamente conto dell’importanza di una posizione aperta nei confronti dell’Unione Europea che è, ma questa è la mia opinione personale, l’àncora di salvezza per il sistema politico e economico italiano. Essere Ministro degli Esteri ha comportato la necessità di apprendere molte lezioni e di farlo in maniera accelerata vedendo anche che grama e triste è la vita dei populisti nel Parlamento europeo.  

Non possedendo qualità di introspezione psicologica, sono costretto a cercare consapevolmente nella dinamica dei sistemi politici le condizioni che influenzano quella che è la rilevante trasformazione della persona pubblica di Di Maio. Lo scriverò senza enfasi, ma in maniera solenne. Ancora una volta (in precedenza è toccato a Berlusconi, ma ne vediamo l’esito soprattutto adesso) la democrazia parlamentare ha dimostrato di essere tutt’altro che una forma debole di governo. Impedì a suo tempo molte violazioni ai governi di centro-destra e alle loro cospicue maggioranze parlamentari. Con i suoi vincoli, con le sue regole, precise, ma, entro certi limiti, anche flessibili e adattabili, ha accolto il Movimento 5 Stelle e lo ha costretto a svolgere la sua azione “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il nuovo Di Maio è anche la conseguenza apprezzabile delle costrizioni politiche e costituzionali esistenti e vitali nella Repubblicana italiana.

Pubblicato il 2 dicembre 2020 su Domani

M5S, gli Stati Generali sono una buona notizia. Pasquino spiega perché @formichenews

Non è successo poco agli Stati Generali di M5S. Al contrario, governisti e ribellisti si sono contati e pare che i primi abbiano vinto. Avanti tutta, anzi, no: adelante con juicio. Il commento di Gianfranco Pasquino

Barcamenarsi. Potrei anche scriverlo in inglese: muddling through. Ė una pratica spesso onorata e riverita. In paesi dove la politica non è veloce, barcamenarsi può anche essere una strategia, saggia.  Vero è che non sembra che i Cinque Stelle abbiano la capacità di elaborare una strategia di lungo termine, che, comunque, personalmente, sconsiglierei. Allora, finché la barca va e, in effetti, la barca, sia quello del Movimento sia quella del governo, di cui il Movimento è parte essenziale, va, è il caso apportare solo piccole correzioni di rotta. Rimanendo in metafora, la barca continuerà ad andare paradossalmente spinta dal brutto vento del Covid-19. Soltanto gli irresponsabili cambierebbero il timoniere, che continua ad avere un alto grado di gradimento, e i suoi collaboratori, in piena tempesta Covid (-19, 20, 21) Soltanto i perfezionisti vorrebbero restringere la scelta fra il movimento che fu, ma ancora in parte è, e il partito che difficilmente sarà anche perché in Italia non si fa più politica con partiti veri e propri da almeno tre lustri.

   Però, ci sono delle falle chiudere. La più evidente è quella che ha consentito ai Casaleggio di ottenere non solo una barcata di Euro, ma un notevole controllo sui pentastellati. Il distacco fra il Movimento e Rousseau è cominciato e questo spiega l’irritazione di Davide Casaleggio che sente sfuggirgli, forse definitivamente, il doppio asset: danaro e potere. L’altra falla si trovava nella maledetta clausoletta del limite ai mandati. Chi conosce un po’ di politica e di teoria della rappresentanza sa che fu un errore, ma un errore dettato dal furore anti-casta parlamentare. Quel furore si è un po’ acquietato, ma la correzione dell’errore non sarà affatto facile. I governisti già fibrillano. Alternative occupazionali prestigiose è difficile trovarne. Invece, trovare un seggio per Alessandro Di Battista sarà un gioco da bambini. Non fa problema neanche soddisfare la sua seconda richiesta che il Movimento si presenti e corra da solo. Con una legge elettorale proporzionale, di cui non si sente parlare perché evidentemente è in lockdown con tanto di mascherina, correre da soli è quasi imperativo. Poi, perché mai annunciare alleanze organiche prima del voto quando nelle democrazie parlamentari i governi non escono affatto dalle urne (come Minerva dalla testa di Giove), ma si fanno, contati i voti e i seggi in Parlamento?

