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Sarebbe un errore fatale rendere essenziale l’alleanza con i 5Stelle… #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Riccardo Tripepi

Con l’avvicinarsi delle prossime elezioni regionali, si intensifica il clima da campagna elettorale e per quel che attiene il centrosinistra, si discute sulle reali possibilità del campo largo in sperimentazione di strappare qualche regione al centrodestra e, soprattutto, sulla tenuta dell’alleanza tra PdMovimento 5 Stelle e le forze centriste. L’ennesimo scontro tra il leader di Italia Viva Matteo Renzi e l’omologo di Azione Carlo Calenda, da questo punto di vista, non fa ben sperare. Per analizzare lo scenario in continua evoluzione abbiamo discusso con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica e autore del saggio In nome del popolo sovrano – Potere e ambiguità delle riforme in democrazia.

Professore, come si presenta il centrosinistra in vista delle prossime elezioni regionali?

Il centrosinistra, per una volta, si presenta meglio del solito. Non ci sono state rotture irreparabili, e le marce di avvicinamento fra le diverse componenti sembrano più convincenti che in passato. Non tutto è risolto, ma si aprono degli spiragli per riuscire a fare qualcosa in più rispetto al recente passato. Penso che il centrosinistra possa giocarsi la vittoria in quattro o cinque regioni. Se riuscisse a conquistare anche la Calabria, sarebbe un risultato di grande rilievo. La partita in Veneto, invece, sarà molto più difficile. Nel complesso, però, arriva a questa tornata elettorale in condizioni migliori rispetto alle precedenti.

Matteo Renzi, dalla sua newsletter, ha indicato come «indispensabile» un’alleanza con i Cinque Stelle per costruire un vero campo largo. È d’accordo?

L’alleanza con i Cinque Stelle è importante, ma non dev’essere vista come una condizione imprescindibile. Il centrosinistra non può permettersi di dipendere interamente da questa intesa. La retorica che rende il Movimento Cinque Stelle “essenziale” per qualsiasi campagna o strategia elettorale è sbagliata. Sono alleati importanti ma non sono da considerare fondamentali per ogni campagna elettorale e per ogni elezione. Gli accordi vanno poi verificati caso per caso.

Il leader di Azione Carlo Calenda ha reagito con durezza alle parole di Renzi, dicendo che Azione non sosterrà mai candidati comuni con i Cinque Stelle…

Calenda reagisce male per abitudine, direi quasi per riflesso. Ma non è mai in grado di proporre un’alternativa credibile. È sbagliato porre veti perfino all’inizio della discussione. E sbaglia anche nel valutare il proprio peso politico: si illude di essere decisivo, ma finora è stato determinante solo nelle sconfitte. Un atteggiamento costruttivo sarebbe quello di contribuire alla definizione di candidature e programmi credibili, non certo quello di alzare barricate.

Lo stato di salute dei rapporti tra Pd e Movimento 5 Stelle, invece, come lo valuta?

Deve ancora migliorare. Le alleanze regionali e comunali dovrebbero essere decise in base alle dinamiche locali, non imposte dall’alto. È un errore che Conte e Schlein non devono commettere. Ogni territorio ha le sue peculiarità, e gli accordi vanno costruiti sul campo, coinvolgendo i gruppi dirigenti locali. I diktat nazionali producono solo risentimenti e fallimenti.

Per qualche interprete Pd e Movimento Cinque Stelle si stanno dividendo il Paese: il Pd punta al Centro- Nord, il Movimento al Sud, puntando anche al reddito di dignità regionale, parente stretto del reddito di cittadinanza. È così?

Può succedere che si formino queste dinamiche. Ma non bisogna esagerare con le semplificazioni. Prendiamo l’esempio di Roberto Fico in Campania: non mi pare stia interpretando una linea che punti esclusivamente verso politiche di tipo assistenzialista. È chiaro che al Sud servano anche politiche di sostegno, ma non ci si può fermare lì. Serve una strategia di sviluppo, una visione strutturata. Diversamente, si perpetua l’idea che il Sud sia solo una terra da aiutare e non da valorizzare. Ma non mi sembra strano che si offra sostegno alle aree più deboli del Paese.

