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Moro 16 marzo 1978: un rapimento che cambiò la storia?
Da quando il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, la domanda è sempre, giustamente, la stessa: “quell’azione cambiò la storia d’Italia?”. Alla luce di quanto è successo da allora e di quanto abbiamo imparato sulla politica italiana (e europea), la risposta di alcuni fra i contemporanei e, per quel che conta, la mia, sembra essersi trasformata nel corso del tempo. Sicuramente, la politica cambiò, ma Moro aveva già perso la sua battaglia dentro la DC. Non gli era stato sufficiente riportare Andreotti a Palazzo Chigi come rassicurazione ai suoi oppositori interni e esterni. Anzi, proprio quel governo senza ministri comunisti segnalò a Berlinguer che la sua strategia di compromesso storico era arrivata al capolinea. Sarebbe stata frettolosamente sostituita un anno dopo dall’alternativa democratica che escludeva i democristiani e sfidava i socialisti di Craxi. Moro non avrebbe più potuto tessere la sua tela che, secondo fin troppi interpreti, avrebbe dovuto portare ad una mai precisamente definita democrazia “compiuta”, forse includendo in maniera subalterna il PCI in un ennesimo governo a guida DC. Ma il compromesso storico di Berlinguer non solo era un’operazione che guardava molto più lontano della semplice formazione di uno o più governi. Richiedeva il riconoscimento di protagonista della politica italiana allo stesso livello della DC. Troppi analisti hanno sottovalutato, quasi nascosto che, da un lato, la grande maggioranza dei democristiani non riteneva affatto auspicabile qualsivoglia coalizione di governo con i comunisti di Berlinguer e che, dall’altro lato, fra i comunisti i convinti del compromesso storico erano probabilmente una minoranza, per quanto grande, sorpassata dagli oppositori e, soprattutto da coloro che vi vedevano una opportunità tattica, per andare al governo. Dopodiché, la superiore organizzazione del PCI e la disciplina dei dirigenti e dei parlamentari avrebbero avuto la meglio su quel partito di correnti in conflitto permanente che era la DC. Sia Berlinguer sia Moro credettero che l’effervescenza sociale, anche violenta, eravamo negli anni di piombo, potesse essere ingabbiata in una inusitata alleanza di “partiti-chiesa”, così definiti dal sociologo Franco Alberoni, i cui “fedeli” stavano diventando meno ossequienti e meno praticanti. La democrazia italiana non si stava muovendo nel senso della compiutezza, ovvero la possibilità di alternanza al governo estesa anche al PCI. Al contrario, in pochi anni tanto la DC quanto il PCI cominciarono a perdere voti scendendo dalle vette elettorali raggiunte nel 1976. La formazione della coalizione del pentapartito con prima un repubblicano, Spadolini, poi un socialista Craxi come Presidente del Consiglio segnalò con estrema chiarezza che, sì, la politica italiana era effettivamente cambiata (che non significa in nessun modo migliorata), ma anche che né la strategia di Moro né, tantomeno, quella di Berlinguer avevano concretamente avuto la minima possibilità di essere attuate.
Pubblicato AGL il 16 marzo 2023
Gli equivoci su Marco Biagi a vent’anni dalla sua morte @DomaniGiornale


Nel corso dei venti anni passati dall’omicidio di Marco Biagi ad opera delle Brigate Rosse, ho partecipato personalmente a molte delle cerimonie in suo ricordo. Il contenuto propriamente di celebrazione e di affetto si è spesso combinato efficacemente con la riflessione sulle idee e sulle proposte del giuslavorista. Di recente, però, e in particolare nell’ultima occasione, ho avuto la sgradevole impressione che sia molto cresciuto il peso della retorica e piuttosto diminuita l’attenzione alle sue idee. Anzi, troppi commentatori hanno sottolineato l’importanza del suo Libro bianco dedicato alle riforme del mercato del lavoro senza indicarne l’originalità, mentre altri le sostengono come furono scritte dimostrando in questo modo di non avere capito il senso del riformismo di Biagi. Poiché conoscevo Marco da almeno vent’anni posso affermare con certezza che ne sarebbe alquanto infastidito. Entrambi insegnavamo sia al Bologna Center della Johns Hopkins University sia al Dickinson College. Condividevamo idee di sinistra anche se, proprio nell’ultimo periodo, Marco, sicuramente socialista, aveva accettato di collaborare con il socialista Maurizio Sacconi, sottosegretario al Lavoro (Ministro Roberto Maroni) nel secondo governo Berlusconi (2001-2005), governo che personalmente ritenevo un disastro e criticavo pubblicamente. Una migliore regolamentazione del mercato del lavoro, sosteneva Marco, poteva ottenersi soltanto introducendovi maggiore flessibilità, dunque, ritoccando il famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, garantendo protezione, offrendo riqualificazione e producendo reinserimento effettivo ai lavoratori che perdessero il posto di lavoro.