Non è successo poco agli Stati Generali. Al contrario, governisti e ribellisti si sono contati. Ancora non sappiamo i risultati, ma per i numeri precisi anche negli USA ci hanno messo una decina di giorni. Ad ogni buon conto, i primi hanno vinto e i secondi si sono resi dolorosamente conto che non hanno abbastanza forza per nessuna spallata. Avanti tutta, anzi, no: adelante con juicio. Attacco a due punte: Di Maio e Di Battista, altrimenti teniamoci Vito Crimi come falso nueve, cioè il centravanti che sbuca quando serve. Se tutto quello che hanno gli altri è l’allenatore Goffredo Bettini che sdogana Silvio Berlusconi per allearsi con il quale certo non avevano votato gli elettori del PD, allora il Movimento 5 Stelle potrà anche sperare, da un lato, che un buon numero di elettori esprimerà la sua insoddisfazione, dall’altro, che il reddito di cittadinanza verrà ricordato dai suoi percettori come, risbuca la metafora marinara, un’efficace ancora di salvezza.

Pubblicato il 16 novembre 2020 su formiche.net

M5S, è tempo di ragionevolezza. Pasquino spiega perché @formichenews

Almeno una parte, non piccola, del futuro del Movimento è nelle mani di coloro che più e meglio hanno imparato, come Di Maio. Confido nella loro ragionevolezza, ma non mancherò di criticare i loro comportamenti, a cominciare da eventuali prossimi balli sul balcone

Tornato oramai da tempo dalla sua entusiasmante motociclettata guevariana in America latina, Di Battista sta mettendo a punto, anche con l’aiuto di Davide Casaleggio, la sua nuova impegnativa strategia: “el deber de todo revolucionario es de hacer la revolución”. Se proprio al momento la rivoluzione non si può fare, allora il second best è la scissión grazie alla quale un gruppo più piccolo e compatto, da lui capeggiato, tornerà ai valori originari del Movimento 5 Stelle e si attrezzerà per la conquista di qualche Palazzo.

  Essendo rimasto in patria, avendo acquisito responsabilità di governo, esercitandole più o meno bene (una valutazione equilibrata complessiva non è ancora possibile), Luigi De Maio sembra essersi fatto una convinzione molto diversa. Chi vuole cambiare un paese deve cercare di governarlo con tutte le sue contraddizioni stando in alleanza con chi ugualmente ha imparato da tempo che dall’opposizione non si governa. Di Maio ha anche, con molta fatica, imparato che in una democrazia parlamentare bisogna, per andare e restare al governo, sapere costruire delle alleanze, e per vincere le elezioni amministrative ai vari livelli, bisogna trovare accordi e candidature comuni. Quello che è successo sia dove candidati/e pentastellati/e hanno perso sia dove hanno vinto va tutto a favore della sua posizione.

   Tutti o quasi i nodi del non-programma e delle non-conoscenze manifestate fin troppo a lungo degli esponenti delle Cinque Stelle stanno inevitabilmente venendo al pettine. Applausi sono dovuti sia alla Costituzione italiana, che pure è stata ferita dal taglio e aspetta le indispensabili cure regolamentari e elettorali, sia alla democrazia parlamentare per essere riuscite a costringere giocatori inesperti e disinvolti a imparare come stare in campo e come giocare osservando le regole (un applauso anche al Presidente della Camera Roberto Fico). Tutto questo non conduce necessariamente a dare un buon voto (gioco di parole…) a tutto quello che il Movimento vuole, fa, progetta, e neppure alla sua azione nel futuro.

Di Battista non andrà da nessuna parte. Anche se ha già esagerato, confido in un suo ravvedimento operoso. I Cinque Stelle governisti dovranno ancora ingoiare qualche rospo che è tutto di loro fattura, come il MES per spese sanitarie dirette e indirette (enfasi e corsivo miei!). Dovranno trovare modalità di presenza organizzata e duratura sul territorio, che è il modo migliore per valorizzare coloro che si avvicinano loro, anche, perché no?, per ambizione. Disperdere le esperienze fatte applicando burocraticamente la mannaia dei due mandati è controproducente. Andrebbe anche a scapito del funzionamento del sistema politico. Almeno una parte, non piccola, del futuro del Movimento è nelle mani di coloro che più e meglio hanno imparato. Confido nella loro ragionevolezza, ma non mancherò di criticare i loro comportamenti, a cominciare da eventuali prossimi balli sul balcone. Déjà vu.