E il centrodestra? Come arriva a questa tornata elettorale?

Il centrodestra parte da una posizione di forza: è al governo e ha una leader indiscussa, Giorgia Meloni, che riesce a tenere insieme la coalizione e a controllare tutto. I suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini non sono in grado di insidiarle la leadership. E poi i leader del centrodestra sanno perfettamente che devono stare insieme, non uniti, per vincere. Questo garantisce stabilità all’alleanza che può anche concedere qualche sciagurato giro di valzer a qualche attore e soprattutto a Matteo Salvini che ha bisogno di visibilità. Alla fine, però, si ricompattano sempre.

Secondo lei il risultato delle elezioni regionali può influire sulla tenuta del governo Meloni?

Credo di no. Il governo deve andare avanti sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Le elezioni regionali hanno una loro dinamica distinta e non determinano automaticamente ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo. Vale per qualsiasi maggioranza, di destra o di sinistra: governare significa assumersi la responsabilità di guidare il Paese, indipendentemente dall’esito delle consultazioni locali.

Pubblicato il 27 agosto 2025 su Il Dubbio

Perché il richiamo di Mattarella è necessario. La versione di Pasquino @formichenews

Il richiamo del Presidente Mattarella al non ricorso ai manganelli per mantenere l’ordine pubblico è totalmente conforme allo spirito della Costituzione italiana e, aggiungo con una sommessa enfasi retorica, della sua democrazia fintantoché sapremo preservarla. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Le immagini degli agenti di polizia che, a Pisa più che a Firenze, manganellano giovani studenti delle scuole superiori, sono conturbanti anche per me, uomo d’ordine. Ho cercato di guardare nei dettagli quelle immagini variamente trasmesse. Non ho visto né passamontagna né sbarre e bastoni che mi avrebbero permesso di diventare “pasoliniano”: studenti di famiglie borghesi contro poliziotti di origine proletaria. Quindi, posso schierarmi con quel borghese del Presidente della Repubblica “l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli” e “con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento». Mi permetto di non citare le prevedibilissime, non impara mai niente, parole di Matteo Salvini. Mi preoccupano, invece, quelle di Antonio Tajani: “sanzionare chi ha sbagliato, ma le forze dell’ordine non si toccano”. Se alcuni appartenenti alle forze dell’ordine hanno sbagliato, opportuno e giusto che vengano sanzionate. Punto.

Il Presidente Mattarella ha parlato in piena conformità con il dettato costituzionale. All’art. 87 sta scritto che il Presidente della Repubblica “rappresenta l’unità nazionale”. I manganelli sui volti e sulle schiene degli studenti che manifestano incrinano quell’unità nazionale che si fonda anche sulla libertà di espressione e di dissenso esplicitato in forme non violente. Sappiamo che molte telefonate fra i responsabili istituzionali avvengono in maniera riservata. La telefonata intercorsa con il Ministro Piantedosi è stata resa pubblica perché riguarda i rapporti fra cittadini e le forze dell’ordine. Non può essere interpretata come critica puntuale dell’operato di quelle specifiche forze di polizia, non come riprovazione generale del governo. Quindi, sarebbe stato meglio se tanto Salvini quanto Tajani avessero scelto la apprezzabile opzione del silenzio. Il Presidente ha voluto anche fare un richiamo più ampio a comportamenti che non debbono essere mai tollerati.

Leggo interpretazioni fantasiose secondo le quali Mattarella avrebbe/ha inteso procedere ad un “assaggio” di quello che potrebbe succedere se la riforma del premierato elettivo andasse in porto. Quella riforma toglierebbe al Presidente della Repubblica due poteri istituzionali significativi, vale a dire quello di nominare il Presidente del Consiglio e quello di sciogliere, ancor più di non sciogliere, il Parlamento. La riforma, per quanto sbagliata e piena di azzardi, non toglie la parola al Presidente. Personalmente nutro molti dubbi sull’attribuzione a Mattarella di operazioni subdole con inconfessabili fini. Il premierato elettivo, una volta approvato, dovrà essere valutato con riferimento alla costituzionalità delle sue clausole, alcune delle quali, attualmente, alquanto pasticciate. Il richiamo del Presidente Mattarella al non ricorso ai manganelli per mantenere l’ordine pubblico rimarrà comunque necessario poiché è totalmente conforme allo spirito della Costituzione italiana e, aggiungo con una sommessa enfasi retorica, della sua democrazia fintantoché sapremo preservarla.      

