da Italianieuropei n.4/2019, pp. 151-153
CONSENSO, non solo in politica, significa accettazione e approvazione, di regole e leggi, di decisioni e comportamenti. Il consenso viene dal basso, ma deve essere conquistato da coloro che stanno in alto ovvero vogliono arrivarci e restarci, di solito il più a lungo possibile. Costoro, i politici, soprattutto quelli che non hanno altro mestiere, si curano del consenso, in tempi recenti lo agognano in maniera ossessiva e spasmodica. La campagna elettorale permanente è per l’appunto il prodotto e, al tempo stesso, lo strumento con il quale rincorrono, cercano di catturare e di ingabbiare il consenso del popolo, dell’opinione pubblica, dei mass media. Esistono diversi ambiti ai quali il consenso si riferisce e si applica: l’ambito delle regole e delle procedure di funzionamento di un sistema politico; l’ambito delle persone, le autorità, coloro che hanno e esercitano potere politico; l’ambito delle politiche pubbliche, le scelte e le decisioni che attribuiscono le risorse per tutta la società, per gruppi, per singoli. Se non vi è consenso sulle regole e sulle procedure, spesso tradotte e inserite in una Costituzione, al fine di evitare la situazione descritta da Thomas Hobbes: “homo homini lupus”, qualsiasi società/sistema politico si troverà esposto al rischio della disgregazione. Laddove le regole sono diffusamente accettate è più facile manifestare consenso e dissenso per le persone e per le politiche. Nelle democrazie, il consenso si esprime quasi essenzialmente, ma non esclusivamente, nelle e attraverso le elezioni: è, anzitutto, spesso soprattutto, consenso elettorale. Nella misura in cui consenso è accettazione, anche passiva, può apparire e permanere nei regimi autoritari e in quelli totalitari. Nella sua monumentale biografia di Mussolini, lo storico Renzo De Felice ha definito il periodo fra il 1929 e il 1936 “gli anni del consenso”. Consenso come approvazione di quanto il regime aveva fatto? Come accettazione passiva dell’ordine imposto? Come disponibilità a mantenerlo in carica e a sostenerne le attività? È difficile dirlo, ancor più misurarlo poiché i regimi autoritari non sono il luogo migliore per ottenere i liberi pareri dei loro cittadini/sudditi. Più facile è accertare la quantità di dissenso nei confronti del regime contando e misurando le attività delle opposizioni e la loro resistenza, ma è, ovviamente, altra cosa.
Da sempre, tutto quello che riguarda il consenso in politica ha suscitato una quantità di interrogativi. Naturalmente, il primo interrogativo è come viene acquisito. Se è consenso sulle regole e sulle procedure la sua acquisizione comincia nelle famiglie, procede nelle associazioni, culmina con l’attività dei partiti. In tutte le democrazie che conosciamo sono i partiti che organizzano il consenso e, ovviamente, anche il dissenso. Quella che si chiama “socializzazione” politica, vale a dire, trasmissione di valori e ideali, collegati al consenso per il sistema e per le sue regole, è facilitata dall’esistenza di società omogenee nella loro composizione. Il secondo interrogativo riguarda il grado di equilibrio da mantenere fra consenso e dissenso. Se il dissenso è il sale del cambiamento, allora deve avere un suo spazio che sarà probabilmente tanto più ampio sulle persone e sulle politiche quanto più diffuso è il consenso sulle regole. Le democrazie consensuali sono democrazie pacificate, ma rischiano di diventare compiaciute e snervate. Troppo consenso fa male a qualsiasi società e sistema politico. Non c‘è soltanto il rischio della possibile affermazione della tirannia di una maggioranza, ma, come scrisse profeticamente Alexis de Tocqueville, può fare la sua comparsa il conformismo sotto la cui pesante coltre non riuscirà a manifestarsi nessuna spinta al cambiamento, nessuna innovazione.
La società di massa schiaccia gli individui, soprattutto coloro che esprimano dissenso, e si isterilisce. Quando gli uomini e le donne “a una dimensione” diventano maggioranza coloro che non si uniformano e conformano saranno repressi e oppressi. In verità, questo è il terzo interrogativo, siamo sicuri che il conformismo sia qualcosa di insito nelle società di massa, inevitabile? È certamente un pericolo, ma la sua traduzione concreta discende dalle pratiche di manipolazione del consenso. Nell’epoca contemporanea, da almeno un secolo, ma chi voglia trovare una data emblematica dovrebbe rifarsi alla profezia satirica 1984 Nineteen Eighty-four di George Orwell , sono coloro che si occupano di comunicazione politica ad avere la possibilità di manipolare le modalità di formazione, di espressione, di valutazione del consenso.
Il consenso è manipolato dalla comunicazione un po’ in tutti i regimi. Talvolta, i detentori del potere nei regimi autoritari e totalitari diventano prigionieri della loro stessa manipolazione comunicativa e ne cadono vittime. Talvolta le immagini, sia televisive sia quelle trasmesse dai social, rivelano inaspettatamente che il consenso delle piazze (Tienanmen insegna) non c’è più, ma la costruzione di un nuovo e diverso consenso è affare complicatissimo e di lungo impegno. In democrazia, la manipolazione del consenso, regolarmente tentata da chi acquisisce posizioni di potere e visibilità, risulta sempre esposta alla competizione fra i comunicatori. Troppo consenso è la conseguenza, ma anche la premessa, del conformismo. Qualcuno ha già avanzato una doppia ipotesi (o doppio timore) che, primo, troppi concorrenti nella produzione di comunicazione politica finiscano per frammentare in maniera disgregatrice le audience, che insomma non si possa più formare un’opinione pubblica. Secondo, che non riescano ad affermarsi criteri condivisi con i quali valutare le proposte, le promesse, le prestazioni dei detentori del potere politico, dei partiti, delle politiche pubbliche. Non siamo destinati a passare dall’età del consenso all’età del dissenso e, forse, neppure del conflitto omnium contra omnes, quanto, piuttosto, all’età della confusione, fatta di consensi fluttuanti, volubili, sfuggenti. Non sarà prevalentemente conformismo, ma difformità, certamente non in grado di garantire l’espressione di dissenso creativo e persuasivo, incapace di trasformarsi in nuovo consenso.