Pubblicato il 7 ottobre 2020 su formiche.net

Separati in casa. Cinque Stelle e PD dopo il voto @Mov5Stelle @pdnetwork @domanigiornale

Sfide immaginarie e reali, alleanze più o meno organiche da costruire, personalismi di vario genere, consensi elettorali che vengono e più spesso vanno (via), elettori volubili e volatili. In attesa di nuove, indispensabili regole elettorali e istituzionali, questo è il panorama politico italiano. Lo si vede sia sul versante del centro-destra sia su quello del centro-sinistra e, se diamo ragione (una volta tanto…) a Di Maio, sull’evoluzione(-declino, ma non “disfatta storica”, come sentenzia Di Battista) dei Cinque Stelle, sulla persistenza di un terzo polo, piccolo, ma non irrilevante, talvolta potenzialmente decisivo. Quello che è sicuro è la ridefinizione dei rapporti di forza elettorali in entrambi gli schieramenti nonché per il polo del Movimento 5 Stelle. La ridefinizione continuerà fintantoché il sistema partitico rimarrà destrutturato, vale a dire per un periodo di tempo indefinito. Naturalmente, anche la scelta della nuova legge elettorale inciderà su una eventuale, difficile, ristrutturazione. Chi vuole “la proporzionale” deve essere avvisato. Qualsiasi variante di proporzionale ha poco da contribuire per configurare un sistema di partiti caratterizzato da coesione. Anzi, la proporzionale, mai punitiva nei confronti degli scissionisti, contribuisce alla frammentazione dei partiti. Scherzando, ma non troppo, potrei dire che la proporzionale faciliterà la comparsa di una lista Di Battista obbligando il pasionario dei pentastellati a contarsi.

L’esito elettorale-politico delle elezioni regionali contiene qualche insegnamento non banale per chi, come Zingaretti e, prima di lui, Dario Franceschini, desideri la costruzione di un’alleanza “organica” con il Movimento 5 Stelle. A livello locale aderenti e elettori dei pentastellati non hanno dimostrato grande propensione a favorire e premiare una simile alleanza. Anzi, i flussi elettorali suggeriscono che i pentaelettori si disperdono in una pluralità di direzioni, andando in misura limitata a sostenere i candidati del Partito Democratico. Più interessante e più rilevatore sarà il comportamento degli elettori del Movimento al ballottaggio in alcuni comuni, ma anche il comportamento degli elettori del PD quando al ballottaggio è passato un candidato dei Cinque Stelle.

Ė più che ragionevole pensare che prima di procedere dall’alto a dichiarare l’assoluta indispensabilità di un’alleanza organica fra Cinque Stelle e Partito Democratico, i proponenti, fra i quali sembra si collochi anche Di Maio, dovrebbero cominciare valutando il sentiment (è da tempo che volevo usare questa parola!) prevalente a livello locale. Dovrebbero incentivare incontri e forme di collaborazione, facendo leva sui temi propri a quei livelli e sulle persone giuste, quelle maggiormente in grado di rapportarsi fra loro e con l’elettorato.

Al momento, quello che si vede sul territorio è un insieme di “macchie” del più vario tipo, dovute in misura maggiore alla notevole diversificazione di opinioni, di aspettative, di preferenze dell’elettorato pentastellato. Per di più, a livello locale possono giocare negativamente molte animosità, sociali e politiche, pregresse, superabili soltanto con il tempo e con l’individuazione di obiettivi comuni. Sarebbe sicuramente sbagliato accelerare il processo di riavvicinamento che deve maturare e condurre a condividere elementi significativi di una cultura politica di governo. La fusione a freddo che diede vita al PD è l’esempio assolutamente da non ripetere.

Nella prospettiva che ritengo sia praticabile e produttiva, il governo Conte è un protagonista essenziale. La sua durata offre il tempo da utilizzare a livello locale. Le sue politiche condivise sono la garanzia che la collaborazione produce frutti, a cominciare da quanto già ottenuto a livello europeo che non sarebbe stato possibile per nessun governo Salvini/Meloni, e viceversa. Una legge elettorale proporzionale che entrambi gli alleati di governo hanno dichiarato di volere è disfunzionale rispetto all’obiettivo di una collaborazione più stretta. Infatti, porrebbe Cinque Stelle e Partito Democratico in inevitabile competizione. Un buon sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali come in Francia darebbe molti incentivi agli elettori di entrambi a convergere in particolare per sconfiggere i candidati/e del più socialmente e politicamente omogeneo centro-destra. Solo nuove modalità di competizione politico-elettorali promettono di cambiare in meglio la struttura delle opportunità. Vale la pena rifletterci.