Pubblicato il 26 febbraio 2024 su Formiche.net

Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.

Perché, professor Pasquino?

Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.

Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?

No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.

Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?

Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.

Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?

Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.

In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.

La Scienza politica racconta un’altra storia…

Quale?

Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.

Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista

Berlusconi spera nel colle ma ha in mente un piano B @DomaniGiornale

Neanche per un momento è giustificabile pensare che Berlusconi abbia già abbandonato la speranza di diventare il prossimo Presidente della Repubblica. I numeri sui quali può contare in partenza sono il pacchetto più consistente di qualsiasi altro candidato. Dal quarto scrutinio, quello per il quale sarà sufficiente la maggioranza assoluta, i suoi numeri potrebbero, grazie ad una pluralità di apporti, essere decisivi. Composito è lo schieramento di coloro che deciderebbero di votarlo. Comprende i molti parlamentari che, in un modo o nell’altro, sentono/sanno che Berlusconi sarebbe generoso con loro, anche perché lo è già stato, e soprattutto quelli che pensano che Berlusconi presidente non scioglierebbe il Parlamento, ma consentirebbe la prosecuzione della legislatura fino alla sua conclusione naturale (marzo 2023). Per la precisione, quell’obiettivo, del tutto legittimo, di conservazione del posto di lavoro, appare molto importante sia ai parlamentari di Forza Italia e di Italia Viva, che saranno inevitabilmente a alto rischio, causa la riduzione del numero dei parlamentari, sia agli eletti del Movimento 5 Stelle, già dimezzati. Allo stato, solo i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sono certi di crescere numericamente. Peraltro, Meloni non può negare la qualifica di patriota a Berlusconi il cui incipit della discesa in campo rimane assolutamente memorabile: “L’Italia è il paese che amo”.

   Consapevole delle comunque reali difficoltà della sua candidatura, sicuramente “divisiva”, probabilmente Berlusconi ha già elaborato un piano “b”. Da un lato, vuole riprendersi il ruolo del protagonista, potrebbe essere l’ultima volta. Dall’altro, vuole impedire, come tutti i suoi “comunicatori” hanno subito affermato, che al Quirinale vada un candidato della sinistra, del PD (che per lui e forse anche per loro sono la stessa cosa). Dall’altro, ancora vorrebbe che l’uomo o la donna che verranno eletti al Colle più alto gli siano già debitori di qualcosa, siano riconducibili a lui per la sua carriera. A questo punto, inevitabilmente, bisogna fare i nomi e, in effetti, qualche nome ha già cominciato a circolare. Strappato alle sue fatiche di scrittore, Marcello Pera, già Presidente del Senato, è stato visto a Roma. Viene sussurrato il nome di Antonio Martino, già Ministro della Difesa. Inevitabilmente grazie alla sua carica, l’attuale Presidente del Senato Elisabetta Casellati, già parlamentare di Forza Italia, si trova nella cerchia dei papabili. Qualcuno potrebbe aggiungervi, non l’improbabile nome di Gianni Letta, ma quello di Antonio Tajani, ex-presidente, senza infamia e senza lode, del Parlamento europeo e coordinatore in carica di Forza Italia. Nient’affatto implausibile sarebbe la candidatura dell’ex-ministra dell’Istruzione, già sindaco di Milano, Letizia Moratti. Sembra abbia suscitato irritazione in Berlusconi, forse perché non proposta da lui stesso che non potrebbe vantarsene e che si vede privato della mossa a sorpresa.

   Non intendo discutere nei dettagli le credenziali e le qualità presidenziali di queste eventuali candidature, ma due considerazioni meritano di essere formulate. Prima considerazione: nel ventennio berlusconiano il leader non ha in nessun modo proceduto al reclutamento e alla formazione di una classe politica. Forza Italia è rimasta un partito personale e occasionale con qualche eccezione di persone che hanno ricoperto e ricoprono cariche ministeriali. Seconda considerazione: nessuna delle potenziali candidature è dotata di una visibilità significativa, di una qualche popolarità, di fonte di potere proprio. Ma, azzardo, forse queste carenze non dispiacciono a Berlusconi.

