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Tag Archives: Alexis de Tocqueville

Alla Francia delusa e lacerata non rimane che la piazza @DomaniGiornale

Gilet gialli, pensionandi, giovani: tre possenti ondate di proteste, anche molto violente, soprattutto quella dei giovani, contro i detentori del potere politico-istituzionale in Francia, in definitiva contro il Presidente Macron. La crescita del prezzo del carburante, l’aumento, peraltro contenuto, dell’età pensionabile, l’uccisione, questo sì, fatto gravissimo, di un giovane ad opera della polizia, sono sufficienti a spiegare gli scontri ripetuti, le proteste diffuse, le violenze e i saccheggi che hanno coinvolto forse qualche milione di francesi? È possibile formulare una sola interpretazione capace di coprire fenomeni che appaiono molti diversi per tematiche e partecipanti? Mi è tornata in mente una frase scritta nel 1832 circa dall’aristocratico francese Alexis de Tocqueville. Cito a memoria: “quando c’è un problema gli americani si associano”. La comparazione implicita, che spiega la sorpresa di Tocqueville, è con la Francia dove, se c’è un problema, i cittadini prennent la rue, scendono in piazza, pretendono la soluzione dalle autorità. Potrebbero fare altrimenti? Difficile immaginare i camionisti, che fanno un lavoro solitario e atomizzante, dare vita ad un’assemblea nella quale esprimere le proprie doléances, lamentele. Improbabile che uomini e donne non iscritti a associazioni professionali, che non si sentono tutelati da sindacati deboli, trovino forme di comunicazione, diverse dalla protesta in strada, che obblighino il potere a confrontarsi con le loro richieste. Fuori dalla scuola perché in vacanza, con istituti scolastici che non offrono luoghi e attività di aggregazione (“neanche un prete/un iman per chiacchierar”), niente biblioteche né sale cinematografiche, forse qualche spelacchiato campetto di calcio, privi di un lavoro anche occasionale, con genitori costretti a lunghi trasferimenti per raggiungere i loro posti di lavoro, quei giovani, spesso con la pelle non bianca, venti volte più suscettibili dei bianchi di essere fermati e infastiditi dalla polizia, hanno un’unica modalità per farsi vedere e sentire: la protesta. Possiamo stigmatizzare la loro violenza soltanto comprendendone, non necessariamente e non automaticamente giustificandola, le condizioni che l’hanno prodotta. La combinazione di una non modesta dose di autoritarismo dei detentori del potere anche poliziesco con la maturata convinzione che gli sbocchi della loro vita scolastica e lavorativa non sono affatto promettenti, certamente inferiori a quelli della maggior parte dei loro coetanei che non vivono nelle periferie, è inevitabilmente devastante. In assenza o per debolezza delle organizzazioni intermedie, sindacati, associazioni professionali e culturali, persino religiose, declino del cattolicesimo (un tempo ci furono i preti operai) e isolamento settario dell’Islam, tutto lo spazio viene lasciato alla protesta, non ultima, ma unica ratio.

Pubblicato il 5 luglio 2023 su Domani

Qualche punto fermo sul politically correct e sulla cancel culture @DomaniGiornale

“Non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America …”. La frase non è stata scritta da un contemporaneo e non da un visitatore preconcetto, ma da Alexis de Tocqueville nel 1831. La preoccupazione dell’aristocratico francese si estendeva alle conseguenze sulla nascente democrazia USA del conformismo che sopprime il dibattito delle idee, opprime i loro portatori e li reprime. Potrei dire che Tocqueville non aveva visitato abbastanza paesi per avere dati comparati a sostegno della severissima valutazione. Sono ragionevolmente convinto che la libertà di discussione sia (stata) poco tutelata in molti paesi. Poi, sappiamo tutti che la libertà di parola (free speech) è solennemente codificata nel Primo emendamento alla Costituzione USA fin dal lontano 1791, facendo parte del pacchetto noto come Bill of Rights. Ma sono le tendenze contemporanee negli USA più che altrove (anche se dagli USA spesso si irradiano) che appaiono preoccupanti. “Le idee dei paesi dominanti spesso diventano idee dominanti”: politically correct e cancel culture.