Pubblicato il 24 settembre 2020 su Domani

Sposiamoci così senza rancore. Pasquino spiega perché Zingaretti blinda Conte @formichenews

“Questo matrimonio s’ha da fare” intimò don Nicola Zingaretti. Gongolante divenne il Conte di ritorno da un faticoso viaggi fra i frugali olandesi che di tutti luoghi lo avevano portato a pranzo in un ristorante italiano all’Aia. Per il conto, naturalmente, annunciò Mark (Rutte), we go Dutch (alla romana). Rattristatissimi, invece, i retroscenisti oramai raggiunti dai commentatori politici che, avendo dato per finito il governo a maggio, poi a giugno, poi a fine luglio, settembre e oggi stesso, con Massimo Franco sul “Corriere”, a ottobre, non sapevano più dove sbattere la testa –fino alla prossima indiscrezione di Giorgetti e di un, comprensibilmente, Innominato più o meno dem. No, non è Calenda la gola profonda, lui se parla vuole assolutamente essere menzionato. Lo stabilizzatore Zingaretti, che molti danno a sua volta per sfidato da quel Bonaccini emiliano che ha strabattutto la Lega di Salvini, ha, semplicemente, “blindato” il Conte e il suo governo, nel quale sembra ci siano molti ministri del Partito Democratico, alcuni anche Bravi.

Se andiamo oltre l’inutile chiacchiericcio (ce lo chiedono gli italiani, sic), Zingaretti sa due cose importantissime. La prima è che chi non vuole destabilizzare un governo di cui fa (grande)parte deve evitare inutili critiche al capo del governo meno che mai quando sono i corso alcune battaglie epocali: in Italia la (non)concessione ad Aspi; in Europa i Recovery Funds da decidersi il 17 e 18 luglio. È imperativo che Conte arrivi sostenuto da tutti gli alleati della coalizione. Se poi ci sarà anche il sostegno del noto europeista Berlusconi e dell’ancor più noto europarlamentare Calenda, allora l’esito positivo arriverà su un piatto d’argento (o quasi). La seconda cosa che Zingaretti sa è stata comunicata a tutti da molto tempo. La differenza è che Zingaretti ha buona memoria, mentre molti commentatori si ingarbugliano nelle loro previsioni e nei loro pregiudizi.

Questo governo giallo-rosa deve durare per due buonissimi motivi. Da un lato, perché nel gennaio-febbraio 2022 toccherà a questo Parlamento il compito di eleggere il successore di Mattarella ed è preferibile che non ci sia una neo-maggioranza di centrodestra a farlo. Comunque, rimaniamo in attesa della rosa dei nomi (Casellati in testa, poi Calderoli) del centro-destra. È un gioco di società al quale non possiamo rinunciare. Dall’altro, perché, ebbene sì, nelle democrazie parlamentari spesso chi governa lo fa anche, con buona pace di Paolo Mieli, per tenere lontani dalla stanza dei bottoni e dei pulsanti alcuni oppositori che li azionerebbero a tutto discapito non solo dei governanti in carica, ma soprattutto e visibilmente della influenza italiana nell’Unione Europea. La carta sovranista ha perso quasi tutto il suo valore durante il Covid-19. È diventata un due di picche. Zingaretti preferisce qualcosa che assomigli al settebello (insieme a lui spero che questa carta si trovi nella manica della giacca di Paolo Gentiloni ).

Impedire che i sovranisti italiani, mascherati e mascarati, si assembrino a Bruxelles è un obiettivo nobile. Forse non c’è bisogno di un vero e proprio matrimonio fra PD e Cinque Stelle, con il rischio che irrompa il Dibba furioso. Basterebbe fare funzionare meglio la convivenza che in politica si chiama coalizione. Yes, they can.