Pubblicato il 22 dicembre 2021 su Domani

Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.

   Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.

Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.

Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano           

Addio uomini di partito: la destra perde le città @fattoquotidiano

La ricerca da parte del centro-destra di candidature civiche per le cariche di sindaco in alcune importanti città: Napoli, Roma, Milano, Bologna, è stata lunga, faticosa, rivelatrice. Salvini e Meloni, politici di professione, si sono impegnati allo spasimo per individuare candidati/candidate che non avessero mai fatto politica, respingendo le fievoli alternative proposte da Forza Italia, in particolare Maurizio Lupi a Milano. Paradossalmente, da un lato, il capo della Lega e la presidente dei Fratelli d’Italia sostengono di avere una nuova classe dirigente politica, ma, dall’altro, sembra proprio che a livello locale nei loro ranghi uomini e donne politiche di rilievo non ne esistano. Se esistono vengono retrocessi rispetto a persone che possono vantare di non avere mai fatto politica: il ritorno del qualunquismo e dell’antipolitica?

   La prima verità è che il centro-destra non è affatto così coeso e compatto come affermano, forse per autoconvincersi, Salvini, Meloni e Tajani. Al contrario, al suo interno la competizione si accompagna a frequenti tensioni e la scelta di una candidatura di partito sarebbe stata molto complicata e avrebbe incrinato i rapporti. In secondo luogo, la ricerca dei “civici” dice qualcosa sulla debolezza delle strutture di Fratelli d’Italia e della Lega, almeno nelle grandi città. Non esistono uomini e donne di partito con un radicamento cittadino forte, con un curriculum impeccabile, con una rete di conoscenze che travalichi ambiti settoriali e professionali, con acclarate capacità sperimentate almeno nel governo locale. Notevole è che né Salvini né Meloni abbiano dovuto confrontarsi con loro esponenti locali che ambissero ad essere prescelti. Il segnale da cogliere e diffondere è che, proprio nelle città, il centro-destra non dispone di una classe politica a contatto con chi vive in quelle città, ci abita, ci lavora, potrebbe rappresentarne le esigenze e le preferenze. Anche da questa constatazione, consapevolezza, ovviamente non esplicite e non espresse, discende la volontà di pescare nella società. Qui sì è probabile che si trovino professionisti ambiziosi, giornalisti, magistrati, medici, imprenditori (questa volta ci sono stati risparmiati gli attori e gli sportivi), quelli che un tempo venivano definiti “notabili”. A costoro non si chiede che sappiano di politica e di amministrazione. A proposito, essere al vertice di un ospedale, presiedere un ufficio giudiziario, avere una carica in un’associazione industriale non è in nessun modo assimilabile a guidare un comune, governare una città. Forse la popolarità dei candidati sarà una risorsa importante, non necessariamente decisiva, per ottenere la vittoria. Nella campagna elettorale, soprattutto per quel che riguarda le grandi città, c’è sempre anche un fattore nazionale, vale a dire il grado di approvazione dei partiti. Molto raramente la differenza è prodotta dalla personalità del candidato/a, dalle sue qualità, dalla sua esibizione di competenze politiche di cui non dispone.     Il centro-destra non sembra essersi minimamente posto il problema del dopo la eventuale vittoria dei loro candidati civici, vale a dire come governare le città. Nella campagna elettorale che non è ancora cominciata il problema dovrà pure emergere. La sinistra lo affronta nella maniera classica, che non vuole dire ottima, ponendo l’accento sul programma, su come “fabbricarlo”, sulla professionalità, soprattutto politica, dei suoi candidati, su quello che faranno nei primi famigerati cento giorni. Un po’ dappertutto senza fantasia il centro-destra rilancia a livello locale i suoi temi nazionali: sicurezza e immigrazione, accompagnati occasionalmente da critiche ai governi locali precedenti. Quello che mi pare il punto più debole delle candidature dei civici di centro-destra è l’improbabilità che, se vincessero, riuscirebbero a godere di autonomia operativa rispetto ai partiti che li hanno sponsorizzati. In quanto civici avranno ricevuto voti sulla loro persona, ma in consiglio comunale, fatta salva l’eventualità di eletti in liste con il loro nome, dipenderanno dai consiglieri eletti dai partiti del centro-destra che risponderanno ai dirigenti di quei partiti. Se sconfitti, sarà anche stata colpa dei civici stessi; se vittoriosi saranno costretti ad accettare di essere guidati e controllati da chi ha il potere politico: dirigenti e consiglieri dei partiti del centro-destra. Questa è la ragione che sta alla base della selezione di candidature civiche. Non è così che si migliora la rappresentanza e si rigenera la politica. Al contrario, si alimenta l’antipolitica al tempo stesso che si recupera una classica manifestazione della partitocrazia: il partito che controlla e subordina i sindaci i cui elettori saranno costretti a imparare che il civismo è un vero specchietto per le allodole.