Le sue considerazioni erano saldamente collocate nella conoscenza comparata dei mercati del lavoro in Europa e in Giappone e le sue proposte si basavano sulle migliori di quelle esperienze. Quando seppe che l’allora Segretario generale della CGIL Sergio Cofferati (due anni dopo inopinatamente scelto dagli ex-comunisti per diventare sindaco di Bologna) aveva definito “limaccioso” il suo Libro bianco (ha fatto bene l’ex sindacalista socialista Giuliano Cazzola a ricordare l’episodio), Marco ne fu molto amareggiato. Pensava di meritare critiche più puntuali e meno livorose alle quali replicare con ragionamenti e dati. Non credette mai, come molti di coloro che oggi lo lodano eccessivamente, che le sue proposte fossero impeccabili e intangibili. Da buon riformista sapeva che le situazioni sono destinate a cambiare e che soltanto dopo una prima fase di applicazione delle sue proposte si sarebbero ottenute le informazioni necessarie per valutarne bontà e efficacia e per procedere ad una eventuale rimodulazione. Sentirsi lodare oggi per qualcosa che avrebbe sicuramente cambiato, adattato, riformulato, e vedere che le sue proposte vengono quasi imbalsamate lo avrebbe piuttosto irritato. Tuttavia, non per questo avrebbe smesso di elaborare idee e proposte nella convinzione, questa sì assoluta, che nessun riformista può credere che i problemi siano risolvibili in un sol colpo una volta per tutte, ma che anche le migliori delle riforme, come quelle da lui prospettate, meritano di essere sempre considerate riformabili. A maggior ragione le riforme che riguardano la vita dei lavoratori. Questo è il vero lascito di Marco Biagi che merita meno retorica e più attenzione e approfondimento. La prossima volta.
Pubblicato il 23 marzo 2022 su Domani
Una cultura della coalizione: l’eredità di Roberto Ruffilli
Il senatore democristiano Roberto Ruffilli fu ucciso dalle Brigate rosse il 16 aprile 1988 nella sua abitazione di Forlì
Sono passati trent’anni da quel sabato pomeriggio 16 aprile del 1988 quando un commando delle Brigate Rosse assassinò il sen. Democristiano Roberto Ruffilli nella sua abitazione di Forlì. La motivazione, nient’affatto delirante, ma certo frutto di una malsana ossessione, era che attraverso la sua attività di studioso e di riformatore delle istituzioni, Ruffilli cercava di rendere più forte e, quindi, più repressivo lo Stato. In effetti, Ruffilli stava elaborando riforme condivisibili in grado di migliorare il funzionamento dello Stato italiano, dargli più autorevolezza, produrre governi più efficienti grazie ad una legge elettorale che offrisse buona rappresentanza ai cittadini elettori. Oggi, sicuramente, Ruffilli non tratterrebbe il sorriso di fronte a chi volesse valutare le proposte da lui avanzate quale capogruppo della delegazione DC in Commissione Bozzi (novembre 1983-1 febbraio 1985), come se non fossero passati trent’anni di stravolgimenti, interventi deformanti, collasso dei partiti, declino della qualità della classe politica. Di quella Commissione, mi limiterò ai nomi di alcuni democristiani, che vi avevano attribuito grande importanza, fecero parte Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Mario Segni. Ciò detto, non posso resistere a quello che non è un puro gioco di immaginazione, ma è una riflessione fondata sulla mia conoscenza di Roberto Ruffilli come studioso e come persona, vale a dire chiedermi se Ruffilli aveva colto l’essenza del problema e se le soluzioni da lui allora prospettate avrebbero senso anche oggi. Subito, Ruffilli mi farebbe notare che, studiando e continuando a imparare, era disponibile a cambiare, se necessario, idee e proposte. Dunque, chi volesse conoscere le sue valutazioni su quanto in seguito è stato fatto, non fatto, malfatto, dovrebbe piuttosto seguire i suoi principi ispiratori.
Senatore eletto come indipendente dalla DC il cui segretario era Ciriaco De Mita, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamentare tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo. Alla fine dei lavori la Commissione votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del PCI e del PSI, che suggeriva come sistema elettorale la rappresentanza proporzionale personalizzata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. Allora gli espressi il mio, parziale, ma fermo, dissenso. L’Italia di quegli anni aveva, secondo me, bisogno di una cultura della competizione, premessa di qualsiasi democrazia bipolare, maggioritaria, capace di alternanza. Nei lunghi anni trascorsi ho capito meglio quello che Ruffilli voleva dire e quello che è necessario fare. Cultura della coalizione significa costruire uno schieramento maggioritario intorno a priorità programmatiche con patti chiari da rispettare e da attuare consentendo senza riserve che lo schieramento/ partito che ha ottenuto più voti/seggi esprima il capo della coalizione. La leadership deve sempre rimanere contendibile, ma, per citare Aldo Moro, di cui Ruffilli fu grande e convinto estimatore: “chi ha più filo tesserà più tela”.
Troppo facile concludere che si troverebbe a disagio con il clima, la congiuntura, la mancanza di stile della politica italiana di oggi. Avrebbe, comunque, continuato a studiare, scrivere, partecipare a incontri (numerosi quelli che abbiamo fatto insieme in mezza Italia di fronte a “pubblici” prevalentemente cattolici-democratici) a, per usare un’espressione alla quale ricorreva scherzosamente, “spezzare il pane della scienza”. Caro Roberto, il pan ci manca.
Pubblicato il 16 aprile 2018