Pubblicato il 11 luglio 2020 su formiche.net

M5S? Non è alla fine della sua avventura, anzi… La versione di Pasquino @formichenews

Il Movimento 5 Stelle si era illuso, per gravi, e insuperate, carenze di cultura politica, di essere immune dal conflitto di idee che si traduce in “anime” (non belle) e che non sono giunte a sintesi con Di Maio né, quasi sicuramente, ci arriverebbero con Di Battista. No, non sono ancora arrivati sull’orlo dell’abisso. Avranno modo e tempo di fare altri errori e di recuperare.

Il commento di Gianfranco Pasquino

Quando all’interno di un movimento/partito qualcuno si mette a parlare dell’esistenza di anime diverse, di “sensibilità” diverse e di altre piacevolezze retoriche e ipocrite, mi rassereno. È un terreno che conosco, già arato e praticato da quasi tutti i partiti italiani. Nel passato, alcuni, però, non avevano peli sulla lunga. Quelle anime non esageratamente sensibili erano e si lasciavano chiamare correnti, espressione di un pluralismo che, a determinate condizioni, svolge più di un compito importante. Elettoralmente, attrae un numero considerevole di voti pescando in settori sociali diversificati. Politicamente, suscita un confronto/scontro di idee, di proposte, di soluzioni. Poi, aggregazioni mutevoli di quelle correnti guideranno il partito a vittorie e sconfitte, e, allora, cambieranno le aggregazioni. Nulla di particolarmente nuovo sotto le (Cinque) Stelle se non fosse che si erano illuse, per gravi, e insuperate, carenze di cultura politica, di essere immuni dal conflitto di idee che si traduce in “anime” (non belle) e che non sono giunte a sintesi con Di Maio né, quasi sicuramente, ci arriverebbero con Di Battista.

Fin dall’inizio della loro avventura, comunque, da valutare di successo, a prescindere da come finirà (non è affatto detto che finisca presto), di anime ce n’erano inevitabilmente molte. Per loro fortuna, il predicatore Grillo sapeva parlare a tutte e prometteva abbastanza credibilmente latte e miele. Qualche eretico c’era e veniva opportunamente messo alla porta. Gli altri componevano (o nascondevano) i loro dissensi all’ombra di una piattaforma, con procedure da selva oscura. Quando, però, la scelta che bisogna assolutamente fare diventa binaria: sì/no, alla Tav, alla Gronda di Genova, al rinnovo della concessione a Atlantia, al MES (senza condizionalità), allora le differenze appaiono, ma non necessariamente “esplodono”.

Tranne gli ortodossi, che non hanno bisogno di “caratterizzarsi”, le altre anime un po’ mugugnano un po’ criticano, ma di alternative specifiche, precise, strategiche non riescono proprio a formularne. D’altronde, i due sì che contano: al governo con Salvini, al governo con il PD, li hanno già pronunciati. Tertium non datur. Infatti, quel che resta sono le forche caudine elettorali sotto le quali, almeno la metà di loro non dovrebbe arrivare avendo completato i famigerati due mandati. L’altra metà non riuscirebbe, secondo i sondaggi, a passare. Epperò, come la legge ferrea della politica insegna da tempo, qualche visibilità personale è meglio acquisirla, qualche messaggio ai potenziali sostenitori è opportuno mandarlo, qualche dissenso (a scelte non troppo chiare) bisogna esprimerlo. Se, poi, si è fuori dal governo, allora è un gioco da bambini prendere posizione contro.

Naturalmente, la corda non va tirata troppo perché finché il Movimento è la somma di molte anime e dei loro animatori conta, ottiene voti e cariche, influenza le scelte e le decisioni. Le anime perse e sparse vanno ineluttabilmente alla deriva. Molti, dentro il Movimento, a cominciare dal Fondatore e Garante, lo sanno. Altri si lasciano trascinare da loro istinti battaglieri e, forse, di rivalsa. Gli errori li pagherebbero/pagheranno tutti i pentastellati. No, non sono ancora arrivati sull’orlo dell’abisso. Avranno modo e tempo di fare altri errori e di recuperare. Quosque tandem? Almeno fino al prossimo commento.