Pubblicato il 20 luglio 2021 su Il Fatto Quotidiano

C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nel centrodestra unito. Scrive Pasquino @formichenews

Dov’è la novità nella proposta di Salvini tornato da Fatima? Soltanto il tentativo di ritagliarsi qualche spazio sui quotidiani, di “animare” i salotti televisivi, di essere presente sui social sperando in questo modo di rallentare l’irresistibile ascesa della signora della destra, dei Fratelli d’Italia?

Mio nonno trova entusiasmante l’idea di una Federazione di centro-destra. Sostiene, però, che non è una idea originale. Dice di averla già visto all’opera, addirittura vittoriosa, nel 1994. Era, in verità, una alleanza a due punte, con un centravanti di peso. Al Nord l’alleanza: Forza Italia-Lega Nord fu chiamata Polo della Libertà. Al Centro-Sud l’alleanza: Forza Italia-Alleanza si chiamò Polo del Buongoverno. Il Polo della Libertà vinse in tutti i collegi uninominali della Lombardia meno uno (Suzzara). Il Polo del Buongoverno si accaparrò tutti i collegi uninominali della Sicilia (compreso quello dove era candidato Sergio Mattarella, il relatore di quella legge elettorale, “recuperato” sulla lista proporzionale). Nel 2001 il centro-destra si presentò “federato” nella Casa delle Libertà e ottenne una grande vittoria elettorale. Nel 2009 Berlusconi diede vita con Fini al Popolo della Libertà nel quale confluirono anche un certo numero di “cespugli”. Insomma, conclude mio nonno, dov’è la novità nella proposta di Salvini tornato da Fatima? Soltanto il tentativo di ritagliarsi qualche spazio sui quotidiani e anche sulla newsletter di Formiche, di “animare” i salotti televisivi, di essere presente sui social sperando in questo modo di rallentare l’irresistibile ascesa della signora della destra, dei Fratelli d’Italia?

   Suggerisce mio nonno che qualche politologo, che abbia letto almeno un libro sui partiti di destra e un articolo sui sistemi elettorali, sì, forse, ce ne sono ancora, rari e appartati, dovrebbe spiegare quando è utile e produttivo “federare” i partiti e quando no. Da tempo immemorabile i partiti e i loro dirigenti più capaci sanno che nei collegi uninominali è meglio essere presenti con una sola candidatura, a meno che la legge elettorale contempli il doppio turno grazie al quale si possono valutare le prestazioni e i voti al primo turno. Se la legge è proporzionale, divisi i partiti raggiungono elettori che altrimenti sarebbero meno inclini a votare un’indistinta aggregazione.