Inizio un discorso inevitabilmente complicatissimo e che è già fortemente incrostato da una molteplicità di interpretazioni. Nella sua versione buona il politically correct serve a non offendere le persone talvolta inevitabilmente celando le proprie opinioni quando divergono da quelle della maggioranza e fare un omaggio meno verbale (lip service) a quanto i più dicono. Nella sua versione “cattiva”, il politicamente corretto è la tendenza portata agli estremi di stabilire quello che è accettabile dire e quello che non è accettabile e, naturalmente, di sanzionare i devianti vale a dire coloro che non si uniformano. Nella seconda versione il politicamente corretto può giungere fino a violare la libertà di parola imponendo una censura e punendo coloro che insistono a esprimersi in maniera difforme. Nei casi di grave censura gli scorrettamente politici possono appellarsi al primo emendamento della Costituzione USA e, in Italia, all’art. 21. Nei casi meno gravi difendersi dalla coltre del conformismo di gruppo, di ceto, di massai può essere difficilissimo, quasi impossibile.

 Boicottare coloro che esprimono posizioni e comportamenti considerati non in linea con la cultura attualmente dominante, è una degenerazione del politicamente corretto. Distruggere le statue del generale sudista e schiavista Lee e i monumenti a Hitler (e Stalin) è comprensibile, anche se, talvolta, i monumenti del passato potrebbero servire a insegnare la storia. Fare a meno di Shakespeare e di Mozart, uomini bianchi morti, mi sembra proprio un esempio deplorevole di, stiracchio il concetto a mio favore, di cancellazione della cultura. Tutt’altro è il discorso relativo al vilipendio delle istituzioni, all’istigazione a delinquere, all’incitare a comportamenti criminali e, persino, alle offese e agli insulti politicamente motivati. Non credo che la libertà di parola possa essere invocata a difesa di chi oltraggia deliberatamente, ma, certamente, riconosco la complessità delle situazioni e dei giudizi. So che, in democrazia, il conflitto delle idee deve essere il più libero e anche il più aspro possibile. Non vorrei, però, che con la scusa dell’asprezza e con il richiamo alla libertà si legittimassero parole e comportamenti che mirano a minare alle fondamenta le democrazie costituzionali. Di tanto in tanto vanno posti punti fermi. Qui e adesso, pongo il mio punto, democraticamente rivedibile e superabile.

Pubblicato il 19 maggio 2021 su Domani

Consenso #DizionarioCivile #Italianieuropei

da Italianieuropei n.4/2019, pp. 151-153

 

CONSENSO, non solo in politica, significa accettazione e approvazione, di regole e leggi, di decisioni e comportamenti. Il consenso viene dal basso, ma deve essere conquistato da coloro che stanno in alto ovvero vogliono arrivarci e restarci, di solito il più a lungo possibile. Costoro, i politici, soprattutto quelli che non hanno altro mestiere, si curano del consenso, in tempi recenti lo agognano in maniera ossessiva e spasmodica. La campagna elettorale permanente è per l’appunto il prodotto e, al tempo stesso, lo strumento con il quale rincorrono, cercano di catturare e di ingabbiare il consenso del popolo, dell’opinione pubblica, dei mass media. Esistono diversi ambiti ai quali il consenso si riferisce e si applica: l’ambito delle regole e delle procedure di funzionamento di un sistema politico; l’ambito delle persone, le autorità, coloro che hanno e esercitano potere politico; l’ambito delle politiche pubbliche, le scelte e le decisioni che attribuiscono le risorse per tutta la società, per gruppi, per singoli. Se non vi è consenso sulle regole e sulle procedure, spesso tradotte e inserite in una Costituzione, al fine di evitare la situazione descritta da Thomas Hobbes: “homo homini lupus”, qualsiasi società/sistema politico si troverà esposto al rischio della disgregazione. Laddove le regole sono diffusamente accettate è più facile manifestare consenso e dissenso per le persone e per le politiche. Nelle democrazie, il consenso si esprime quasi essenzialmente, ma non esclusivamente, nelle e attraverso le elezioni: è, anzitutto, spesso soprattutto, consenso elettorale. Nella misura in cui consenso è accettazione, anche passiva, può apparire e permanere nei regimi autoritari e in quelli totalitari. Nella sua monumentale biografia di Mussolini, lo storico Renzo De Felice ha definito il periodo fra il 1929 e il 1936 “gli anni del consenso”. Consenso come approvazione di quanto il regime aveva fatto? Come accettazione passiva dell’ordine imposto? Come disponibilità a mantenerlo in carica e a sostenerne le attività? È difficile dirlo, ancor più misurarlo poiché i regimi autoritari non sono il luogo migliore per ottenere i liberi pareri dei loro cittadini/sudditi. Più facile è accertare la quantità di dissenso nei confronti del regime contando e misurando le attività delle opposizioni e la loro resistenza, ma è, ovviamente, altra cosa.