Pubblicato il 19 giugno 2020 su formiche.net

Conte da avvocato del popolo a pubblico ministero d’Italia @HuffPostItalia

I retroscenisti si affannano a trovare i nomi dei suoi possibili sostituti, ma il Professor Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri, a suo tempo autodefinitosi “avvocato del popolo”, rimane comodo e sicuro di sé a Palazzo Chigi. È già riuscito nell’impresa solitaria, vale a dire effettuata, nella pur variegata storia repubblicana dei capi di governo, solo da lui, di guidare due governi dalla composizione molto diversa. Privo di qualsiasi base politica e, a quel che si vede, di sostegno proveniente da associazioni del più vario tipo, dei più o meno fantomatici “poteri forti”, inizialmente proposto e poi appoggiato dal Movimento Cinque Stelle, da qualche mese Conte “gioca” in proprio. La sua popolarità personale è nettamente superiore a quella dei concorrenti, Salvini e Meloni, e a quella degli alleati Di Maio, Zingaretti, Crimi. Immagino che al nome di Di Battista, la sua reazione sia una scrollata di spalle.

Nel corso del tempo, Conte ha dimostrato una dote alquanto rara: crescere nel suo ruolo, imparare senza imitare o farsi risucchiare dai politicanti e nel politichese. Ha saputo conquistarsi un’autonomia relativa dai Cinque Stelle, che hanno assoluto bisogno, non di “uno come lui”, ma proprio di lui, e anche del Partito Democratico, che non può neppure pensare di sostituirlo con uno dei suoi dirigenti perché destabilizzerebbe la coalizione e, non posso non aggiungere, non ha attualmente dirigenti all’altezza.

Conte ha dimostrato di sapere combattere le battaglie parlamentari. Nel discorso di agosto 2019 sul cambio di governo, ribaltone pienamente legittimo in tutte le democrazie parlamentari, Conte ha sovrastato Matteo Salvini, suo avvilito e allibito compagno di banco in via d’uscita. È variamente riuscito a non farsi trascinare nelle liti fra Cinque Stelle e Democratici, per esempio, sulla prescrizione. Non ha mai osteggiato gli esperti né ha ondeggiato sulle politiche che preferisce. Non può essere accusato di doppiopesismo e doppiogiochismo. Dal momento dell’insorgere del coronavirus non ha né sottovalutato la gravità della situazione né temporeggiato sulla necessità di una risposta. Qualcuno lo accusa di avere ecceduto in personalizzazione sia nelle troppo frequenti presenze televisive sia nella emanazione di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Però, non si è sottratto al confronto con il Parlamento e mi pare risibile accusarlo di autoritarismo strisciante e molto grave dargli del traditore. Forse poteva anche non reagire con durezza e criticando con nome e cognome gli accusatori, ma non era solo un problema personale, ma di dignità istituzionale. Un paese che ha a capo del governo un traditore si scredita a livello europeo e internazionale.

La scommessa più azzardata Conte l’ha fatto sul terreno in partenza meno favorevole: quello dell’Unione Europea e dei finanziamenti agli Stati-membri maggiormente colpiti dal Covid-19. Ritengo che sia partito male opponendosi ideologicamente, come, peraltro, hanno fatto quasi tutti i Cinque Stelle, a qualsiasi ricorso al MES anche quando era chiaro che i fondi per le spese direttamente e indirettamente sanitarie sarebbero erogati senza condizionalità. Però, la durezza sembra avere pagato. A livello europeo, si è aperta la strada, grazie soprattutto alla sua intransigenza, ad una politica di sostegno e solidarietà economica prima inimmaginabile.

Leadership è capacità di indicare percorsi e di guidare. Conte non è più soltanto l’avvocato del popolo –espressione, peraltro ambigua e che male si attaglia ai compiti istituzionali di un capo di governo. Si è trasformato. Restando in metafora si potrebbe sostenere che, nei confronti dell’Unione Europea, si è comportato come un Pubblico Ministero accusandola di (evidenti) inadempienze, e vincendo il processo di primo grado. Tutto, dunque, perfetto? La valutazione complessiva dell’operato delle autorità politiche si fa a fine mandato anche sulla base del loro lascito. In mezzo al guado, il Presidente del Consiglio Conte ha saputo fare di più che semplicemente barcamenarsi. Invece di interrogarsi su come e con chi sostituirlo, mi parrebbe più proficuo suggerire ai componenti della coalizione di governo quali politiche dovrebbero essere cambiate, migliorate. La duttilità mostrata dal Presidente Conte incoraggia a pensare che saprebbe fare buon uso di suggerimenti fondati.

Pubblicato il 24 aprile 2020 su huffingtonpost.it