   Ė questo, “federare, federare, federare”, si chiede mio nonno, il modo agognato, preferito dai pensosi commentatori dei maggiori quotidiani italiani, di ristrutturare il sistema partitico italiano? Fattasi la domanda, mio nonno si è data la risposta (sommessamente aggiunge di averla trovata in non pochi libri di scienza politica): no, nessun sistema partitico è mai stato ristrutturato creando d’emblée una federazioncina di due partiti uno dei quali è in via di sfaldamento. Poi, rivelando di essere molto antico, mio nonno ha anche chiesto quali siano le basi culturali della Federazione di centro-destra. Non potrà certamente essere il sovranismo l’asse portante. Sarà, dunque, l’europeismo? Esiste un pensatore europeista nella Lega (no, non lo era Alberto da Giussano, ma neppure Carlo Cattaneo, “filosofo militante” lo definì Bobbio)? Qual è l’europeista di riferimento di Forza Italia? Forse l’ex-Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani? A questo punto, sconfortato assai, mio nonno ha affermato che triste è la storia di un paese in cui il dibattito pubblico si alimenta di notizie che non hanno senso e non aprono nessuna prospettiva. Mi ha suggerito di fare sempre commenti che ricordino la struttura delle situazioni e che non si appiattiscano sulla congiuntura. Se n’è andato con un sorriso portandosi via tutte le informazioni utili per partecipare da cittadino consapevole alla Conferenza sul Futuro dell’Europa. 

Pubblicato il 6 giugno 2021 su formiche.net

La caccia ai candidati civici svela il poco (o nulla) dietro Meloni e Salvini @DomaniGiornale

Non ho mai creduto alle parole dell’Ecclesiaste: “c’è un tempo per le candidature dei politici e c’è un tempo per le candidature dei civici”. Ma, se così fosse, il miscredente che è in me ammetterebbe di avere già visto il tempo dei civici e di non averlo particolarmente apprezzato. Peraltro, so che i politici hanno avuto alti e bassi, più i primi anche se mai davvero molto alti. Ciò detto, noto che la ricerca da parte del centro-destra di candidati civici per l’elezione dei sindaci delle grandi città è oramai diventata spasmodica. Spuntano in qua e in là nomi improbabili e nomi di persone che comunicano rapidamente di non essere stati neppure contattati e comunque di essere indisponibili. L’imperativo di Salvini, Meloni e Tajani (Berlusconi tace per motivi di salute) è trovare un medico famoso, un grande avvocato, un imprenditore di successo (che ha fatto molti soldi? ha creato numerosi posti di lavoro?) per contrapporli ai candidati del centro-trattino-sinistra. Talvolta anche il centro-sinistra va alla sua ricerca di civici, ma ha diversi vincoli che gli derivano a Roma come a Torino, e soprattutto a Bologna, dalle aspettative di carriera degli appartenenti alle sue, per quanto squilibrate e fatiscenti, organizzazioni di partito. Non bisogna deludere chi ha fatto della politica il suo mestiere. Bisognerà comunque sistemarlo/a, piazzarlo.

   Credo che tentare il ricorso ai “civici” sia, da un lato, fuori moda, dall’altro, riveli una deprecabile debolezza della politica, talvolta, però, agevolata e premiata dall’elettorato per qualche cattiva ragione, vale a dire, per sentimenti antipolitici e per incomprensione delle scelte che si vanno a compiere. Si possono anche vincere le elezioni sfruttando la popolarità acquisita da alcuni candidati nelle loro rispettive professioni. Tuttavia, è fin troppo banale rilevare e sostenere che, raramente, anzi, quasi mai, alla popolarità si accompagnano capacità di governo. Invece, una volta ottenuta la carica, contano proprio le capacità di esercitarla. Come dicono gli americani: it is another ball game. Ė tutt’altro gioco. Per di più potrebbe persino essere cambiato l’atteggiamento complessivo della grande maggioranza degli elettori. Negli ultimi anni, in alcune città e in Parlamento, gli apprendisti allo sbaraglio non hanno dato eccellente prova di sé.

Temo, però, che, dietro la ricerca delle candidature civiche, ci sia, non confessabile e mai confessata, una motivazione assolutamente riprovevole, valida per entrambi gli schieramenti. Una volta eletti, i civici senza esperienza e senza competenze, per di più anche senza collaboratori propri, diventeranno facili prede di Fratelli d’Italia e della Lega, dei loro consiglieri comunali, più esperti e più professionalizzati. Quei sindaci civici saranno dipendenti dai leader dei partiti che li hanno scelti e li hanno portati alla vittoria. Chi sa che nei tanti dinieghi finora ricevuti dalla girandola di nominativi prospettati non figuri anche la consapevolezza del gravi rischi di un’autonomia contrastata e impedita.