Da sempre, tutto quello che riguarda il consenso in politica ha suscitato una quantità di interrogativi. Naturalmente, il primo interrogativo è come viene acquisito. Se è consenso sulle regole e sulle procedure la sua acquisizione comincia nelle famiglie, procede nelle associazioni, culmina con l’attività dei partiti. In tutte le democrazie che conosciamo sono i partiti che organizzano il consenso e, ovviamente, anche il dissenso. Quella che si chiama “socializzazione” politica, vale a dire, trasmissione di valori e ideali, collegati al consenso per il sistema e per le sue regole, è facilitata dall’esistenza di società omogenee nella loro composizione. Il secondo interrogativo riguarda il grado di equilibrio da mantenere fra consenso e dissenso. Se il dissenso è il sale del cambiamento, allora deve avere un suo spazio che sarà probabilmente tanto più ampio sulle persone e sulle politiche quanto più diffuso è il consenso sulle regole. Le democrazie consensuali sono democrazie pacificate, ma rischiano di diventare compiaciute e snervate. Troppo consenso fa male a qualsiasi società e sistema politico. Non c‘è soltanto il rischio della possibile affermazione della tirannia di una maggioranza, ma, come scrisse profeticamente Alexis de Tocqueville, può fare la sua comparsa il conformismo sotto la cui pesante coltre non riuscirà a manifestarsi nessuna spinta al cambiamento, nessuna innovazione.

La società di massa schiaccia gli individui, soprattutto coloro che esprimano dissenso, e si isterilisce. Quando gli uomini e le donne “a una dimensione” diventano maggioranza coloro che non si uniformano e conformano saranno repressi e oppressi. In verità, questo è il terzo interrogativo, siamo sicuri che il conformismo sia qualcosa di insito nelle società di massa, inevitabile? È certamente un pericolo, ma la sua traduzione concreta discende dalle pratiche di manipolazione del consenso. Nell’epoca contemporanea, da almeno un secolo, ma chi voglia trovare una data emblematica dovrebbe rifarsi alla profezia satirica 1984 Nineteen Eighty-four di George Orwell , sono coloro che si occupano di comunicazione politica ad avere la possibilità di manipolare le modalità di formazione, di espressione, di valutazione del consenso.

Il consenso è manipolato dalla comunicazione un po’ in tutti i regimi. Talvolta, i detentori del potere nei regimi autoritari e totalitari diventano prigionieri della loro stessa manipolazione comunicativa e ne cadono vittime. Talvolta le immagini, sia televisive sia quelle trasmesse dai social, rivelano inaspettatamente che il consenso delle piazze (Tienanmen insegna) non c’è più, ma la costruzione di un nuovo e diverso consenso è affare complicatissimo e di lungo impegno. In democrazia, la manipolazione del consenso, regolarmente tentata da chi acquisisce posizioni di potere e visibilità, risulta sempre esposta alla competizione fra i comunicatori. Troppo consenso è la conseguenza, ma anche la premessa, del conformismo. Qualcuno ha già avanzato una doppia ipotesi (o doppio timore) che, primo, troppi concorrenti nella produzione di comunicazione politica finiscano per frammentare in maniera disgregatrice le audience, che insomma non si possa più formare un’opinione pubblica. Secondo, che non riescano ad affermarsi criteri condivisi con i quali valutare le proposte, le promesse, le prestazioni dei detentori del potere politico, dei partiti, delle politiche pubbliche. Non siamo destinati a passare dall’età del consenso all’età del dissenso e, forse, neppure del conflitto omnium contra omnes, quanto, piuttosto, all’età della confusione, fatta di consensi fluttuanti, volubili, sfuggenti. Non sarà prevalentemente conformismo, ma difformità, certamente non in grado di garantire l’espressione di dissenso creativo e persuasivo, incapace di trasformarsi in nuovo consenso.