   Infine, ma non è affatto una considerazione marginale, mentre il governo Draghi offre il tempo per la (ri)costruzione di una politica decente in questo paese, soprattutto il centro-destra comunica, senza volerlo, senza rendersene conto, un messaggio deludente: dalla nostra classe dirigente non riusciamo a esprimere candidature preparate e esperte di uomini e donne politiche in grado di vincere e di governare le città italiane. Dietro Meloni e Salvini poco o niente? 

Pubblicato il 25 maggio 2021 su Domani

Le gambe corte dei sovranisti dello stivale @EURACTIVItalia

Il sovranismo è poca dottrina e molta pratica deludente. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sostengono che l’Italia ha colpevolmente ceduto parte della sua sovranità oppure che, altrettanto colpevolmente, se n’è fatta espropriare dai burocrati e dagli eurocrati di Bruxelles. Su queste affermazioni senza fondamento hanno conquistato voti, ma non sono in grado di elaborare una dottrina. “Prima gli italiani” è affermazione vaga e propagandistica. Contiene di tutto un po’ tranne che un progetto. Nella pratica va subito a cozzare con “Prima gli Ungheresi”, “Prima i Polacchi” e, naturalmente, “America, first”. Però, l’America è lontana, molto più lontana della Russia di Putin, amico e, forse, in qualche modo, finanziatore della Lega. Invece, ungheresi e polacchi, i “veri” finlandesi, i “democratici” svedesi, i “fortunosi” olandesi e via via tutti i sovranpopulisti dell’Europa contemporanea non sono amici. Inevitabilmente, costitutivamente, i sovranisti non possono trovare alleati a livello sovranazionale se non in chiave negativa: contro, per l’appunto, coloro che perseguono politiche di coordinamento e collaborazione che tentano di combinare interessi e preferenze, valori e obiettivi in partenza “nazionalmente” diversi.

Salvini e Meloni queste modalità di accordi con le loro controparti sovraniste non le hanno trovate, e non soltanto per loro personale incapacità. Con la sua Forza Italia, Berlusconi si era trovato regolarmente in contrasto con i Popolari Europei, del cui gruppo nel Parlamento europeo pure faceva parte (grazie ai suoi molti “numeri”, ma mi concedo di non essere più preciso…). Nei suoi non luminosissimi anni di governo, Berlusconi si era spessissimo trovato in contrasto con la Commissione Europea, in chiara minoranza nel Consiglio Europeo, critico delle scelte che venivano fatte fino ad attribuire la sua fuoruscita dal governo nel 2011 ad un complotto metà “europeo” metà ordito dal Presidente francese Nicholas Sarkozy e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Da qualche tempo, non saprei con quale credibilità, Berlusconi sembra essere diventato l’anima europeista del centro-destra italiano. In una certa misura questa (ri)conversione è dovuta ad Antonio Tajani. Infatti, come potrebbe l’ex-Presidente del Parlamento europeo manifestare atteggiamenti anti-europeisti? Con quale coerenza politica e personale potrebbe schierarsi contro scelte e politiche che i Popolari europei (a cominciare dalla democristiana Ursula von der Leyen) formulano, appoggiano e approvano, contribuiscono ad attuare? Berlusconi deve anche avere pensato che con la sua posizione di europeista può attirare voti di elettori italiani conservatori, ma non anti-europei. Anche a Forza Italia manca, però, una qualsiasi elaborazione culturale relativa all’Europa che vogliono.

Ciò detto, è la dura lezione dei fatti che si è abbattuta, attraverso il Coronavirus, sulla Lega e su Fratelli d’Italia nonché, naturalmente e giustamente, anche sugli altri sovranisti del continente. Da solo, nessun paese si risolleverà facilmente, meno che mai, anche perché più pesantemente colpita, l’Italia. Salvini e Meloni hanno un bel dire che l’Unione Europea deve fare di più, dare di più, impegnarsi di più, ma il fatto rimane che l’Unione Europea sta facendo qualcosa che nessuno Stato-membro riuscirebbe a fare da solo. Sta concedendo fondi non nella disponibilità di qualsiasi singolo Stato. Sta proiettandosi anche nel futuro con impegni che nessun sovranista può assumere e il cui adempimento non sarebbe comunque in grado di garantire. In ultima istanza, il sovranismo è “bellum omnium contra omnes” sul campo di battaglia europeo (e poi, Trump volendo, mondiale: distruzione di quel che rimaneva dell’ordine internazionale liberale). L’Unione Europea è condivisione, collaborazione, trasformazione. Allora, i sovranisti del nostro stivale debbono alzare la voce per coprire il silenzio delle loro non-proposte e le loro contraddizioni. Continueranno a farlo fino all’afonia.

Pubblicato il 4 giugno 2020 su euractiv.it

La piazza di Salvini e Meloni non aiuta la destra. Pasquino spiega perché @formichenews

Dalle piazze di Roma (no, di Pappalardo non voglio neppure discutere, farei un torto persino a Salvini e Meloni) è venuto un rumoroso messaggio che non è sufficiente per coprire e nascondere un grande vuoto culturale. Alla destra italiana il compito di elaborazione politica, di aggiornamento, di proposta. Il commento di Gianfranco Pasquino

 

Le piazze del 2 giugno hanno messo in mostra il vero volto della destra italiana. Nel giorno della Festa della Repubblica, ammirevolmente “interpretata” dal Presidente Mattarella, i sovranisti, che pure questa Repubblica dovrebbero esaltare, hanno fatto i loro piccoli e meno piccoli sfregi. Peccato che Tajani (Forza Italia) non si sia sentito imbarazzato e non abbia preso le distanze. La libertà di manifestare non è minimamente in discussione. Dopodiché, se gli assembramenti sono vietati, una destra “legge e ordine” non si accalca. Mantiene le distanze. Non si sbraccia e abbraccia. Si mette e conserva le mascherine. Se la destra vuole criticare il governo Conte, lo può fare. Non è un “diritto”, ma una facoltà da esercitare dove e quando vuole, magari in Parlamento (che, lo voglio ricordare solennemente, può essere autoconvocato da un terzo dei parlamentari, art. 62), meglio se non in una ricorrenza nazionale. Almeno la Repubblica dovrebbe essere patrimonio di tutti gli italiani (o quasi), anche di quelli che un tempo non molto lontano facevano un uso improprio (che classe!) del tricolore.

Non ho nessun dubbio che anche il Presidente della Repubblica può, in una democrazia, essere criticato, che non è la stessa cosa del diventare oggetto di insulti e di offese. No, non hanno dato un bello spettacolo la destra e i suoi sostenitori piazzaioli. Con tutta probabilità, non poteva essere diversamente. In quanto predicatore di “buona Politica”, sono costretto a ricordare a chi esibisce il rosario le parole della Bibbia (che stanno sicuramente scritte anche nella Bibbia sventolata dal convertito Trump): “Chi semina vento raccoglie tempesta”. E, aggiungo, perde credibilità.

La destra italiana ha mostrato le sue grandi difficoltà di elaborazione politica, di aggiornamento, di proposta. Si può chiedere di più all’Unione europea, meglio se, per essere appunto credibili, si riconosce quello che ha già fatto, comunque promesso. Naturalmente, “chiedere” all’Unione europea significa prendere atto che l’Italia non ha né perso né ceduto la sua sovranità, ma la condivide con altri Stati, la maggioranza dei quali intende cooperare, coordinare i suoi sforzi per alleviare l’impatto della pandemia e attutirne le conseguenze. Riconoscere questo “stato dell’arte” implica fare esplodere la dottrina (sic) del sovranismo, curiosamente intrattenuta anche da frange di sinistra: i sovranisti convergenti.

No, l’Italia non starebbe meglio se, lo scrivo con un verbo vago, si allontanasse dall’Europa e si ponesse in una condizione di lockdown politico. Privata della carta del sovranismo, che cosa è la destra italiana, più precisamente, che cosa sono la Lega per Salvini premier e Fratelli d’Italia? Personalmente, sono molto “antico” e quindi chiedo: quale cultura politica (non solo rivendicazioni) nutre e sostiene la destra italiana? Dalle piazze di Roma (no, di Pappalardo non voglio neppure discutere, farei un torto persino a Salvini e Meloni) è venuto un rumoroso messaggio che non è sufficiente per coprire e nascondere un grande vuoto culturale. Play it again, Sal.

Pubblicato il 3 giugno su formiche.net